you’re gonna be the one that
saves me
Londra
sotto la pioggia lo aveva sempre affascinato. Che fosse una delle città più
magiche al mondo, era qualcosa di assolutamente certo, ma, secondo il suo
modesto parere, sotto la pioggia acquistava tutto un altro aspetto. Trovava
dannatamente interessante osservare come l’acqua che cadeva fitta poteva
annebbiare i contorni di qualunque angolo, anche di quelli a lui più familiari.
Persino il London Eye, da sotto un bel diluvio,
riusciva ad acquistare un’apparenza completamente nuova. Nessuno degli altri passanti
sembrava farci caso, tutti concentrati com’erano a correre al riparo per non
bagnarsi completamente, eppure lui, ogni volta che la pioggia cominciava a
cadere, si fermava, qualsiasi cosa stesse facendo, e la fissava venire giù dalle
nuvole, incessante e incurante del caos calmo che creava. Non che i londinesi
non fossero abituati alla pioggia, anzi, per loro non era nulla di speciale. Ma
non per Ted Lupin. Oh no, per lui la pioggia era la cosa più interessante del
mondo, per lui odorava di vita. Molto
probabilmente perché, quando aveva più o meno sette anni, era nata in lui una
ferma convinzione secondo la quale le gocce d’acqua erano gli spiriti delle
persone morte, che venivano a trovare i vivi per salutarli e cercare di
recuperare almeno un po’ del tempo che gli era stato strappato via. Gli piaceva
pensarlo perché in quel modo si sentiva molto più vicino ai suoi genitori. Ogni
volta che pioveva, lui correva fuori e cominciava a saltare e ridere, felice,
incurante delle urla di sua nonna Andromeda che lo richiamava da dentro casa. Cosa c’è di sbagliato, sono con la mia mamma
e il mio papà! Le urlava, ridendo, mentre gli occhi della donna si
riempivano di lacrime, miste tra il dolore provocato dalla mancanza di suo
marito, della figlia e del genero, e tra la commozione di constatare quanto suo
nipote fosse un bambino sensibile. Ora
che era cresciuto, sapeva bene che non era così, che i suoi genitori non
sarebbero mai potuti tornare, neanche se essi l’avessero voluto con tutti loro
stessi. Eppure, lui continuava ad amare la pioggia, continuava ad amare la
sensazione che provava quando le gocce d’acqua
lo inzuppavano completamente, quando gli tracciavano linee fredde sulla pelle,
linee che gli davano i brividi, ma in modo positivo. Erano dei brividi che lo
facevano sentire umano, fragile, e lo facevano sentire anche tremendamente
bene. Tremendamente vivo. E quello era proprio un giorno in cui aveva bisogno
di sentirsi vivo, di sentirsi bene per un po’. Erano passati diciannove anni
dalla battaglia di Hogwarts. Diciannove lunghi anni,
in cui lui era pian piano diventato un uomo. Non era stato facile, si era
sentito solo molte volte, anche se attorno a lui c’erano tantissime persone che
gli volevano bene e lo appoggiavano. C’era
sua nonna, la sua dura, ma affettuosa nonna. C’era Harry, il suo padrino, colui
che gli aveva fatto da padre senza chiedere nulla in cambio, che gli aveva
aperto le porte per farlo entrare nella famiglia che era riuscito a costruirsi
nel corso della sua vita. E c’era, appunto quella famiglia, così grande, bella
ed accogliente. Quando si trovava davanti alla parola ‘casa’, Teddy non poteva far altro che pensare a quella miriade di
persone dai capelli rossi e la personalità forte, con annessi figli. Quando era
con loro, si sentiva al sicuro, e per un attimo riusciva a capire cosa vuol dire
avere una famiglia vera. Ma nonostante tutto, Ted era sempre stato un ragazzo
concreto. Sapeva bene che quella non era la sua reale famiglia, ma solo una
famiglia, per così dire, adottiva. Non che loro non lo ritenessero parte
integrante del nucleo familiare, anzi, ma Ted si rendeva conto che era
sbagliato abusare dell’affetto che quelle persone gli donavano con così tanto
altruismo. Con i più piccoli era tutta un’altra storia però. Era un po’ come un
cugino acquisito per la maggior parte di loro, e qualcuno, alle volte, si era
anche azzardato a dirgli che lo riteneva come un fratello maggiore. La cosa
faceva molto piacere a Teddy, che non rinunciava di
certo ad estraniare anche lui i suoi sentimenti nei loro confronti. Era un
ragazzo sorridente, Ted. Era ottimista, perché riteneva che il vedere tutto
nero non lo avrebbe di certo aiutato a vivere meglio. Eppure, tutti gli anni,
per un giorno intero, nessuno era capace di farlo sorridere. Ogni anno, il due
maggio, Ted si spegneva. Non gli interessava minimamente dare l’impressione di
star bene. Perché avrebbe dovuto? Lui non stava bene, e non lo sarebbe mai
stato. Durante il resto dell’anno, il resto della vita, riusciva a combattere
quella sensazione che gli attanagliava le viscere talmente tanto da fargli
venire la nausea, che gli faceva così male da mozzargli il fiato. Ma quel
giorno, in quel singolo giorno aveva bisogno di sfogarsi. Non voleva vedere
nessuno, voleva solo piangere, piangere e camminare, e pensare. Pensare alla
vita di cui era stato privato così prematuramente da non averne neanche potuto
avere un assaggio. Col passare del tempo le sue camminate erano diventate
sempre più lunghe, sempre più lontane. Aveva cominciato col camminare intorno a
casa sua con le mani in tasca, e adesso, a diciannove anni compiuti, stava
camminando per Londra, sotto la pioggia, con l’ennesima bottiglia di birra in
mano. Era sera, ma lui non se ne era neanche reso conto. Era fradicio dentro e
fuori, per colpa della pioggia, della malinconia e dell’alcol. Lo trovava
stupido e incosciente, buttarsi nell’alcol per assopire il dolore, ma aveva
comunque bisogno di farlo, altrimenti il peso dei suoi pensieri l’avrebbe
schiacciato, l’avrebbe fatto affogare nel mare del suo dolore. Forse perché era
completamente ubriaco, forse perché la sua sofferenza si poteva percepire anche
a tre metri di distanza, fatto sta che nessuno gli si era avvicinato durante
quella sua lunga camminata. Così, senza la benché minima idea di come ci era
arrivato, si era ritrovato su Victoria Embankment. Il
Tamigi scorreva veloce, ingrossato dalla pioggia, e Ted lo fissava, portando di
tanto in tanto la bottiglia alla bocca. Il bruciore dell’alcol che gli scendeva
giù per la gola lo teneva sveglio. Quel giorno, era un giorno maledetto. Era
stato l’anniversario più doloroso di tutta la sua vita. Non aveva mai provato
tutto il dolore che aveva provato in quelle ore, mai si era sentito così a
pezzi, così distrutto. Alla sofferenza provocata dalla mancanza dei suoi
genitori, si era aggiunta la sensazione di essere terribilmente sbagliato. Per
la prima volta, in quel giorno aveva pensato anche alla sua vita reale, a
coloro che gli stavano accanto e che gli volevano bene, e che di sicuro soffrivano vedendolo così. Si era sentito un
rifiuto umano, si era odiato. E ora si stava cercando di trovare il coraggio di
scusarsi, il coraggio di andare avanti e non comportarsi mai più in quel modo.
Ma non aveva la più pallida idea di dove lo avrebbe potuto trovare, quel
coraggio. Gli sarebbe piaciuto saperlo, ma dopo ore passate a pensarci, era
ancora al punto di partenza. Era ancora solo e pieno di dolore. «Hey…» Una voce lo trascinò prepotentemente via dai suoi pensieri,
una voce che conosceva fin troppo bene. Si girò a guardare la ragazza, confuso,
decidendo se lei fosse davvero lì o tutta quella scena fosse solo una creazione
della sua mente annebbiata dall’alcol. Quando incontrò i suoi occhi, e vi lesse
una forte apprensione, decise che la prima opzione era di sicuro la più valida.
«Vic-Victoire» riuscì a
balbettare, la voce roca per il poco utilizzo e la bocca impastata. Si mosse
istintivamente verso di lei, ma inciampò sui suoi stessi piedi. Lei fece un
balzo verso di lui e lo aiutò a rialzarsi con una mano, mentre reggeva un
ombrello aperto nell’altra. «Sei ubriaco fradicio» sussurrò,
quasi con la paura che se avesse parlato ad alta voce il ragazzo si sarebbe
spaventato e sarebbe fuggito via. «Non è vero» riuscì a
dire lui alzandosi, per poi però barcollare nuovamente e appoggiarsi al parapetto
alla sua destra. «Si che è vero» ribattè la
ragazza, questa volta con un tono più duro, che costrinse il ragazzo a
distogliere lo sguardo dal suo viso. «Magari un po’ sì…» concedette, lanciando uno sguardo mortificato verso la
bottiglia, che giaceva sul muretto, poco distante dalla sua mano. Victoire si intenerì a quella vista, e gli
mise una mano sulla spalla. La pioggia si stava facendo sempre più fitta, e Ted
era allo scoperto, così la ragazza lo protesse con il suo ombrello. Lui la
guardò a lungo con uno sguardo che le parve indecifrabile, poi spezzò il
contatto, riportando la sua attenzione sull’acqua del fiume che scorreva rapida
sotto di loro. «Come stai, Ted?» gli chiese lei dopo un po’. «Come
vuoi che stia?» le lui rispose amaramente, mordendosi un labbro. La ragazza sorrise
tristemente, per nulla sorpresa dalla risposta di Ted. «Vuoi
andare a casa?» tentò dopo qualche altro minuto di silenzio. «No.» ribattè risoluto lui. La ragazza lo guardò, senza sapere
cosa fare. Vederlo così la distruggeva, la corrodeva dentro. Non ce la faceva,
avrebbe fatto di tutto pur di farlo reagire, persino continuare a riempirlo di
quelle domande stupide per la quale si sarebbe odiata anche da sola. Sempre
meglio vederlo arrabbiato, che apatico. Se si fosse incazzato almeno un po’,
avrebbe solo voluto dire che era ancora vivo e capace di provare qualcosa. «Questo
tuo modo di comportarti, di isolarti… non fa bene a
nessuno Ted». Lui si girò di scatto verso di lei, gli occhi in fiamme bruciavano di
una rabbia troppo a lungo repressa. Non poteva permetterle di parlargli in quel
modo, di dirgli quelle cose. Un conto era pensarlo da solo, un conto era che
glielo dicesse lei. Era tutto un altro paio di maniche, era fastidioso, era umiliante. «Non osare
dirmi come mi devo comportare, tu non sai… non puoi
capire quello che provo» sbottò, distogliendo di nuovo lo sguardo da lei. «Lo
so perfettamente che non capirò mai, ma questo non vuol dire che non ti possa
aiutare a star meglio…» ribattè lei,
dapprima duramente, poi con la voce che man mano si addolciva sempre di più. «Io
voglio aiutarti a star meglio» completò, accarezzandogli la guancia.
Lui si scostò, senza guardarla. «Se vuoi aiutarmi davvero,
vattene via». L’aveva detto in tono volutamente freddo. Aveva davvero bisogno che
lei se ne andasse, non riusciva a sopportare di farla soffrire a quel modo. Era
vero, quando lei era accanto a lui tutto era più leggero, tutto era più
semplice, ma non voleva mostrarsi così debole ai suoi occhi, non voleva farle
del male con il suo dolore. «No» disse incredula lei, cercando di
catturare il suo sguardo. «Io non me ne vado Ted Lupin, non fin
quando non sono sicura che tu stia meglio» gli prese il mento tra le mani e, con
forza, lo costrinse a guardarla negli occhi. Per un momento le parve di
cogliere un cedimento, ma subito dopo lui sfuggì di nuovo al suo tocco. «Ti
ho detto vattene via» ripetè, fermo, senza guardarla. «Perché?!» sbottò lei,
con il fiatone. Lui le rivolse uno sguardo pieno di sofferenza, che le tolse il
fiato. Con quel solo gesto, riuscì a percepire tutto quello che provava il
ragazzo in quel momento, tutte le sensazioni strazianti che gli attraversavano
il petto, che gli impedivano di comportarsi normalmente, che gli impedivano di
lasciarsi andare, di lasciarsi guardare mentre la sofferenza lo faceva
lentamente a pezzi. «Perché?! Che razza di stupida domanda è
questa? Non lo vedi, come soffro? E adesso te lo chiedo io, Victoire,
perché dovresti rimanere qui e guardarmi soffrire, facendomi soffrire ancora di
più? Perché, eh Victoire?» le parole
gli uscirono dalla bocca come un fiume in piena. Le urlò come se fossero i suoi
ultimi minuti di vita, come se qualsiasi cosa dipendesse da quelle frasi
sputate fuori con veemenza. Victoire non sapeva cosa
dire, lo fissava e basta, senza muovere un muscolo. «Perché,
nonostante io soffra nel vederti così, voglio starti accanto. Perché ti voglio bene,
Ted.»
Riuscì a dire alla fine, cercando di mantere ferma il
più possibile la voce. «Mi vuoi bene?» sussurrò
lui con gli occhi spalancati. «Mi vuoi bene?» urlò poi,
con un espressione così straziata dal dolore che Victoire
ebbe quasi paura che potesse fare un gesto avventato da un momento all’altro. «Tu
mi vuoi bene, Victoire? Davvero?!» urlò
ancora, girandosi e tornando sotto la pioggia. Si voltò di nuovo e, stavolta,
la guardò «Sai una cosa Victoire? Se
fossi una persona normale, desidererei
con tutto me stesso che questo giorno non esistesse. Se fosse davvero così, i
miei genitori sarebbero ancora vivi, ed io adesso avrei una vita normalissima,
avrei un padre ed una madre, avrei una famiglia vera, quella che non ho mai
avuto.»
Il suo tono di voce si era abbassato, ma la sofferenza che provava stava
diventando sempre più palese. Si vedeva da come apriva la bocca, da come si
muoveva, dal colore dei suoi occhi: nero, nero come la pece più scura, come le
ali di un corvo in un giorno tempestoso. «Eppure, anche se avrei in qualche
modo il dovere di pensarlo, non ci riesco. Non ci riesco, capisci? Non ci
riesco perché se questo giorno non esistesse, non esisteresti neanche te. E
mi odio per questo. Mi odio, capito? Mi odio, perché in qualche strano e
assurdo modo, per quanto il dolore mi squarci il cuore ogni volta che questo
maledetto giorno arriva, una parte di me è infinitamente grata al mondo che
questo giorno esista. Perché io non so se riuscirei a vivere senza di te Victoire.» La ragazza lo fissò con gli occhi spalancati.
Non riusciva a capire se doveva essere felice o triste per quello che le aveva
appena detto. Sapeva solo che voleva sentirlo parlare ancora, voleva che le
spiegasse ancora quello che sentiva, voleva capirlo e aiutarlo. Voleva salvarlo
dal baratro in cui stava cadendo. «Lo capisci, perché non voglio
che tu mi veda soffrire?» Ted si avvicinò sempre di più. «Perché io ti
amo, Victoire. Ti amo da star male, ti amo e ti amo,
e non faccio altro che pensare a te, a noi. Non faccio altro che pensare a quanto
tu sia bella, a quanto tu sia dolce, buona e perfetta. A quanto mi senta
completo ogni volta che riesco a farti sorridere. Ti amo, Victoire,
come non ho mai amato nessuno, come non amerò mai nessun altro. Ti amo, lo
capisci che ti amo?» lentamente, Ted aveva ripreso a piangere, e alla fine era
arrivato a singhiozzare. Si era liberato, dopo tanto tempo, dopo tanta attesa,
le aveva confessato tutto ciò che provava per lei, tutto quello che sentiva nei
suoi confronti. E avrebbe voluto urlarglielo altre mille volte, fino a perdere
la voce. Victoire, dal canto suo, aveva lentamente
lasciato scivolare l’ombrello dalla sua mano. Non le importava bagnarsi, voleva
soltanto saltargli addosso, abbracciarlo, baciarlo e passare il resto della sua
vita tra le sue braccia. Gli accarezzò una guancia, lentamente, tentando di
sorridergli e trasmettergli tutto quello che pensava, di fargli capire che
anche lei lo amava, lo amava da morire, e non avrebbe mai smesso.
Ted la guardò per qualche secondo, le lacrime che sgorgavano dai suoi occhi
copiose, poi, con uno slancio istintivo, la abbracciò. «Io
ti amo Vic, io ti amo…» continuò a
singhiozzare, affondando il volto nella sua spalla. La ragazza lo strinse a se,
mentre anche le sue lacrime si mischiavano alle gocce di pioggia che oramai le
cadevano ribelli sul viso. «Sssh, va tutto
bene. Anche io ti amo Ted. Va tutto bene, ci sono io qui. Ti amo.» gli
sussurrò, la voce rotta dall’emozione. Restarono così, abbracciati, fino a
quando i singhiozzi di Ted divennero più sommessi e sempre meno frequenti. Victoire non smise mai di accarezzarlo e sussurrargli che
lei era lì, che non lo avrebbe mai lasciato. Lentamente Ted riprese il
controllo di se. Tolse la testa dall’incavo della spalla di Victoire,
senza però districarsi dal suo abbraccio. Appoggiò la sua fronte contro quella
di lei e la guardò negli occhi, perdendosi per qualche secondo nel blu cobalto
delle sue iridi, che assomigliavano così tanto al colore che assumeva il mare
che si poteva vedere da casa della ragazza. «Vic?» sussurrò. «Sì?» gli rispose
lei, con voce flebile. «Buon compleanno».
gre’s corner:
Questa storia è venuta
di getto fuori in una sera, e devo dire che ne sono abbastanza. Ted e Victoire sono uno dei miei più amati otp
potteriani, e me li immagino in modo un po’ tutto mio
e particolare, quindi molto probabilmente non rispecchieranno i vostri headcanon, Pazienza, ognuno ha il suo in fondo (: ad ogni
modo, spero che vi piaccia comunque questa mia one shot. Ah, il titolo è ispirato alla meravigliosa canzone
degli Oasis “Wonderwall”.
L’ho sentita durante tutta la stesura della storia, quindi posso ben dire che è
stata la mia musa ispiratrice.