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Autore: Rainie    10/08/2011    8 recensioni
Rein? La ragazza più normale del mondo. O almeno, così lei crede. Un lavoro? Beh, sì, ce l'ha, ma non è poi così normale come lei (?). Un imprevisto? Insomma, quello si vedrà.
Perché, in fondo, cosa sarebbe mai capitato a qualcuno che segue diligentemente le routine come lei?
Cit.: «Adesso che farai?» chiese, e fu in quel momento che capii il perché di quel sorriso inquietante: sapeva che ero disposta a tutto pur di non far morire un amore.
Deglutii saliva amara, era una bella domanda. Cosa avrei fatto? Cercando tutta la sicurezza che avevo in corpo, gli dissi: «Smettila, non è divertente.»
«E se anche fosse?» rispose avvicinandosi a me, ed io indietreggiai di conseguenza. No, non dovevo farmi mettere in soggezione da un tipo come lui.

[...]
«Facciamo così» sentenziò, «se mi trovi almeno cinque ragioni per continuare a stare con tua sorella, allora mollo tutto e continuo la storia. Se non riesci, beh… direi che è ora di finirla. Che ne dici?»
[Pairing: ShadexRein]
Genere: Comico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Rein, Shade, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 1
 
Di recente avevo accettato un lavoro per un salario nullo.
Sono una ragazza normale di sedici anni delle scuole superiori, con una media dei voti normale, una vita normale e degli amici normali (anche se su quest’ultimo punto c’è un po’ bisogno di discutere).
Tutti quelli che conosco mi avevano sempre detto che ero la “reincarnazione” della pioggia, sebbene abbia sempre saputo di appartenere al sole dai tiepidi raggi che scalda l’inverno di questa città abbandonata dal mondo.
Facevo sempre la stessa strada per andare a scuola, studiavo sempre le stesse materie e uscivo sempre con le stesse persone. La mia vita aveva un senso unico, anche se non me ne accorgevo. Sarei diventata una donna normale, con un lavoro normale ed una famiglia normale, proprio come la vita durante l’adolescenza. Non mi importava di quali aspettative nutrivano i miei genitori, le avrei soddisfatte tutte. Erano gli altri a decidere per me, ma non m’importava più di tanto.
La mia gemella, invece, era più esplosiva di me, così esuberante che era impossibile fermarla. Se aveva un obiettivo in testa, l’avrebbe raggiunto sicuramente. Forse è solo in questo quello in cui siamo uguali. Ero anch’io una gran testarda, ma per il resto eravamo diverse, forse anche troppo per essere gemelle: Fine possedeva il carattere e l’aspetto di mia madre, aveva i capelli e gli occhi di un delizioso color rubino; io, invece, ero troppo simile a mio padre, ero il colore blu del cielo. Eravamo lo yin e lo yang, il Nord e il Sud, il giorno e la notte, l’acqua e il fuoco.
Mio padre era tranquillo, disponibile ed abbastanza allegro, così come lo ero pure io: forse era per questo che avevo accettato quel lavoro.
A causa di una serie di eventi, mi ritrovavo a volere che nessun amore sfiorisse, così ero diventata tipo Cupido, che, invece di far scattare l’amore, lo preservava. Qualche volta alcune delle mie compagne mi chiesero consigli, sebbene non fossi stata la persona giusta a cui fare certe domande, che alla fine si erano rivelati più efficaci di quanto pensassi. In questo modo si diffuse la voce sul mio “superpotere”, così per dire. Non sapevo se stessi facendo la cosa giusta e spesso me lo chiedevo, in preda ad attacchi di responsabilità improvvisa.
Ma mia sorella mi ammirava.
In casa, ero sempre stata quella “grande”, quella a cui fare affidamento. Fine era sempre stata la piccola, ed io dovevo prendermi cura di lei. Ma quella relazione era comunque vera, dato che ero nata prima io.
Con quale coraggio avrei potuto, io, la sorella maggiore, infrangere quella fiducia che lei riponeva in me?
Ed anche tutti gli altri non avevano mai dubitato, nemmeno per un momento, della mia affidabilità. Altezza, Lione, Mirlo, Auler, Sophie, Bright, Tio. Erano tutti così sicuri di me, che solo un passo falso ed avrei distrutto tutto il loro castello di carta che avevano costruito per me.
Insomma, non proprio tutti.
Fine aveva un ragazzo di un anno più grande di noi, come lo erano Mirlo, Bright ed Auler. Si chiamava Shade, ombra, un tipo piuttosto taciturno e dal carattere freddo e distaccato. Sorrideva raramente, era, più che altro, il suo ghigno beffardo che faceva capolino sulla sua bocca, facendomi spesso rispondere con un commento sarcastico o un insulto. Non eravamo mai andati d’amore e d’accordo; non avevo mai saputo come fosse diventato il fidanzato di Fine, data la loro diversità. Forse, semplicemente, erano due poli opposti che si sono attratti.
Diceva spesso che non aveva bisogno di me, che ero inaffidabile – anche se questa cosa mi faceva sentire più che sollevata, era una persona in meno che mi dava la possibilità di ferirla. Era, invece, mia sorella che spesso mi chiedeva di aiutarla, perché non sapeva cosa doveva fare con lui. Ed io, sospirando, cercavo sempre di darle dei consigli.
Era così la mia vita: piatta, senza un minimo di cambiamento, ma mi andava bene così. Era la normalità.
Era questo quello a cui pensavo mentre ascoltavo distrattamente il discorso del preside alla cerimonia di apertura del secondo trimestre. L’autunno era sceso giù all’improvviso, piovendo, senza nemmeno darmi il tempo di prepararmi per bene. L’estate era volata, ed era cominciata nuovamente la scuola.
«Che noia che è stata!» si lamentò Fine, mentre uscivamo dall’aula magna. Era di sicuro così che si sentivano tutti gli altri studenti, data la quantità industriale di sospiri che avevo sentito durante quella riunione. Alzai un sopracciglio e mi voltai a guardarla, per poi dirle: «Santo cielo, prega che nessuno ti abbia sentito».
Era vero che pure io mi ero annoiata da morire, ma di certo noi studenti non potevamo dire certe cose. «Uff, ma è stato davvero così… non riesco a trovare un’altra parola che non sia “noioso”» borbottò la mia gemella, sbuffando sonoramente.
“Come potrei non darti ragione?” pensai, sospirando pure io.
La città in cui vivevamo, Wonder, non era poi così grande. Il clima era piuttosto mite, anche se d’inverno faceva un freddo che non ne si poteva. Io e Fine non eravamo nate lì, ma c’eravamo trasferite al terzo anno delle medie. C’erano poche scuole nella città, ragion per cui abbiamo conosciuto gran parte dei nostri compagni del liceo alle medie.
Ed erano 3 anni che ero compagna di classe di Altezza, 3 anni in cui mi chiedevo come diamine avevo fatto a sopportarla. Lei e le sue manie spesso mi facevano letteralmente impazzire, ma sapevo bene che sarebbe stato impossibile vivere di nuovo senza la sua presenza nella mia vita. E quel giorno, come al solito, mi si era avvicinata di soppiatto strappando a me e mia sorella – soprattutto a mia sorella – uno strillo di spavento. «Non ci provare mai più» le sibilai, guardandola malissimo. Ero sicura che tutti ci stavano fissando straniti, e sperai di sgattaiolare al più presto possibile nella mia classe. Altezza mi diede un’occhiata neutra e fece le spallucce, dicendomi: «Impossibile, è troppo divertente».
«Oddiotipregononfarlopiù» piagnucolò Fine, in preda ad una crisi isterica. La mia compagna bionda la guardò maligna, ma poi si rivolse di nuovo a me, chiedendomi: «A proposito, hai visto per caso mio fratello? Stamattina mi ha preceduta ed adesso non lo trovo più da nessuna parte».
«Oh, fantastico» borbottai. Un altro problema da risolvere. Altezza non poteva vivere senza la figura portante del fratello; il loro rapporto era molto simile a quello mio e di Fine. Era per questo che consideravo Altezza come una sorella in più a cui badare (?).
«Mi stavate cercando?» chiese la voce del biondo fratello di Altezza, facendomi sussultare dalla sorpresa e dallo spavento. “Come non detto” pensai, mentre la sorella gli chiedeva dove fosse finito. Bright era con Shade, come al solito, e vidi Fine accendersi come una lampadina e fare un gran sorriso, mentre si avvicinava a lui e lo salutava.
Sospirai, era così tranquilla quella giornata che sperai, per un momento, fosse un po’ più movimentata. Forse era per il fatto che tutti avevano qualcuno a cui volere un bene dell’anima, e solo io avevo una vita così tranquilla e senza alcunché a cui pensare.
 
Quel giorno, dopo essere tornata da scuola e aver pranzato, mi addormentai – anche se non ero poi così stanca – fissando le gru di carta che avevo appeso al soffitto della mia stanza, alla porta e alla finestra.
Amavo gli origami sin da piccola. Adoravo vedere i flaconcini nei negozi pieni di stelle colorate e vetrine allestite da fili di boccioli di fiori. Avevo cominciato solo per curiosità a piegare i fogli colorati, poi è diventata una passione. Oramai, la mia stanza era piena di origami.
Quando mi svegliai, quegli uccelli volteggiavano ancora nell’aria grazie al venticello autunnale che penetrava nella mia stanza, impregnandola di un forte odore di pioggia. Ricordavo che erano circa 467 gru, avevo smesso di piegarle dopo… beh, dopo quello che era successo e da quando avevo cominciato a fare quella specie di “lavoro”.
Ogni volta che ci pensavo mi venivano le lacrime agli occhi, ma era ormai passato. E io ignoravo il passato, giusto? Eppure non riuscivo a non pensarci, quando fissavo quegli origami che sembravano volare come uccelli reali.
Mi misi a sedere e scossi la testa, dopodiché mi voltai verso la sveglia per vedere che ore erano. Le 16.13. Avevo dormito un sacco, e dovevo ancora finire i compiti delle vacanze. Per cui mi alzai, mio malgrado, dal letto e frugai nella borsa in cerca del quaderno che, purtroppo, non riuscii a trovare.
«Oh, possibile che capiti tutto a me?» borbottai stizzita, mentre ricordavo che l’avevo lasciato sotto il banco mentre tiravo fuori le mie cose.
Non avevo alcuna voglia di ritornare a scuola, soprattutto per il fatto che era lontana da casa mia e ci mettevo circa una ventina di minuti per andarci, ma non potevo fare altrimenti, i professori mi avrebbero scannata viva. E poi pioveva, non amavo così tanto la pioggia, a dir la verità. Mi metteva tristezza.
Decisi, comunque, di prendere l’ombrello ed uscire, avvertendo Fine, che si offrì di accompagnarmi. «No, non c’è bisogno. Sbaglio o pure tu devi finire i compiti?» risposi ammonitrice. Lei sembrò di ricordarsi qualcosa e mi disse: «Già che ci sei, mi vai a recuperare anche la sciarpa? L’ho dimenticata in classe.»
Per tutta la durata del tragitto in treno, continuai a fissare fuori dal finestrino, sperando che la pioggia si fermi in qualche modo. Erano ormai giorni che cadeva ininterrottamente, ed io non potevo fare altro che restare a guardare. Non che avessi potuto fare chissà cosa, ma speravo che la pioggia smettesse di cadere e lasciasse il posto al sole.
Quando giunsi a scuola notai che il cancello, fortunatamente, era ancora aperto.
M’incamminai nei corridoi, che avevano ancora la luce accesa, in cerca della rampa di scale che portavano al secondo piano, dove c’erano le classi del secondo anno.
La scuola era divisa in tre piani, ognuno dei quali ospitava una fascia d’anno. Al primo piano c’erano le classi del primo anno, la segreteria, l’ufficio del preside e le palestre; al secondo le classi del secondo anno e vari laboratori; infine al terzo c’erano quelle del terzo anno, la biblioteca, l’aula magna e il laboratorio artistico. L’ordine delle classi era alfabetico, quindi la prima classe che ti trovavi era la A, seguita poi dalla B e via dicendo, fino alla H.
Entrai nella mia classe e sperai di ritrovare il quaderno ancora sotto il banco. Tirai un sospiro di sollievo nel sapere che era ancora a posto. Non avevo alcuna voglia di restare ancora nell’edificio scolastico sebbene fuori piovesse, così decisi di trovare in fretta la sciarpa di Fine e di andarmene.
Uscii dalla porta della mia classe e mi diressi verso quella di mia sorella, che era a due classi di distanza dalla mia. Io frequentavo il corso B insieme ad Altezza, lei il corso E con Sophie, mentre Lione era l’unica che frequentava il corso F del secondo anno.
Avevo l’abitudine di sbirciare nelle altre classi quando passeggiavo nei corridoi della scuola, e quella volta non feci eccezione. Era per quello che avevo sbagliato? No, perché nella sezione C vidi qualcuno di cui non avrei mai dubitato (?), beh, baciare una tizia che non avevo mai visto in vita mia. Era una visione orripilante e sorprendente allo stesso tempo, dato che Shade era il ragazzo della mia gemella.
Alzai un sopracciglio nel fissarli sbalordita, e lui si accorse della mia presenza. Era forse stato il mio cuore che stava battendo così forte a far sì che Shade si accorgesse di me e della mia sorpresa? Quel ragazzo fu così arrogante da farmi il segno di andarmene, ed io, indignata, mi continuai a camminare dritto, seppur avevo stampato in mente quella scena.
La domanda sorgeva spontanea: avrei dovuto dirlo a mia sorella, così dolce ed innocente?
Quando entrai nella sezione E mi accorsi che stringevo così forte la giacca dell’uniforme – non me l’ero tolta quando sono ritornata a casa – che la sgualcii, mentre il quaderno era, più o meno, nelle stesse condizioni. Cercai di sistemarmi al meglio e di togliermi di mente quell’immagine disgustosa, ed ecco che Shade faceva la sua comparsa dietro di me dicendomi, ad un centimetro dall’orecchio: «Mi hai scoperto, allora.»
Sussultai dallo spavento, voltandomi di scatto ed indietreggiando di qualche passo. Aveva un ghigno beffardo stampato sulla faccia che non riuscii ad interpretare al meglio. «Non dovresti fare queste cose» sussurrai in preda al panico, cosa che non mi succedeva spesso. «Sei il fidanzato di mia sorella» sentenziai, cercando di aggrapparmi all’affermazione. Mi sembrò che il tempo accelerasse, anche se ogni parola che mi ritrovavo a sentire veniva pronunciata con una tale lentezza che mi faceva morire di ansia.
«Adesso che farai?» chiese, e fu in quel momento che capii il perché di quel sorriso inquietante: sapeva che ero disposta a tutto pur di non far morire un amore.
Deglutii saliva amara, era una bella domanda. Cosa avrei fatto? Cercando tutta la sicurezza che avevo in corpo, gli dissi: «Smettila, non è divertente.»
«E se anche fosse?» rispose avvicinandosi a me, ed io indietreggiai di conseguenza. No, non dovevo farmi mettere in soggezione da un tipo come lui. «Fine non ti basta?» chiesi cercando di stare sulla difensiva, ma ebbi la sensazione di star trattando mia sorella con sufficienza.
«Diciamo che ho altre cose in mente» rispose fissandomi negli occhi senza alcun segno di allusioni strane, ed io alzai automaticamente un sopracciglio. Non gli dissi niente e me ne restai lì senza proferir parola. Dovevo fare – dire – almeno qualcosa di giusto in quella conversazione, ma non riuscii a pensare a niente di sensato ed abbastanza intelligente. Forse era per quella specie di shock subito nel vedere il ragazzo di mia sorella stare con un’altra, e mi venne la nausea solo pensandoci.
«Tu vuoi che io resti con Fine, giusto?» chiese poi, all’improvviso. Annui, poco convinta e diffidente, alla sua domanda, e lui parve sospirare. «Facciamo così» sentenziò, «se mi trovi almeno cinque ragioni per continuare a stare con tua sorella, allora mollo tutto e continuo la storia. Se non riesci, beh… direi che è ora di finirla. Che ne dici?»
«Allora era a questo quello che stavi puntando sin dall’inizio?» chiesi con una punta di disgusto. Non avevo ancora bene in mente quali fossero i suoi obiettivi. Lui sorrise e mi disse, ignorando bellamente la mia domanda: «Ti do tre mesi. Allora, che ne dici? Accetta, se ne sei in grado, Rein.» Rabbrividii per il modo in cui mi aveva chiamato.
«Tre mesi sono più che sufficienti» risposi, comunque, d’impulso, ma non mi pentii di averlo fatto. Lui continuò a ghignare. «Se entro il… 24 dicembre non riuscirai nell’impresa, significa che il tuo “lavoro”, in verità, non è poi così adatto a te.»
«Ci sto.»
«Brava. Mi piaci quando sei così.»
Mi dissi che quella conversazione non poteva più andare avanti, non doveva più andare avanti. Era già tanto se mi ero fermata a fare quello stupido patto, sicuramente avrei peggiorato le cose se fossi rimasta lì a fissarlo con aria di sfida.
Mi avviai verso la porta, con il cuore che pulsava dalla rabbia e un pizzico di sensazione di fregatura. Infatti, poco prima che uscissi, lui mi strattonò il braccio e sentii il calore delle sue labbra sulle mie mandarmi in tilt; fu solo un contatto lieve e superficiale, ma lui sorrise come un bambino che aveva appena ricevuto il suo giocattolo preferito e mi precedette nell’uscire dall’aula.
Me ne restai lì senza muovere un muscolo per qualche minuto, per assicurarmi che se ne andasse lontano da me, prima di uscire anch’io dirigendomi verso le scale.
Solo quando uscii dalla struttura scolastica mi accorsi che non avevo ancora recuperato la sciarpa di Fine: fu quello il segno dell’inizio del mio lento declino.






















N/A: Ohohohohoh.
Signori, con sommo piacere per me e dispiacere per voi, sono ritornata ancor più motivata di prima (perché ho la sensazione di star imitando un cantastorie del periodo medievale?)!
Per la gioia dei miei lettori (?) e dei miei fan (??), una long fiction sulla BlueMoon tutta per voi, da gustare quando avete (avrete?) tempo!
Ok, sicuramente non sarò il massimo della puntualità – in contemporanea ho ancora due long D: – anche questa volta, ma farò del mio meglio. Però non so già più come continuarla D: E poi questo è il titolo più stupido che abbia mai inventato, spero di trovarne al più presto uno più intelligente. AAAARGH, sono troppo poco organizzata. Inoltre Rein in versione ragazza super normale mi da la sensazione di un OOC di proporzioni gigantesche e Shade troppo poco serio. In verità, non ce lo vedo molto così D:
Uhm, niente di che, come al solito.
Boh, spero aspetterete con pazienza (?) il prossimo capitolo che arriverà… nonsoquando, mi dispiace.
Alla prossima. Spero.
Noth aka Rainy. Ho cambiato nick! :D
   
 
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