II. New
South Wales
‹‹Incantesimo
Parola-Chiave, utile per fare bella figura quando si scrive un
tema,›› spiegò
Hermione qualche ora dopo, mentre sedevano in una piccola tavola calda
poco
lontana dall’hotel. Erano entrati ed usciti da una dozzina di
bar, pub, risto-pub
e risto-bar, trovandoli sempre pieni. Quella tavola calda un
po’ triste si era rivelata, nella sua tranquilla solitudine,
ideale.
Teneva
la mano infilata nella sua borsa magica, stretta attorno alla
bacchetta.
‹‹Cerca di coprirmi. No, aspetta, credo che stia
ancora guardando da questa
parte.››
‹‹Ora
è tornato in cucina.››
‹‹Ok,
un due tre.›› Estrasse la bacchetta e diede un
colpetto al grosso tomo delle Pagine
Bianche di Sydney e regione. ‹‹Wilkins!››
ordinò al libro. Rinfilò la bacchetta nella borsa
e si guardò attorno. Non li
aveva visti nessuno. Non c’era nessuno.
‹‹Sarebbe
tornato utile con qualcuno di quei temi di
Trasfigurazione,›› borbottò Ron.
Sembrava ancora un po’ scosso, o forse, ragionava Hermione,
era scosso dal
fatto di essersi mostrato così vulnerabile davanti a lei.
Evitava con
nonchalance di guardarla negli occhi, preferendo dedicarsi al suo
sandwich al
pollo e alla sorveglianza dei fantomatici avventori della tavola calda.
Il
libro si era illuminato per un istante, e poi gli angoli di qualche
pagina si
erano piegati da soli.
Ron
diede un morso al suo sandwich e indicò il libro.
‹‹Bè, apri, no?››
Non
ce n’erano molti di Wilkins, e di Wendell e Monica Wilkins
ancora meno. I pochi
portatori di quel cognome di solito venivano inghiottiti da una torma
senza
fine di Wilkinson.
‹‹Allora,
abbiamo un Wendell Wilkins qui a Sydney e uno a Parramatta
-››
‹‹
Parracosa?››
‹‹Parramatta,
Ron. Sarà aborigeno… E abbiamo anche una Monica
Wilkins qui a Sydney.››
Un
altro morso al sandwich e giù un sorso di succo
d’uva. ‹‹Quindi ora che
facciamo?››
‹‹Bè,››
disse Hermione, annotando nomi e numeri su un tovagliolo.
‹‹Telefoniamo, no?››
Camminarono
nella generale direzione del centro, sbucando su Victoria Street, un
lungo
corso residenziale e commerciale che andava a finire, per coincidenza,
ad una
stazione di King’s Cross. Furono circondati in pochi secondi
da una folta e
variegata folla di gente intenta a far compere e dal rumore e lo smog
del
traffico all’ora di punta.
Era
strano ritrovarsi nella civiltà Babbana in quella maniera
così brutale. Avevano
trascorso un anno in una solitudine quasi totale, ed ora erano in mezzo
ad una
delle vie più affollate di Sydney, con Sydneysiders
e turisti e ragazze
alla moda e ragazzi punk e mod a godersi il sole di una bella giornata
d’autunno. I cartelloni elettronici informavano di questo o
quel prodotto in
pubblicità e dai negozi usciva musica Babbana che non aveva
mai sentito prima.
Qui non c’era stata nessuna guerra, nessun Voldemort; gli
abitanti di Sydney,
maghi e non, non avevano sentito il freddo dei Dissennatori, non
avevano
vissuto il terrore. Se non fosse stato per il fatto che avevano
sofferto le
conseguenze della guerra sulla loro pelle, sarebbe stato difficile
credere che
ci fosse mai stata una guerra, e che loro ne erano stati i
protagonisti.
L’Inghilterra, in quella mattina così
incredibilmente Babbana, non era mai
sembrata più lontana.
‹‹Strano,
eh, stare in mezzo a tutta questa gente,›› disse
Ron.
‹‹Vero.
Ho come – hai presente? – l’istinto di
voltarmi e…››
‹‹…
controllare di non essere seguita.››
‹‹Sì.››
Ron
annuì e le strinse più forte la mano nella sua.
Trovarono
una cabina libera e funzionante (due condizioni spesso auto-escludenti)
in una
strada laterale di Victoria Street.
‹‹Coraggio,››
si disse Hermione mentre digitava il numero di telefono del primo
Wilkins.
A
rispondere fu un uomo con una voce calda e possente che non
apparteneva, nemmeno
lontanamente, a suo padre.
‹‹Buongiorno?››
‹‹Non
è lui, Ron.››
‹‹Scusi
chi dovrei essere? Chi è lei?››
‹‹Ho
sbagliato numero - scusi il disturbo signor Wilkins, buona
giornata.››
‹‹Allora
l’altro,›› disse Ron con tono
incoraggiante, inserendo una moneta con fare
esperto e dettandole il numero del Wilkins di Parramatta.
Fu
una conversazione breve e surreale. Il Wilkins di Parramatta
esordì annunciando
che no, non gli interessavano le sue lavatrici né
il tostapane in omaggio – li aveva già tutti e
due, grazie tante
– e continuò, riempiendo il silenzio attonito di
Hermione, esclamando che, nel
caso fossero Testimoni di Geova, in quella casa erano dei
‘maledetti satanisti’.
A contorno, sghignazzi,
pianto di un bambino piccolo e l’abbaiare continuo di un
cane. Hermione attaccò
senza nemmeno replicare. ‹‹Era un tipo
strano,›› spiegò, vagamente
sconcertata.
La
loro ultima speranza, la signora Monica Wilkins di Sydney, si
rivelò essere una
nonna sulla settantina che aspettava una telefonata dal Centro Gesuita
di
Wollongong per un ritiro spirituale nell’outback. Incapace di
attaccare in
faccia ad una povera signora anziana, Hermione cercò di
convincere la signora
che lei no, non era la segretaria del Centro, ma poi, sconfortata
dall’incipiente sordità della signora si risolse
ad attaccare la cornetta e
rivolgere un sospiro sconfortato nella direzione generale di Ron.
‹‹Sarebbe
stato troppo facile, eh?›› disse sforzandosi di
sorridere.
‹‹Un
tantino,›› concesse Ron, mettendole un braccio
attorno alle spalle.
Rimasero
in silenzio qualche istante a capo chino.
‹‹Sto
pensando.››
‹‹Anche
io.››
La
risposta arrivò solo un paio di giorni dopo. Si stavano
riposando ad Hyde Park
dopo un’altra mattinata infruttuosa. Avevano controllato
altri elenchi, perfino
chiesto in giro, mostrato fotografie a un centinaio di persone. Le loro
ricerche li avevano portati a sfiorare le attrattive della metropoli
senza mai
soffermarsi su di esse, come quegli uomini d’affari che
viaggiano solo per
lavoro e conoscono più la loro camera d’albergo
che le città che visitano
decine di volte. Avevano telefonato ad Harry (allo scopo Hermione gli
aveva
regalato un cellulare, ‹‹Più pratico
dei gufi››) e avevano scoperto che a
Grimmauld Place lo avevano visitato Ginny, Neville e Luna. Ron aveva
urlato nella
cornetta e Ginny gli aveva dato dell’idiota per averle
perforato un timpano;
poi la telefonata era finita e si erano ritrovati al parco. Sempre di
più aveva
l’impressione che forse i Wilkins si erano trasferiti; eppure
fu proprio in
quel momento, mentre osservavano i gialli e i rossi autunnali delle
piante
europee e palme ed eucalipti (quella era la bellezza dei parchi
australiani,
che si chiamavano Hyde Park e poi avevano piante tropicali), che le
loro
ricerche subirono una svolta.
Ron
attaccò a parlare dal nulla.
‹‹Bè, hai detto che sono
denti… dentie…››
‹‹Dentisti,
sì.››
‹‹Bè,
magari quando sono venuti qua avranno cercato un lavoro, no? Bene,
magari hanno
chiesto in qualche posto molto grosso per iniziare…
c’è qualcosa come un
Ufficio Dentisti? Qualcosa del genere? Dove vai e ti registri?
Perché se hai
detto che non conoscevano nessuno
qui…››
Hermione
lo guardò, vagamente stupita, poi, dopo aver sospirato un
‹‹Geniale, Ron›› si
lanciò contro di lui, baciandolo con passione.
Pranzarono,
un po’ sonnolenti, in un piccolo pub nei pressi di Hargrave
Street. L’umore di
Ron era migliorato considerevolmente dopo che Hermione aveva
riconosciuto
l’intelligenza del suo piano, e si premurò di
indagare, Pagine Bianche alla
mano, quale fosse il luogo che cercavano. Dopo il pranzo, ritornarono
all’albergo per un pisolino, mentre delle nubi celavano
l’allegro sole del
mattino; quando uscirono, la luce della città era diventata
grigia e cupa.
Il
Dental Centre di Sydney era un grande edificio, sicuramente concepito
dal suo
architetto come un esempio di funzionale ma attraente architettura
moderna. Il
risultato, tutto cemento e vetro, ricordava vagamente, nella forma, la
corona
di un dente. Al suo interno c’era un tranquillo via-vai di
dentisti, infermiere
e pazienti addossati alle poltroncine affisse ai muri. Le pareti erano
tutte
dipinte di una serie di colori allegri e rassicuranti come il verde
tropicale e
l’arancione. Ad ogni dove, muri, vasi delle felci, i tavolini
e perfino la
parte inferiore del bancone informazioni, erano appesi i soliti,
altrettanto
rassicuranti e sorridenti poster degli studi dentistici: inviti alla
corretta
igiene dentale, inviti alla corretta ortodonzia in età
pre-puberale (ma non
c’era da preoccuparsi: i denti storti potevano essere
corretti anche da adulti,
diceva un altro poster), inviti a provare la nuova tecnica di
sbiancamento, e,
per completare il quadro, qualche stomachevole
‘prima’ accanto ad un lindo e
bianchissimo ‘dopo’.
Solo
entrare in un luogo del genere le fece venire dentro una grande
nostalgia. Da
piccola aveva sognato di lavorare in un posto del genere.
“Sarò
una dentista come te, papà,” aveva detto.
“Voglio curare tante persone. Sarò la
migliore.” Aveva ripetuto le stesse cose il giorno prima che
le arrivasse la
lettera da Hogwarts. Strano come la vita avesse stravolto tutto.
Ron
dal canto suo pareva soltanto affascinato.
‹‹Questo
è davvero uno strano posto… Ferro in
bocca…›› mormorò, mentre
facevano la fila
dietro al banco delle informazioni. ‹‹Ma fanno
male queste cose?››
I
dolori
di tre anni di ortodonzia infantile le punsero la mucosa molle
all’interno
della guancia. Senza accorgersene ripassò la lingua sulle
cicatrici che le
avevano provocato i fili dell’apparecchio.
‹‹Sì. Tanto male,
credimi.››
‹‹Sono
pazzi,›› disse Ron. ‹‹Fare
queste cose a dei bambini piccoli…››
L’elegante signora
davanti a loro, che
conduceva per mano un bimbo biondo visibilmente tremante, si
girò e scoccò loro
un’occhiata di rimprovero; poi, forse notando
l’aria un po’ curiosa che
dovevano avere tutti e due, con il loro aspetto ancora un po’
ammaccato e il
livido di Ron in bella mostra (una folata di vento era bastata per
rivelarlo),
la sua espressione mutò in una di accigliata disapprovazione
e fece due veloci
passi avanti.
Quando
arrivò il loro turno ed ebbero spiegato che desideravano
parlare di una cosa
piuttosto urgente in segreteria, vennero condotti nel retro del banco
informazioni, in una sala grigia e spaziosa. Seduta ad una scrivania di
legno
bianco c’era una donna bionda sulla quarantina che inseriva
dei dati in un
massiccio computer color topo.
La
donna si soffermò un istante più del dovuto sui
loro visi, poi ritornò al
monitor.
Clic,
clic. ‹‹Buongiorno,
sono Patti. Come posso aiutarvi?›› Clic,
clic.
‹‹Buongiorno,››
esordì Hermione con un sorriso che intendeva essere
rassicurante. ‹‹Io sono
Felicity Wilkins e sto cercando mio zio che si è trasferito
in Australia un
anno fa. Mi può aiutare?››
Clic.
Patti, che probabilmente si
aspettava di tirar fuori un preventivo o discutere di un metodo di
pagamento,
drizzò il capo alla menzione di un piccolo intrigo familiare.
‹‹Mio
zio e sua moglie sono due dentisti e sono arrivati un anno fa a Sydney.
Più
precisamente i primi giorni di luglio dell’anno scorso. Credo
che abbiano
chiesto qui per iniziare… questo è il
più grande centro dentistico di Sydney,
no?››
‹‹Esatto,››
rispose Patti con un certo orgoglio. ‹‹Ha detto
Wilkins? Mi ricordo di un
Wilkins…Ma non lavora qui…››
Hermione
estrasse prontamente due fotografie e gliele passò.
‹‹Ha il loro fascicolo? Che
fine hanno fatto?››
Patti
si sistemò gli occhialini sul naso ed incrociò le
braccia sul tavolo. ‹‹È che
non posso aiutarvi, ragazzi. Sono informazioni confidenziali, non posso
mostrarvi le copie dei curricula che ci vengono portati… E
poi non sono io che
me ne occupo, queste cose le fa Emily e
io…››
‹‹Ma…
per favore…››
‹‹Ve
l’ho detto, ragazzi, di queste cose io non ne so
nulla,›› disse la donna,
‹‹Emily oggi non c’è, se
ripassate domani, forse lei potrà aiutarvi. Mi
dispiace molto.›› Sembrava vagamente imbarazzata;
si voltò per digitare
qualcosa sulla tastiera e poi si chinò per estrarre un
floppy disk.
Accanto
a sé, Hermione avvertì un movimento rapido, un
guizzo sulla sedia di Ron.
Quando Patti si girò di nuovo verso di loro, la sua
espressione era una di
educata confusione.
‹‹Allora
non è un problema, vero?›› chiese Ron,
cordiale.
Uno
sguardo di traverso e vide che Ron aveva estratto la bacchetta,
tenendola
nascosta sotto al tavolo. Non solo chiunque
fosse entrato in quel momento avrebbe potuto vederlo, ma per di
più era una
cosa assolutamente scorretta.
‹‹Oh,
io, insomma, non so…. Ma forse… sì,
sì, sì, non è un problema, insomma,
perché
dovrebbero esserci problemi… aspettate un
attimo…››
La
donna si alzò e ciondolò verso le grosse
scaffalature a muro. Aprì un grosso
cassetto a carrello e iniziò a frugare placidamente tra le
cartellette che
conteneva.
‹‹Cos’hai fatto?››
sibilò Hermione.
‹‹Quello
che andava fatto.››
Patti
rimase quasi due minuti alla ricerca, e poi ritornò.
‹‹Ecco… ma io non
so…››
Ron
le prese il foglio dalle mani. ‹‹Non
c’è nessun problema, Patti. È stato un
piacere conoscerla, e grazie ancora per la
disponibilità.››
Poi
se
ne uscì dalla stanza di buon passo, sicuro che Hermione lo
avrebbe seguito
adorante. Quando furono fuori, si fermò trionfante davanti a
lei, tenendo alto
il curriculum di Wendell Wilkins e sorridendo come se avesse appena
vinto una
partita a Quidditch; ma non appena vide l’espressione di
Hermione si rabbuiò.
‹‹Cos’ho
fatto adesso?››
Non
sapeva come dirlo. Un’idea le turbinava nel cervello ma non
riusciva ad
associarla a delle parole. I neuroni del lobo frontale erano in
subbuglio.
Allarme rosso. ‹‹Quello che hai fatto.
L’hai… le hai lanciato un incantesimo,
così… una Babbana -››
‹‹L’avrei
fatto anche se fosse stata una strega, eh -››
‹‹Sì
ma – è diverso…non
hai rispettato la
sua volontà… Non capisci? Lei non poteva
difendersi -››
Ron
la guardava come se avesse perso la testa. Una parte di lei non lo
biasimava.
Sapeva che quello che stava dicendo faceva a pugni con il loro
obiettivo.
Eppure, eppure…
‹‹Bè,
se è così,›› disse Ron,
impallidito ed offeso, ‹‹fai pure, prendi questo
foglio, non leggere nemmeno dove sta e riportaglielo.
‹‹Ron,
non voglio litigare -››
Ron
sbuffò. ‹‹No, certo, però
va bene darmi del razzista contro i Babbani.››
‹‹Non
era quello che volevo dire,›› replicò
Hermione a bassa voce. ‹‹È solo che...
››
Ma non le veniva in mente nulla. Non sapeva nemmeno lei
perché l’azione di Ron
le avesse suscitato dentro quell’indignazione. Alla fine, a
Patti non sarebbe
successo nulla, no? Con ogni probabilità non se lo sarebbe
nemmeno ricordato…
‹‹Lascia stare,›› disse
alla fine con un sospiro. ‹‹Ho esagerato. Mi
dispiace.››
La
posa rigida di Ron si rilassò all’istante, e le
lanciò un’occhiata nervosa.
‹‹Allora cosa vuoi fare?››
‹‹La
cosa sensata da fare, andare all’indirizzo scritto
lì sopra,›› replicò
Hermione, sentendosi di nuovo una persona razionale e composta.
Wendell
Anthony Wilkins era un dentista nato a Poole, Dorset, il 14 maggio
1947, la cui
carriera scolastica e lavorativa coincideva in ogni dettaglio con
quella di Louis
David Granger, fino all’analoga conoscenza del tedesco (da
giovane aveva
sognato di fare il traduttore, ma Nietzsche offriva meno sicurezze
delle carie).
Abitava assieme alla moglie (non identificata nel curriculum) al numero
21 di
Kentish Street in un sobborgo residenziale a quindici chilometri a nord
del
centro città. Sull’autobus che li portò
in zona, Hermione, che si trovava nella
difficile situazione tra il sentirsi realmente scossa per
l’incidente di prima
e il dover fingere di essere ancora un po’ arrabbiata,
dovette contenersi dal
guardare l’orologio ogni minuto. Trenta minuti sembrarono
divenire sessanta,
poi centoventi…
Arrivarono
a Kentish Street alle cinque del pomeriggio, quando il sole
già tramontava. Era
un quartiere tranquillo popolato da graziosi bungalow bianchi coi tetti
in
tegole arancioni e curati giardinetti sul fronte. Vari bambini in
giacchetta
giocavano sull’erba tra le palme nane, altri cercavano di
bagnarsi le scarpe
saltando su rivolo d’acqua che scendeva giù per la
strada, sull’asfalto. C’era
odore d’erba umida nell’aria: qualcuno doveva aver
annaffiato il suo prato.
Delle macchine passavano sporadicamente, precedute a volte dal suono
attutito
dell’impianto stereo.
Il
numero 21 era uno di quei bungalow, col suo prato, la sua palma nana e
anche,
notò Hermione con un vago fremito d’orrore, un
nano da giardino semi nascosto
dietro ad una felce. Aveva cancellato il buon gusto dei suoi genitori,
oltre alla
loro memoria di lei?
‹‹E
così eccoci qui,›› disse Ron.
‹‹Facile.››
Anche
lui stava simulando di essere ancora irritato con lei.
Hermione
si sentiva un groppo in gola.
‹‹Andiamo.››
Percorse
quasi correndo il vialetto d’ingresso e poi suonò
il campanello.
Chi
avrebbe aperto?
La
sua mente fu attraversata da un’immagine di suo padre,
abbronzato come non era
mai stato, subito seguita da un’immagine di sua madre,
più bella di come se la
ricordasse. Si asciugò le mani sudate sui jeans e
lanciò un’occhiata a Ron.
Sempre al suo fianco. All’improvviso non aveva più
voglia di fingere di essere
arrabbiata con lui.
‹‹Buona-››
attaccò Hermione non appena sentì lo scattare
della porta, ma quasi sobbalzò
quando vide che ad aprire la porta non era certamente uno dei suoi
genitori, ma
una giovane donna rossa di capelli con un bimbo di pochi mesi
bilanciato
precariamente sui fianchi. A completare il quadretto alieno, un paio di
barboncini si ricorrevano ai suoi piedi.
‹‹Buonasera…?››
‹‹Ecco,
noi, vede – pensavamo che qui abitassero i coniugi Gr
– Wilkins,››
spiegò Hermione, incespicando sulle sue stesse parole.
‹‹È il numero 21,
giusto?›› chiese banalmente, visto che un grosso
‘21’ era
scritto sulla mattonella del numero civico.
‹‹Sì,››
disse la donna col suo forte accento australiano,
‹‹ma può darsi che se ne
siano andati. Non so chi ci stesse qui prima di
me.››
‹‹Oh,
capisco, e il padrone di casa…?››
La
donna fece un mezzo passo fuori dalla casa ed indicò con la
mano libera un
punto vago in lontananza, giù per la strada.
‹‹La signora Hughes, abita al
numero
Hermione
la ringraziò, un po’ frastornata, e nemmeno i
mosci tentativi di fare
dell’umorismo di Ron riuscirono a sollevarla dalla scottante
delusione.
‹‹Non
sarebbe stato all’altezza della nostra reputazione,
no?›› offrì Ron, mettendole
un braccio attorno alle spalle. ‹‹Voglio dire,
siamo Ron Weasley ed Hermione
Granger. A noi non piacciono le cose troppo facili. Cosa
penserebbe Harry
di noi, altrimenti?››
Fu
con molta meno trepidazione che bussarono al numero 87. Si videro
aprire la
porta da una vecchina rotonda, con pelle di pergamena e penetranti
occhi blu.
Quando li vide i suoi occhi diventarono due fessure piene di
diffidenza, poi,
non appena ebbero spiegato che erano Felicity Wilkins e Randall Nott
(per il
sommo dispiacere di Ron, il primo cognome che gli venne in mente) e che
cercavano uno zio di lei ed avevano ottenuto quell’indirizzo
al Dental Centre
di Sydney, l’anziana donna fu mossa a tale pietà
che li invitò in casa, li fece
sedere al tavolo della sua graziosa sala da pranzo e offrì
loro torta e caffè.
Felicity
rispiegò di nuovo come stavano le cose, e, per
infiocchettare il tutto,
aggiunse dei dettagli inventati di sana pianta, come una malattia grave
di
Monica Wilkins e la voglia matta dei due coniugi di lasciare la piovosa
Inghilterra.
‹‹Ah,
la mia cara mamma era inglese,›› disse la
signora, versando loro altro caffè.
‹‹Emigrò con la sua famiglia qui a
Sydney nel 1902. E sapete una cosa? In
sessant’anni non mi ha mai detto di provare nostalgia
dell’Inghilterra! Senza
offesa, certo,›› aggiunse, come ricordandosi di
avere due interlocutori
inglesi.
‹‹Comunque
la vostra è una storia così
commovente,›› decretò.
‹‹Così tanto. Siete una
coppia bellissima,›› aggiunse, quasi mettendosi a
piangere.
‹‹I
Wilkins erano brave persone, mi dispiace che se ne siano andati. Mai un
pagamento in ritardo. Non so dove siano andati esattamente…
Sono già sei o
sette mesi…››
‹‹Nemmeno
la città?›› incalzò
Hermione.
‹‹Bè
sì. Avevano detto…›› si
guardò un po’ attorno, come se cercasse aiuto dai
muri,
‹‹sono vecchia, me le scordo queste
cose… Ma mi sembra, sì, ecco, avevano detto
Newcastle.››
‹‹Newcastle? In Inghilterra?››
esclamò Ron con gli occhi spalancati.
‹‹Ma
no,›› abbaiò la vecchia.
‹‹Newcastle qui vicino. È a un paio di
ore di macchina
da qui.››
Furono
le uniche informazioni che riuscirono ad ottenere da lei. La salutarono
in
fretta, prima che potesse continuare il discorso che aveva intrapreso,
sulla
sua cara nipote che abitava a Newcastle ed era tanto in carriera,
appena
tornata da Singapore, sapete; fecero la strada inversa, alla volta
della
fermata di un autobus che li potesse riportare in centro, discutendo
sul da
farsi.
‹‹Secondo
me è meglio aspettare domattina,››
disse Ron. ‹‹Non ha senso andare fin
lì
adesso, col buio.››
‹‹Ma
potremmo…››
‹‹Li
abbiamo praticamente trovati! Voglio dire, ora sappiamo la
città esatta. È più
piccola questa Newcastle, vedrai che - ››
argomentò Ron, mentre aspettavano
alla fermata. ‹‹Oh, grande,
ora ha
anche iniziato a piovere…››
Cadevano
gocce grosse come chicchi d’uva sulle loro teste. Hermione
tirò fuori
l’ombrello dalla borsetta.
‹‹Allora?››
chiese Ron.
‹‹Forse
hai ragione. Ora siamo stanchi. Ho una gran voglia di
dormire.››
‹‹Così
mi piaci,›› disse Ron, e le posò un
bacio sulla testa.
‹‹Grazie,››
mormorò Hermione, spingendosi un po’ di
più verso di lui. ‹‹Senza la tua idea
geniale saremmo ancora in alto mare.››
‹‹Ho
un talento per risolvere le situazioni estreme,››
replicò Ron.
E
scoppiarono a ridere tutti e due, lì sotto il loro ombrello
e la pioggia,
circondati dai bungalow bianchi di un sobborgo residenziale di Sydney.
*
Nota
dell’autrice.
Una
cosa che mi sono dimenticata di aggiungere alle
note dello scorso capitolo: la storia del presunto divorzio dei
genitori di
Hermione non è una mia invenzione, ma un dettaglio che
Ovviamente
ringrazio tutti coloro che hanno
commentato l’ultimo capitolo e hanno messo la storia tra
preferite, seguite e
ricordate. Grazie:)