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Autore: Jiguzagu_Sanba    09/08/2011    1 recensioni
"Te la ricordi questa canzone? La canterò ancora per te... Per sempre...".
Sulle note di questa perenne melodia, troverete un Hikaru piuttosto cambiato... Siate clementi, eh! E' la mia prima fic! *bluuush*
Genere: Drammatico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Hikaru Matsuyama/Philip Callaghan, Kojiro Hyuga/Mark, Nuovo personaggio, Sorpresa
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Salve a tutti, finalmente riesco a postare l'introduzione (sì, il capitolo precedente era più la "sigla d'apertura" u_u)di questa folle avventura in cui ho deciso (un pò avventatamente) di lanciarmi! Non so davvero cosa ne verrà fuori, ma, devo dire, mi sto entusiasmando molto a creare le diverse immagini! Spero ne esca qualcosa di buono alla fine!
In questa parte comincia a capirsi chi sono i personaggi della vicenda, anche se ho preferito andare con calma e non svelare più del necessario! Mi auguro non sia una lettura troppo noiosa! >.< Ma non voglio dilungarmi più di tanto con i miei commenti e preferisco lasciarvi alla storia! *_* Ho solo alcuni suggerimenti da dare prima di iniziare a leggere questo capitolo, per chi volesse ovviamente! In primis, sia questo che il capitolo precedente li ho scritti con delle musiche di sottofondo! Rispettivamente, Lullaby e Prologue di A Tales of Two Sisters (dalle quali ho sgraffignato anche i titolozzi u_u)! Infine, per i personaggi, anche se sono quelli di Captain Tsubasa, ho provato a pensare a dei volti "reali" che vi propongo!
http://i56.tinypic.com/6tnt3n.jpg
http://i54.tinypic.com/11j40tf.jpg
http://i51.tinypic.com/2zrgtvd.png
Provate ad immaginare voi, in base a ciò che leggerete, di chi si tratta! *_*
Detto ciò, vi auguro buona lettura e al prossimo capitolo!

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Ma quanto tempo ci metteva? Saki continuava a tamburellare nervosamente il piede sull’asfalto, mentre se ne restava poggiata col fondoschiena, a braccia conserte, sul cofano dell’auto, una Maruti Suzuki SS80 del 1985 perfettamente tenuta, ancora accesa. Mesto, il motore rombava sotto di lei, facendole vibrare le natiche adagio, come pure il resto corpo, ed era sufficiente a rendere pesanti le palpebre ed ad infiacchire le viscere, reduci dalle poche - troppo poche - ore di sonno su cui aveva fatto affidamento la notte precedente.
In vista del lungo viaggio previsto per l’indomani, avrebbe dovuto essere più previdente, andare a letto presto, ed ora era tardi per lamentarsene, soprattutto dal momento che era stata lei ad offrirsi spontaneamente di attraversare mezza isola per andare a recuperare il suo fratellino e riportarlo sano e salvo alla propria dimora. Ed era stata sempre lei ad insistere per andarci con l’auto. Era una caratteristica di famiglia quella di preferire un qualsiasi tipo di attività al dolce far niente e, seppure guidare fosse una delle più noiose in assoluto, a suo modesto parere, era sempre meglio che trascorrere ore di fila seduta in un treno a rigirarsi nevroticamente i pollici. Ma non aveva, comunque, avuto il sangue freddo di rifiutare l’invito delle sue compagne di  andare a vedere al cinema l’ultimo lavoro di Takeshi Kitano, nonostante fosse perfettamente conscia del fatto di dover lasciare casa di prima mattina, se avesse voluto raggiungere Muroran entro un orario decente, per l’ora di pranzo ad esempio. Con un po’ di forza di volontà e una buona tazza di caffè americano ce l’aveva anche fatta e, fiduciosa, nutriva in seno la speranza di riuscire a rincasare prima che facesse buio. In fondo, non era un’impresa impossibile. Una volta caricati i bagagli a bordo e ingurgitato un paio di onigiri al volo, sarebbe stato sufficiente fare il pieno di benzina alla prima stazione di servizio e limitare le soste al minimo indispensabile. Filando dritto e con le strade sgombre, avrebbe potuto impiegarci anche meno delle cinque ore previste, ma, evidentemente, non aveva considerato l’inconveniente che il suo compagno di viaggio potesse non partecipare della stessa opinione.
Quanti “incidenti di percorso” c’erano già stati nelle trascorse tre ore e mezza? Le sembrava di aver perso il conto e di fare un rapido calcolo non ne aveva la benché minima voglia. Fatto stava che, con quell’ultima, le tre città principali dell’itinerario le avevano passate tutte in rassegna e tutte le volte perché al più piccolo del duo scappava da pisciare. Eppure non era certo un bambino che rischiava di farsela addosso. Nei suoi ventitré anni, non era capace di resistere per più di mezz’ora?
Si chiese se e da quand’era che soffriva di problemi di incontinenza. Di quella portata, poi. Doveva essergli andata a puttane la muscolatura del pavimento pelvico o Dio solo sapeva cosa, eppure, paradossalmente, le venne in mente di ringraziarlo non appena si fosse degnato di tornare indietro. Per merito suo avrebbe avuto un’avventura da raccontare, una volta che fossero giunti a destinazione: l’entusiasmante giro turistico ai gabinetti di Muroran, Sapporo e Iwamizawa e, chissà, forse nei mancanti poco più di cento chilometri che restavano da percorrere si sarebbe aggiunta una nuova tappa alla lista.
A quel pensiero, gli incisivi affondarono nel sottile, ma non per questo poco femminile, labbro inferiore, soffocando una risatina sarcastica che minacciava di sfuggirgli di bocca, in un malcelato tentativo di darsi un contegno. Si vergognò a morte di se stessa. Era tanto imbarazzante quanto infantile mettersi a ridere per conto proprio e per riflessioni stupide come quelle e promise che il suo dolce fratellino avrebbe pagato anche per questo.
Ora cominciava davvero a perdere la pazienza.                                                                            

Tap, tap,tap.

La suola del mocassino, che percuoteva insistentemente la superficie bitumata, infrangeva ad intervalli regolari la quiete del modesto spiazzale adibito a parcheggio di una delle tante aree di servizio di strada sulla Hokkaido Expy, la Statale che collegava il cantone Sud della regione con la zona ad Ovest dell’isola nipponica settentrionale. Un moto che scandiva lo scorrere languido del tempo all’unisono con le lancette del modesto orologio, sul quale, di tanto in tanto, si posava lo sguardo della giovane dai lunghi e ordinati capelli color pece. Non era tipa da inutili fronzoli, come neppure le era mai piaciuto perdersi in troppe chiacchiere.
Cresciuta in una famiglia di umili lavoratori – papà e mamma lavoravano in una pensioncina a gestione familiare – ai quali non mancava mai di offrire il proprio contributo nel mandare avanti la baracca, era stata presto influenzata da quello stile di vita amabilmente rustico, che le aveva trasmesso un ben più decoroso tipo di valori rispetto a quelli di cui le sue coetanee andavano tanto orgogliose e che, a dispetto di tutto, non s’era mai permessa di giudicare in alcun modo.
Puntare il dito contro il prossimo lo considerava vigliacco, subdolo, e con fierezza teneva alto il titolo di “Reitan-san [1]” che qualcuno aveva pensato, in passato, di affibbiarle. Che fosse meritato o meno aveva un’importanza marginale fino a che fosse stata certa che coloro che amava sapessero come stavano davvero le cose. Per loro sarebbe stata capace di sopportare ogni difetto e capriccio e sarebbe anche stata pronta a fare da sostegno per ogni scivolone o da spalla nei momenti di sconforto, seppur lamentandosene, qualche volta.
Forse era stato questo suo istintivo senso di protezione ad inchiodarle i piedi sull’asfalto e ad impedirle di levare le tende, fregandosene di quel buono a nulla e lasciandolo lì a marcire. Ma non fu, comunque, sufficiente da indurla a trattenere un sonoro sbuffo di esasperazione.
I capelli ondeggiarono paurosamente quando, dopo aver abbandonato la precedente posizione, si voltò repentina, aggirando l’auto per riappropriarsi della postazione di guida. Per un attimo fu incerta sul da farsi. Le mani altalenarono dalla cintura al volante al freno a mano, limitandosi a sfiorarli appena coi polpastrelli delle dita, poi atterrarono definitivamente sul volante, al quale si aggrapparono saldamente, quasi fosse, quello, l’ultimo appiglio che le avrebbe impedito di schiantarsi al suolo, frantumandosi per estinguersi in una fine pietosa. Seguì loro la fronte, subito dopo, che non esitò a capitolare inesorabilmente sul punto di culmine dell’oggetto tondeggiante. Era davvero il colmo e fu davvero sul punto di dare gas alla Maruti per battersela in ritirata, ma il familiare suono dello sportello che si spalancava la distolse dal suo desiderio di darsela a gambe.
Finalmente, pensò, mentre l’altro si accomodava tranquillamente sul sedile del passeggero, senza spiccicare una sola parola. Saki stette ad osservarlo da quella posizione scomoda per tutto il tempo che aveva impiegato a sistemarsi e, fino a che lui non ebbe concluso di allacciarsi la cintura, restò in silenzio a sua volta. Poi ruppe il silenzio.

« Hikaru. » Il tono greve con cui pronunciò quel nome la diceva lunga sulla sua condizione mentale. Di chi stenta a mantenersi lucido, sull’orlo di una crisi di nervi. Lui, d’altro canto, doveva essere conscio di aver esagerato, ma pareva aver deciso, comunque, di non scomodarsi a darsene pensiero. Si limitò, invece, a poggiare la fronte contro il vetro spesso del finestrino, esibendosi poi in un sonoro sbadiglio, che neppure ebbe la decenza di coprire con una mano.
Non era, certamente, quella la risposta che la maggiore dei due si attendeva di ricevere, ma sapeva di sperare inutilmente in una svolta improvvisa. Che Hikaru fosse cambiato era fuori discussione. La zavorra dell’esperienza aveva finito inevitabilmente per ammansire, sotto il suo schiacciante peso, alcuni aspetti di quel suo caratteraccio, duro e ribelle, ma non esisteva metodo definitivo di far sbollire una testa calda.
Saki conosceva bene il suo modo di fare – non alla perfezione, ma quella non si sarebbe mai sognata di ottenerla – e aveva imparato ad accettarne ogni piccola sfumatura, perché sapeva quanto era stato, era ancora e quanto sarebbe stato in futuro, e proprio alla luce di questa sua consapevolezza non poteva permettersi di fargliela passare liscia.

« Non ci provare neppure a far finta che non sia successo niente » Lo apostrofò, una volta che fu tornata in posizione eretta.

« Ma lo sai che ore sono? » Era una domanda retorica, ma indispensabile a lasciargli intendere che era ancora presto, purtroppo per lui, per mettere una pietra su quanto accaduto. Credeva che essere il problematico fratellino più piccolo lo esentasse dal buscarsi la solfa? Lei non gliel’avrebbe mai data vinta. Ora come in passato.
E’ vero, si adoravano alla follia, non per niente Saki stessa aveva insistito per andare a prenderlo, ma era sempre stato un rapporto tacitamente conflittuale, il loro. Forse perché, in un certo senso, erano fatti della stessa identica pasta, solo che Saki, in qualità di sorella maggiore, si era sempre arrogata il diritto di pretendere quel rispetto che, nella sua posizione, le spettava. Se si illudeva gli fossero dovuti trattamenti di riguardo solo per quella vecchia storia, beh, poteva pure scendere dall’auto e farsi il resto della strada di corsa, fino a Furano. Da quanto ne sapeva, correre, per Hikaru, non era mai stato un grosso problema.

« Allora? » Lo esortò ancora, quando capì che non avrebbe ricevuto alcuna risposta. Il piede aveva ripreso a tamburellare nell’attesa di un po’ di considerazione e una qualche reazione, infine, riuscì ad ottenerla.
Hikaru sbuffò. Platealmente. Poi portò le mani ad incrociarsi dietro la nuca, facendosi scivolare contro il sedile, fino a che la presa della cintura non gli impedì di andare oltre. La maglietta, che la forza d’attrito aveva incollato al sedile, si arricciò all’altezza delle spalle, nel movimento discendente, al punto che la parte davanti, sollevandosi di conseguenza, lasciò scoperta una fetta dell’addome, non più ben scolpito come lo era stato in passato, anche se, indubbiamente, era riuscito a preservare un buon livello di tonicità.

« C’era traffico alla porta del gabinetto. » La liquidò brevemente, calmo. Schifosamente calmo. Calmo come quel pomeriggio di primavera, fresco e terso, senza un alito di vento e contaminato solo dagli ovattati – ma da vicino dovevano essere piuttosto potenti – colpi di tosse di un grassone nerboruto, a pochi metri dalla loro auto, probabilmente il proprietario del grosso tir parcheggiato di fianco al distributore di benzina.
Saki non vi fece granché caso. Restò, invece, con lo sguardo fisso sul giovane uomo alla sua sinistra, imbambolata. Spiritoso, si disse, doveva davvero fare i suoi complementi a Mister Stronzaggine, questa volta. Non c’era bisogno di essere dotati di abilità particolari per arrivare a comprendere che quelle parole l’avevano completamente spiazzata. Un angolo delle labbra, in una contrazione nervosa, si sollevò giusto per qualche millesimo di secondo, quando, non potendo credere alle sue orecchie, il capo diverse in favore del parabrezza, coperto da un appena percettibile strato di polvere. Si sistemò una ciocca dei lunghi capelli corvini, sfuggita alla stiratura perfetta, accompagnandola con le dita dietro l’orecchio, poi svuotò la sommità del diaframma con un’emissione d’aria che pareva voler dire ehi, perché non aggiungi anche una scoppola all’ordinazione? Magari con contorno di calci in culo, se possibile.
Malgrado lo smacco, si impose ugualmente di darsi una calmata. Non era più una bambinetta isterica, dannazione, era una donna fatta. Doveva affrontare la questione con maturità e diplomazia, soprattutto perché, cedendo, non avrebbe fatto altro che il gioco di quello lì, che le stava seduto accanto.

« Ok, senti. » Esordì, facendo ricadere i palmi delle mani di piatto sulle ginocchia, gli occhi fermi su un punto a caso, di poco al di sotto dello sterzo. « Non c’è problema se vuoi fermarti a pisciare ogni cento metri, davvero, ma gradirei che non ci perdessi venti minuti per volta o dovremo calcolare cinque ore aggiuntive prima di riuscire anche solo a vederlo, il cartello con su scritto “Furano a 50 chilometri [2]”. » Alla faccia della diplomazia! Una voce – forse la parte abietta della sua coscienza, quella che non desiderava altro che togliersi al più presto tutti i sassolini dalle scarpe – le rimbombò sardonica nella testa, quando lei ebbe terminato il suo breve monologo, ma compiaciuta. In momenti rari della sua vita le era capitato di sentirsi soddisfatta a tal punto di se stessa, tanto da arrivare a leccarsi involontariamente il labbro superiore con la punta della lingua.
Al contrario, doveva proprio averla messa a tacere, la parte della brava sorella maggiore, dolce e comprensiva, che s’era portata appresso pure il risentimento per essere stata troppo dura, che, in ogni caso, avrebbe prontamente invitato a starle alla larga, perché stavolta sapeva per certo di stare dalla parte della ragione.
E doveva saperlo perfettamente pure Hikaru, dal momento che se ne stette zitto per una buona manciata di secondi. Anche se lui si sarebbe ostinato a non darlo a vedere, doveva rodere essere stato ripagato con la stessa moneta.
Saki trattenne a stento la voglia bruciante di voltarsi e constatare in prima persona se la maschera di imperturbabilità, perennemente appiccicata sulla faccia di bronzo di quel gran bastardo, fosse andata incrinandosi, proprio come era avvenuto nella sua immaginazione. Ma si fece bastare in ricompensa la risposta scarna e sbrigativa di lui, nell’udire la quale il viso finì per illuminarsi di malcelato trionfo.

« Che palle. » Hikaru aveva socchiuso le palpebre, nel dirlo, lasciando ricadere mollemente le braccia lungo i fianchi. Capitolarono riverse sul sedile, prive di vita, remissive, e, allo stesso modo, pure il capo finì con l’inclinarsi, al punto che la tempia  arrivò a sfiorare il rivestimento in plastica ruvida dello sportello.
La sua fiacca protesta sembrò, a Saki, quasi un impellente bisogno da parte sua di sopprimere sul nascere una discussione a cui non aveva mai neppure avuto intenzione di dare luogo, ma per lei era più soddisfacente credere di essere finalmente riuscita a chiudergli la bocca, una volta tanto.
Da che ne aveva memoria, era sempre stato Hikaru quello a riuscire a spuntarsela, in un modo o nell’altro e qualsiasi questione li trovasse imbrigliati. E non perché fosse dotato del dono della risposta pronta, ma perché, semplicemente, si limitava ad avere ragione, tutte le maledettissime volte.
Nonostante non credesse affatto di essere la tipica bambinetta scema, il piccoletto di casa era sempre stato un gradino più in alto di lei, ma non di certo per merito di un qualche innato talento. Perché Matsuyama Hikaru non era superiore a nessuno e in niente, però possedeva una qualità che molti, Saki per prima, gli invidiavano: la tenacia. Quella volontà di non darsi mai per vinto, quel desiderio sprezzante di non essere mai l’ultimo della lista e di non dover finire a leccare il culo al primo idiota di turno per essere degni di meritarsi un posto nel mondo, che l’avevano spinto a rimboccarsi le maniche, a metterci tutto se stesso e a lottare con le unghie e coi denti, anche nelle situazioni avverse. Un modello di eccelsa determinazione e testardaggine che, per quanto a malincuore (non era forse lei la più vecchia dei due?), non poteva fare a meno di prendere a riferimento, tanto che non erano stati rari i momenti in cui s’era chiesta se la cicogna incaricata della loro consegna non fosse stata talmente ubriaca da confondere i fagotti, quel fatidico giorno in cui era venuta al mondo. Una bellezza che avrebbe dovuto attendere la luce radiosa [3] del Sole per poter finalmente fiorire [4] e, se da un lato quella consapevolezza le pesava, dall’altro aveva finito col trasformarsi in un incentivo a migliorarsi con persistenza, anche adesso che la sfida con Hikaru non aveva più senso di esistere, da quando lui era cambiato.
Lei, comunque, si sarebbe impegnata affinché tutto rimanesse esattamente come lo era un tempo.

« Bene. » Le venne fuori più duro di quanto avrebbe voluto in realtà, ma era troppo tardi per rimangiarselo e, di certo, non aveva la minima intenzione di scusarsi di nulla.
Decise che fosse abbastanza per chiudere lì la questione, dunque non le restava che dare gas alla Maruti e filare dritta verso casa. Ci avrebbero impiegato almeno un altro paio di ore, se tutto fosse andato liscio – non si poteva esattamente dire che Furano fosse ad un tiro di scoppio, ma, una volta imboccata la Trentottesima, restavano solo gli ultimi cinquantaquattro chilometri da percorrere. Giusto in tempo per assistere al calare della notte.
Pensò che, tutto sommato, non le era andata poi tanto male.

« Uff… » Tirò uno sbuffo, più che altro, di amara consolazione, prima di sbloccare il freno a mano e schiacciare l’acceleratore con un tocco leggero, che mise in moto la vettura. Fu sufficiente quella piccola manovra affinché un generoso alito di vento le ravvivasse i capelli, che cominciarono ad ondeggiare sfrenatamente sopra le spalle, quando il ricircolo dell’aria divenne intenso e più o meno costante.
Nel frattempo, alla sua sinistra, il lato passeggero era divenuto particolarmente silenzioso. Che Hikaru non fosse esattamente logorroico – a meno che la situazione non lo richiedesse espressamente, non parlava mai più del necessario – era risaputo, però ...
Senza che neppure se ne rendesse conto, si ritrovò inaspettatamente ad analizzarlo con cura, dall’alto della visuale che la sua postura ben eretta le concedeva.
Dal ragazzino perennemente imbronciato e senza peli sulla lingua vivo nella sua memoria, era mutato in un giovane uomo, carismatico e calcolatore, tutto impostato, come chissà quale enorme responsabilità gli gravasse sulle spalle.
Hikaru prendeva sempre tutto con una serietà quasi soffocante, qualsiasi cosa essa fosse, e la solerzia con cui svolgeva il proprio ruolo e con cui riusciva a trascinarsi dietro anche gli altri gli era valsa, già in tenera età, la fascia di capitano della squadra di calcio locale. Niente di così eclatante, all’inizio, ma s’era fatto in quattro per permettere a se stesso e ai suoi compagni di raggiungere la vetta ed era stato ripagato con la qualificazione al Campionato Nazionale Giovanile per ben due anni di fila. E che la sua scalata si era arrestata, entrambe le volte, poco prima dell’arrivo, non voleva dire proprio un accidente. La sua sportività, la sua capacità di accettare la sconfitta a testa alta, come prospetto di una nuova sfida futura, lo avevano sempre reso vincitore e non era strano fosse riuscito a conquistarsi la stima di molti dei suoi rivali e anche un posto nella Nazionale Giapponese, in vece di vice-capitano della squadra.
Ora, invece, in quella posizione sciatta, dava solo l’impressione di essere tremendamente stanco. Come se avesse ecceduto il limite e, alla fine della corsa, si fosse ritrovato senza più fiato in corpo, con un’asfissia martellante, di quelle per cui non ti resta altra soluzione se non quella di fermarti a riposare, almeno un momento.
Qualcosa – il cuore che minacciava di andare in frantumi? – dentro di lei si incrinò improvvisamente.
D’istinto, allungò la mano verso di lui, nel desiderio di sfiorargli la guancia sul lato visibile del profilo col dorso delle dita, ma resistette con fermezza alla tentazione.
Ormai lo conosceva tanto bene da sapere che Hikaru, per quanto socievole e altruista potesse apparire agli occhi degli altri, concedeva solo a pochi il privilegio di un approccio fisico tanto intimo e diretto e Saki non rientrava certamente in quella ristretta cerchia di insigni eletti.
A dir la verità, forse, fin dall’inizio, aveva potuto farne parte solamente la sua amata Yoshiko.
Anzi, ora che ci pensava bene, c’era pure Hyūga Kojirō, anche se dubitava fortemente avesse mai messo le mani addosso ad Hikaru per ragioni che differissero dalle usuali controversie in cui finivano irrimediabilmente per capitolare. Il rapporto che teneva legati quei due giaceva su un piano del tutto differente, ben lontano da stucchevoli moine e nauseanti smancerie.
Hyūga era l’eterno rivale, lo schifoso bastardo della famosa rissa alla mensa, che Hikaru non aveva mai potuto lasciargli passare, quello che si prendeva la libertà di infilargli la testa nel cesso ogni volta che gli giravano o anche solo perché ne aveva voglia e, cosa più importante, era l’amico migliore che avesse mai avuto. Perché Hyūga sapeva quand’era il momento di starsene zitto e quando, invece, era l’ora di spaccare la faccia a qualcuno. Sapeva quand’era il momento di pretendere e quando, viceversa, quello di mostrare riconoscenza.
Esattamente sputato ad una certa persona… 
Hikaru e Hyūga, alla fin fine, erano così schifosamente identici e diametralmente opposti da finire con l’essere nient’altro che due facce della stessa medaglia. Ma, forse, di questo, neppure gliene era mai fregato chissà quanto e, certo, nessuno dei due si sarebbe mostrato così debole da arrivare ad ammetterlo all’altro, ma era giusto che fosse così. Tutto sommato, la loro relazione era già perfetta, anche senza le convenzionali, monotone ed inutili ciance.
Ed era un’altra cosa che Saki gli avrebbe sempre invidiato.
Un sorriso quasi malinconico le solcò le labbra, mentre ritraeva a sé la mano e tornava a prestare attenzione alla carreggiata. Il respiro pesante del capitano le fece sospettare che dovesse aver preso sonno e non provò neppure a pensare di svegliarlo. Anzi, aveva quasi desiderato che, ad un certo punto, ci cascasse. Era sempre dura, con Hikaru, diventava più difficile, ogni anno che passava. Imboccò la curva a sinistra del bivio, in direzione Asahigawa, mentre si azzardava ad immaginare in che modo sarebbe trascorsa quella nuova seconda metà di Aprile.
Oh, andiamo, lo sai perfettamente, mia cara! Come quella dell’anno scorso, dell’anno prima e dell’anno precedente ancora!Il pensiero prese vita da sé, non senza che se ne rammaricasse, farcito di una spietata e sottile ironia da far accapponare la pelle. Sua madre non ne sarebbe stata molto felice, se avesse potuto sentirla, ma non sarebbe comunque servito a niente ignorare come stavano davvero le cose. In ogni caso si augurò sinceramente che, per quest’anno, le sue previsioni prendessero un granchio.
Ingranò la quarta, una volta terminata la curva, accelerando ad un soffio dal limite di velocità quando il percorso divenne un’unica strada dritta. Sarebbero sfrecciati fino alla città successiva, guadagnando almeno una manciata, seppur esigua, dei minuti persi. Avevano già troppo ritardo accumulato alle spalle per i suoi gusti, ma non avrebbero perso altro tempo.
Lo sguardo ricadde brevemente sul display lampeggiante dell’orologio digitale nella parte inferiore del cruscotto.
Le sedici e diciassette.
In fin dei conti, casa non era poi così lontana. A quest’andatura, forse, sarebbero riusciti ad arrivare a Furano prima che Hikaru avesse avuto il tempo di svegliarsi.


 

_________________________________________

 

Note: [1] - "Reitan" è una parola che, in giapponese, vuol dire "Frigido". Saki veniva, dunque, chiamata dai suoi coetanei col dispregiativo di "Frigidona-san"
           [2] - Dopo un'assidua ricerca, ho scoperto che anche in Giappone ci sono i chilometri! @_@ Tanta fatica a cercare per niente!
          [3] - La parola "Hikaru", in giapponese, vuol dire "Splendente, radioso"
          [4] - La parola "Saki", in giapponese, è la radice in forma gentile del verbo "Saku", che vuol dire "Fiorire"

 

  
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