Allen
~
Due anni
fa, mentre ero in vacanza in Puglia, avevo iniziato a scrivere un diario di
bordo molto particolare. Era una creazione tutta mia, l’unione di frammenti
appena abbozzati delle storie di vari personaggi immaginari, che nei loro sentimenti
e nei loro ‘luoghi del cuore’ avrebbero chiarito come stava procedendo la mia
estate. Un’idea strana, no? Devo ammettere che in quel periodo ero piena di
nostalgia e di rimpianti. Questa storia – la migliore, a mio parere – lo
dimostra bene. Proprio ieri sono tornata a spulciare quel diario, accorgendomi che
una storia del genere potrebbe partecipare al concorso indetto da EFP per
l’estate e che, in ogni caso, mi piacerebbe portarla alla luce.
Sperando
che, nonostante la brevità, riusciate ad apprezzarla, vi auguro una buona
lettura. Sarebbe perfetta sulla riva del mare, verso sera.
Ali.
~
«E’ così è ora di partire, eh?»
Mi voltai verso di lui. Stava sorridendo, con lo
sguardo rivolto verso il mare e il sole che tramontava all’orizzonte. Una luce
soffusa e caldissima stendeva le sue braccia fino a noi, che stavamo seduti
sulla sabbia e lasciavamo il vento libero di accarezzarci.
Non avevo mai sentito quella nostalgia. Quel sordo
dolore che mi riempiva il petto e impediva di pensare davvero. C’era una
spiegazione a tutto questo?
Allen restava in silenzio. Dopo la domanda che si
era lasciato sfuggire, così, a fior di labbra, non aveva più aggiunto nulla.
Per un attimo la falsa pace in cui trascorrevamo le ultime ore si era spezzata
e aveva rivelato i nostri veri sentimenti. Ma Allen era stato abile a chiudere
subito la porta e a seppellire tutta la tristezza dietro quel sorriso
malinconico che ora indirizzava al tramonto quasi spento.
«Non sembra vero…», mormorai.
Ma Allen sembrava non ascoltarmi. Chiuse gli occhi
e alzò il viso alla luce morente.
«Possibile che sia finita?», chiese.
Pensai di rispondere, ma qualcosa nella sua
espressione me lo impedì. Sentii, senza motivo, che non stava parlando con me.
Non proseguì. Le sue parole scivolarono via in
silenzio e lui le lasciò andare. Respirò a pieni polmoni la brezza del mare e
non smise di sorridere.
Quel sorriso mi faceva male, perché mi ricordava
quanto dolore stessi provando anch’io.
Non era un dolore molto profondo,
ma spigoloso, tagliente. E faceva più male di una ferita.
Quando mi voltai a guardare di nuovo Allen,
sussultai. Una lacrima era scesa sulla sua guancia, pallida nonostante le
lunghe giornate di sole.
«Non tornerò più…»
Lo disse così piano che pensai di essermelo
immaginato.
«Cosa?»
Allen non si ripeté. Ma liberò un’altra lacrima,
che seguì la prima su un percorso già tracciato troppe volte. La goccia
scintillò un attimo e poi finì nell’oscurità dell’ombra incipiente.
Il tramonto stava morendo.
«Perché? Ehi, Dom…
Perché?»
Restai in silenzio, sentendomi troppo distante.
Non riuscivo a capirlo, proprio non ce la facevo, e cominciavo a pensare che
non ne sarei mai stato capace.
Allen aprì gli occhi e si voltò a guardarmi. L’azzurro
dell’iride destra si puntò nelle mie. E mi sembrò che indugiasse sul taglio
obliquo dei miei occhi troppo asiatici.
L’altra iride, quella verde, continuò a guardare
il mare.
A volte, quando stavo con lui, mi sarebbe piaciuto
avere i suoi occhi. Per poter guardare nello stesso momento una persona e
un’altra. Non perdere mai il contatto con la realtà, con la vita.
Rimase a fissarmi per un minuto interminabile.
Abbassai lo sguardo, a disagio e lo sentii ridere, ma a bassa voce, come per
paura di rompere una quiete fragilissima.
Il silenzio mi avvertì che potevo rialzare gli
occhi. Allen non mi guardava più: le sue iridi così strane si erano puntate di
nuovo sul mare, enorme. Avevo sempre pensato che, anche se si era ormai provato
il contrario, fosse davvero infinito.
«Perché non reggi il mio sguardo?»
Mi morsi un labbro, capendo di avere sbagliato.
Un’altra volta.
«Sono i miei occhi? Ti
fanno paura?»
«No».
Allen si voltò alla mia risposta immediata e
attese che mi spiegassi.
Il suo sguardo vacuo, inafferrabile, osservava la
mia espressione.
«E’ solo che…», tentai. «A volte mi metti a
disagio».
«Io?»
Sembrava davvero sorpreso.
«No, ma…», continuai. «Non mi guardare così a
lungo…»
Sorrise. E questa volta la malinconia era quasi
scomparsa dal suo sguardo. In realtà, io sapevo bene che era ancora lì,
acquattata nell’ombra, ad attendere che abbassasse la guardia.
«Va bene. Scusa».
Il rimorso nella sua voce mi fece pentire delle
mie parole.
«No. Non-»
«Tranquillo», m’interruppe. «E’ tutto a posto».
E sembrava realmente che fosse tutto a posto.
Se qualcuno ci avesse osservati da una barca,
lontano dalla riva, avrebbe pensato che dovevamo stare proprio bene. Seduti
sulla spiaggia in una serata d’estate, a parlare da soli di cose che a tutti
non si possono dire.
Eppure, non era così. Tra di noi c’era una scarica
negativa che rivelava la realtà delle cose.
Solitudine. Rimpianti. Addii. Erano quelli che ci
sentivamo appiccicati addosso, come fastidiosi vestiti bagnati.
«Io vado su».
Mi voltai per studiare i suoi occhi ancora una
volta. L’espressione indecifrabile mi rendeva difficile capire cosa pensasse,
ma dopo gli anni passati insieme qualcosa l’avevo imparato.
Il sorriso era sparito. Al suo posto c’era una
smorfia, quasi dolorante, come quella di un soldato ferito in guerra che non
vuole arrendersi alla morte.
«Dove?»
Allen intanto si era alzato e si stava
stropicciando la maglietta verde.
Sorrise ancora una volta, ma era un sorriso
forzato, persino ai miei occhi inesperti.
«Alla casa del vecchio».
«Perché?»
Non capivo. Cosa voleva fare,
l’ultimo giorno d’estate, alla casa del vecchio?
Ma non rispose.
Mi venne vicino e si inginocchiò per arrivarmi
all’altezza del volto. Puntò l’iride azzurra nelle mie, come prima, e
ridacchiò. Non capii perché. Ma non si soffermò sulla mia espressione e
probabilmente fu perché gli avevo chiesto di non farlo più. Strinse gli occhi
in un’immagine della tristezza che non ho mai scordato. Poi sospirò,
lentamente, quasi avesse paura di farsi sentire.
Alla fine mi diede una pacca sulla spalla.
In quel gesto mi sembrò fosse racchiuso un
messaggio. Ma non lo decifrai e per me rimase solo il vuoto. E la sensazione di
avere ancora, tempo dopo, la sua mano sulla spalla.
«Abbi cura di te», mormorò, guardandomi con
intensità.
E subito dopo si alzò, fuggendo i miei occhi.
«Cosa…?», cercai di chiedere.
«Beh, io vado», m’interruppe. «Saluta gli altri da
parte mia». Sussultò e, a bassa voce, si corresse: «Cioè… Di’ loro che arrivo
fra poco».
Inclinai la testa di lato, in una domanda muta.
Perché sapevo che a lui piaceva quel movimento, fatto da me. Diceva che
sembravo un bambino piccolo.
Ma Allen, questa volta, non rise come avrebbe
fatto di solito.
Avrei voluto che accadesse e rimasi sgomento
quando invece vidi una nuova lacrima scendere sulla sua pelle. Saltò dalle sue
ciglia e affondò sulla guancia, scivolando giù.
«Allen…»
«Shh», mormorò. «Va tutto
bene».
Sospirò ancora, questa volta a lungo, come per
scaricare una tensione di cui non capivo l’origine. Tentai di dire qualcosa, ma
il suo sguardo m’inchiodava nel mio silenzio.
Sembrò riprendersi e riuscì a sorridere.
«Allora, addio», rise. Lo disse per scherzare: il
suo sguardo diceva così.
Ma avevo sempre saputo che il suo sguardo era
contraddittorio e mentiva.
Mi voltò le spalle e s’incamminò.
Nella mia mente rimase l’immagine del suo sorriso
malinconico e di quella lacrima, che scendeva lenta sulla sua guancia.
Quando sparì dietro gli scogli, sentii un enorme
dolore al petto che non seppi spiegarmi.
Addio
Allen,
pensai.
E avevo ragione.
Quella fu l’ultima volta che lo vidi.