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Autore: theashtrayygirl    08/08/2011    6 recensioni
La ragazza lo fissò con gli occhi spalancati. Non riusciva a capire se doveva essere felice o triste per quello che le aveva appena detto. Sapeva solo che voleva sentirlo parlare ancora, voleva che le spiegasse ancora quello che sentiva, voleva capirlo e aiutarlo. Voleva salvarlo dal baratro in cui stava cadendo.
TeddyxVictoire
Genere: Malinconico, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Teddy Lupin, Victorie Weasley
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nuova generazione
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you’re gonna be the one that saves me

Londra sotto la pioggia lo aveva sempre affascinato. Che fosse una delle città più magiche al mondo, era qualcosa di assolutamente certo, ma, secondo il suo modesto parere, sotto la pioggia acquistava tutto un altro aspetto. Trovava dannatamente interessante osservare come l’acqua che cadeva fitta poteva annebbiare i contorni di qualunque angolo, anche di quelli a lui più familiari. Persino il London Eye, da sotto un bel diluvio, riusciva ad acquistare un’apparenza completamente nuova. Nessuno degli altri passanti sembrava farci caso, tutti concentrati com’erano a correre al riparo per non bagnarsi completamente, eppure lui, ogni volta che la pioggia cominciava a cadere, si fermava, qualsiasi cosa stesse facendo, e la fissava venire giù dalle nuvole, incessante e incurante del caos calmo che creava. Non che i londinesi non fossero abituati alla pioggia, anzi, per loro non era nulla di speciale. Ma non per Ted Lupin. Oh no, per lui la pioggia era la cosa più interessante del mondo, per lui odorava di vita. Molto probabilmente perché, quando aveva più o meno sette anni, era nata in lui una ferma convinzione secondo la quale le gocce d’acqua erano gli spiriti delle persone morte, che venivano a trovare i vivi per salutarli e cercare di recuperare almeno un po’ del tempo che gli era stato strappato via. Gli piaceva pensarlo perché in quel modo si sentiva molto più vicino ai suoi genitori. Ogni volta che pioveva, lui correva fuori e cominciava a saltare e ridere, felice, incurante delle urla di sua nonna Andromeda che lo richiamava da dentro casa. Cosa c’è di sbagliato, sono con la mia mamma e il mio papà! Le urlava, ridendo, mentre gli occhi della donna si riempivano di lacrime, miste tra il dolore provocato dalla mancanza di suo marito, della figlia e del genero, e tra la commozione di constatare quanto suo nipote fosse un bambino sensibile.  Ora che era cresciuto, sapeva bene che non era così, che i suoi genitori non sarebbero mai potuti tornare, neanche se essi l’avessero voluto con tutti loro stessi. Eppure, lui continuava ad amare la pioggia, continuava ad amare la sensazione che provava quando le gocce d’acqua  lo inzuppavano completamente, quando gli tracciavano linee fredde sulla pelle, linee che gli davano i brividi, ma in modo positivo. Erano dei brividi che lo facevano sentire umano, fragile, e lo facevano sentire anche tremendamente bene. Tremendamente vivo. E quello era proprio un giorno in cui aveva bisogno di sentirsi vivo, di sentirsi bene per un po’. Erano passati diciannove anni dalla battaglia di Hogwarts. Diciannove lunghi anni, in cui lui era pian piano diventato un uomo. Non era stato facile, si era sentito solo molte volte, anche se attorno a lui c’erano tantissime persone che gli volevano bene  e lo appoggiavano. C’era sua nonna, la sua dura, ma affettuosa nonna. C’era Harry, il suo padrino, colui che gli aveva fatto da padre senza chiedere nulla in cambio, che gli aveva aperto le porte per farlo entrare nella famiglia che era riuscito a costruirsi nel corso della sua vita. E c’era, appunto quella famiglia, così grande, bella ed accogliente. Quando si trovava davanti alla parola ‘casa’, Teddy non poteva far altro che pensare a quella miriade di persone dai capelli rossi e la personalità forte, con annessi figli. Quando era con loro, si sentiva al sicuro, e per un attimo riusciva a capire cosa vuol dire avere una famiglia vera. Ma nonostante tutto, Ted era sempre stato un ragazzo concreto. Sapeva bene che quella non era la sua reale famiglia, ma solo una famiglia, per così dire, adottiva. Non che loro non lo ritenessero parte integrante del nucleo familiare, anzi, ma Ted si rendeva conto che era sbagliato abusare dell’affetto che quelle persone gli donavano con così tanto altruismo. Con i più piccoli era tutta un’altra storia però. Era un po’ come un cugino acquisito per la maggior parte di loro, e qualcuno, alle volte, si era anche azzardato a dirgli che lo riteneva come un fratello maggiore. La cosa faceva molto piacere a Teddy, che non rinunciava di certo ad estraniare anche lui i suoi sentimenti nei loro confronti. Era un ragazzo sorridente, Ted. Era ottimista, perché riteneva che il vedere tutto nero non lo avrebbe di certo aiutato a vivere meglio. Eppure, tutti gli anni, per un giorno intero, nessuno era capace di farlo sorridere. Ogni anno, il due maggio, Ted si spegneva. Non gli interessava minimamente dare l’impressione di star bene. Perché avrebbe dovuto? Lui non stava bene, e non lo sarebbe mai stato. Durante il resto dell’anno, il resto della vita, riusciva a combattere quella sensazione che gli attanagliava le viscere talmente tanto da fargli venire la nausea, che gli faceva così male da mozzargli il fiato. Ma quel giorno, in quel singolo giorno aveva bisogno di sfogarsi. Non voleva vedere nessuno, voleva solo piangere, piangere e camminare, e pensare. Pensare alla vita di cui era stato privato così prematuramente da non averne neanche potuto avere un assaggio. Col passare del tempo le sue camminate erano diventate sempre più lunghe, sempre più lontane. Aveva cominciato col camminare intorno a casa sua con le mani in tasca, e adesso, a diciannove anni compiuti, stava camminando per Londra, sotto la pioggia, con l’ennesima bottiglia di birra in mano. Era sera, ma lui non se ne era neanche reso conto. Era fradicio dentro e fuori, per colpa della pioggia, della malinconia e dell’alcol. Lo trovava stupido e incosciente, buttarsi nell’alcol per assopire il dolore, ma aveva comunque bisogno di farlo, altrimenti il peso dei suoi pensieri l’avrebbe schiacciato, l’avrebbe fatto affogare nel mare del suo dolore. Forse perché era completamente ubriaco, forse perché la sua sofferenza si poteva percepire anche a tre metri di distanza, fatto sta che nessuno gli si era avvicinato durante quella sua lunga camminata. Così, senza la benché minima idea di come ci era arrivato, si era ritrovato su Victoria Embankment. Il Tamigi scorreva veloce, ingrossato dalla pioggia, e Ted lo fissava, portando di tanto in tanto la bottiglia alla bocca. Il bruciore dell’alcol che gli scendeva giù per la gola lo teneva sveglio. Quel giorno, era un giorno maledetto. Era stato l’anniversario più doloroso di tutta la sua vita. Non aveva mai provato tutto il dolore che aveva provato in quelle ore, mai si era sentito così a pezzi, così distrutto. Alla sofferenza provocata dalla mancanza dei suoi genitori, si era aggiunta la sensazione di essere terribilmente sbagliato. Per la prima volta, in quel giorno aveva pensato anche alla sua vita reale, a coloro che gli stavano accanto e che gli volevano bene, e che di sicuro  soffrivano vedendolo così. Si era sentito un rifiuto umano, si era odiato. E ora si stava cercando di trovare il coraggio di scusarsi, il coraggio di andare avanti e non comportarsi mai più in quel modo. Ma non aveva la più pallida idea di dove lo avrebbe potuto trovare, quel coraggio. Gli sarebbe piaciuto saperlo, ma dopo ore passate a pensarci, era ancora al punto di partenza. Era ancora solo e pieno di dolore. «Hey…» Una voce lo trascinò prepotentemente via dai suoi pensieri, una voce che conosceva fin troppo bene. Si girò a guardare la ragazza, confuso, decidendo se lei fosse davvero lì o tutta quella scena fosse solo una creazione della sua mente annebbiata dall’alcol. Quando incontrò i suoi occhi, e vi lesse una forte apprensione, decise che la prima opzione era di sicuro la più valida. «Vic-Victoire» riuscì a balbettare, la voce roca per il poco utilizzo e la bocca impastata. Si mosse istintivamente verso di lei, ma inciampò sui suoi stessi piedi. Lei fece un balzo verso di lui e lo aiutò a rialzarsi con una mano, mentre reggeva un ombrello aperto nell’altra. «Sei ubriaco fradicio» sussurrò, quasi con la paura che se avesse parlato ad alta voce il ragazzo si sarebbe spaventato e sarebbe fuggito via. «Non è vero» riuscì a dire lui alzandosi, per poi però barcollare nuovamente e appoggiarsi al parapetto alla sua destra. «Si che è vero» ribattè la ragazza, questa volta con un tono più duro, che costrinse il ragazzo a distogliere lo sguardo dal suo viso. «Magari un po’ sì…» concedette, lanciando uno sguardo mortificato verso la bottiglia, che giaceva sul muretto, poco distante dalla sua mano. Victoire si intenerì a quella vista, e gli mise una mano sulla spalla. La pioggia si stava facendo sempre più fitta, e Ted era allo scoperto, così la ragazza lo protesse con il suo ombrello. Lui la guardò a lungo con uno sguardo che le parve indecifrabile, poi spezzò il contatto, riportando la sua attenzione sull’acqua del fiume che scorreva rapida sotto di loro. «Come stai, Ted?» gli chiese lei dopo un po’. «Come vuoi che stia?» le lui rispose amaramente, mordendosi un labbro. La ragazza sorrise tristemente, per nulla sorpresa dalla risposta di Ted. «Vuoi andare a casa?» tentò dopo qualche altro minuto di silenzio. «No.» ribattè risoluto lui. La ragazza lo guardò, senza sapere cosa fare. Vederlo così la distruggeva, la corrodeva dentro. Non ce la faceva, avrebbe fatto di tutto pur di farlo reagire, persino continuare a riempirlo di quelle domande stupide per la quale si sarebbe odiata anche da sola. Sempre meglio vederlo arrabbiato, che apatico. Se si fosse incazzato almeno un po’, avrebbe solo voluto dire che era ancora vivo e capace di provare qualcosa. «Questo tuo modo di comportarti, di isolarti… non fa bene a nessuno Ted». Lui si girò di scatto verso di lei, gli occhi in fiamme bruciavano di una rabbia troppo a lungo repressa. Non poteva permetterle di parlargli in quel modo, di dirgli quelle cose. Un conto era pensarlo da solo, un conto era che glielo dicesse lei. Era tutto un altro paio di maniche, era fastidioso, era umiliante. «Non osare dirmi come mi devo comportare, tu non sai… non puoi capire quello che provo» sbottò, distogliendo di nuovo lo sguardo da lei. «Lo so perfettamente che non capirò mai, ma questo non vuol dire che non ti possa aiutare a star meglio…» ribattè lei, dapprima duramente, poi con la voce che man mano si addolciva sempre di più. «Io voglio aiutarti a star meglio» completò, accarezzandogli la guancia. Lui si scostò, senza guardarla. «Se vuoi aiutarmi davvero, vattene via». L’aveva detto in tono volutamente freddo. Aveva davvero bisogno che lei se ne andasse, non riusciva a sopportare di farla soffrire a quel modo. Era vero, quando lei era accanto a lui tutto era più leggero, tutto era più semplice, ma non voleva mostrarsi così debole ai suoi occhi, non voleva farle del male con il suo dolore. «No» disse incredula lei, cercando di catturare il suo sguardo. «Io non me ne vado Ted Lupin, non fin quando non sono sicura che tu stia meglio» gli prese il mento tra le mani e, con forza, lo costrinse a guardarla negli occhi. Per un momento le parve di cogliere un cedimento, ma subito dopo lui sfuggì di nuovo al suo tocco. «Ti ho detto vattene via» ripetè, fermo, senza guardarla. «Perché?!» sbottò lei, con il fiatone. Lui le rivolse uno sguardo pieno di sofferenza, che le tolse il fiato. Con quel solo gesto, riuscì a percepire tutto quello che provava il ragazzo in quel momento, tutte le sensazioni strazianti che gli attraversavano il petto, che gli impedivano di comportarsi normalmente, che gli impedivano di lasciarsi andare, di lasciarsi guardare mentre la sofferenza lo faceva lentamente a pezzi. «Perché?! Che razza di stupida domanda è questa? Non lo vedi, come soffro? E adesso te lo chiedo io, Victoire, perché dovresti rimanere qui e guardarmi soffrire, facendomi soffrire ancora di più? Perché, eh Victoire?» le parole gli uscirono dalla bocca come un fiume in piena. Le urlò come se fossero i suoi ultimi minuti di vita, come se qualsiasi cosa dipendesse da quelle frasi sputate fuori con veemenza. Victoire non sapeva cosa dire, lo fissava e basta, senza muovere un muscolo. «Perché, nonostante io soffra nel vederti così, voglio starti accanto. Perché ti voglio bene, Ted.» Riuscì a dire alla fine, cercando di mantere ferma il più possibile la voce. «Mi vuoi bene?» sussurrò lui con gli occhi spalancati. «Mi vuoi bene?» urlò poi, con un espressione così straziata dal dolore che Victoire ebbe quasi paura che potesse fare un gesto avventato da un momento all’altro. «Tu mi vuoi bene, Victoire? Davvero?!» urlò ancora, girandosi e tornando sotto la pioggia. Si voltò di nuovo e, stavolta, la guardò «Sai una cosa Victoire? Se fossi una persona normale,  desidererei con tutto me stesso che questo giorno non esistesse. Se fosse davvero così, i miei genitori sarebbero ancora vivi, ed io adesso avrei una vita normalissima, avrei un padre ed una madre, avrei una famiglia vera, quella che non ho mai avuto.» Il suo tono di voce si era abbassato, ma la sofferenza che provava stava diventando sempre più palese. Si vedeva da come apriva la bocca, da come si muoveva, dal colore dei suoi occhi: nero, nero come la pece più scura, come le ali di un corvo in un giorno tempestoso. «Eppure, anche se avrei in qualche modo il dovere di pensarlo, non ci riesco. Non ci riesco, capisci? Non ci riesco perché se questo giorno non esistesse, non esisteresti neanche te. E mi odio per questo. Mi odio, capito? Mi odio, perché in qualche strano e assurdo modo, per quanto il dolore mi squarci il cuore ogni volta che questo maledetto giorno arriva, una parte di me è infinitamente grata al mondo che questo giorno esista. Perché io non so se riuscirei a vivere senza di te Victoire.» La ragazza lo fissò con gli occhi spalancati. Non riusciva a capire se doveva essere felice o triste per quello che le aveva appena detto. Sapeva solo che voleva sentirlo parlare ancora, voleva che le spiegasse ancora quello che sentiva, voleva capirlo e aiutarlo. Voleva salvarlo dal baratro in cui stava cadendo. «Lo capisci, perché non voglio che tu mi veda soffrire?» Ted si avvicinò sempre di più. «Perché io ti amo, Victoire. Ti amo da star male, ti amo e ti amo, e non faccio altro che pensare a te, a noi. Non faccio altro che pensare a quanto tu sia bella, a quanto tu sia dolce, buona e perfetta. A quanto mi senta completo ogni volta che riesco a farti sorridere. Ti amo, Victoire, come non ho mai amato nessuno, come non amerò mai nessun altro. Ti amo, lo capisci che ti amo?» lentamente, Ted aveva ripreso a piangere, e alla fine era arrivato a singhiozzare. Si era liberato, dopo tanto tempo, dopo tanta attesa, le aveva confessato tutto ciò che provava per lei, tutto quello che sentiva nei suoi confronti. E avrebbe voluto urlarglielo altre mille volte, fino a perdere la voce. Victoire, dal canto suo, aveva lentamente lasciato scivolare l’ombrello dalla sua mano. Non le importava bagnarsi, voleva soltanto saltargli addosso, abbracciarlo, baciarlo e passare il resto della sua vita tra le sue braccia. Gli accarezzò una guancia, lentamente, tentando di sorridergli e trasmettergli tutto quello che pensava, di fargli capire che anche lei lo amava, lo amava da morire, e non avrebbe mai smesso. Ted la guardò per qualche secondo, le lacrime che sgorgavano dai suoi occhi copiose, poi, con uno slancio istintivo, la abbracciò. «Io ti amo Vic, io ti amo…» continuò a singhiozzare, affondando il volto nella sua spalla. La ragazza lo strinse a se, mentre anche le sue lacrime si mischiavano alle gocce di pioggia che oramai le cadevano ribelli sul viso. «Sssh, va tutto bene. Anche io ti amo Ted. Va tutto bene, ci sono io qui. Ti amo.» gli sussurrò, la voce rotta dall’emozione. Restarono così, abbracciati, fino a quando i singhiozzi di Ted divennero più sommessi e sempre meno frequenti. Victoire non smise mai di accarezzarlo e sussurrargli che lei era lì, che non lo avrebbe mai lasciato. Lentamente Ted riprese il controllo di se. Tolse la testa dall’incavo della spalla di Victoire, senza però districarsi dal suo abbraccio. Appoggiò la sua fronte contro quella di lei e la guardò negli occhi, perdendosi per qualche secondo nel blu cobalto delle sue iridi, che assomigliavano così tanto al colore che assumeva il mare che si poteva vedere da casa della ragazza. «Vic?» sussurrò. «Sì?» gli rispose lei, con voce flebile. «Buon compleanno».  

gre’s corner:
Questa storia è venuta di getto fuori in una sera, e devo dire che ne sono abbastanza. Ted e Victoire sono uno dei miei più amati otp potteriani, e me li immagino in modo un po’ tutto mio e particolare, quindi molto probabilmente non rispecchieranno i vostri headcanon, Pazienza, ognuno ha il suo in fondo (: ad ogni modo, spero che vi piaccia comunque questa mia one shot. Ah, il titolo è ispirato alla meravigliosa canzone degli OasisWonderwall”. L’ho sentita durante tutta la stesura della storia, quindi posso ben dire che è stata la mia musa ispiratrice.

  
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