Tu
guardavi tutti imbarazzata. Sembrava che quella notte non finisse
mai. Tutto intorno a te avevi i tuoi cari e dentro solo un infinito
senso di solitudine.
Non c'entravano le stelle cadenti - quelle
erano davvero rare a vedersi e tu non eri il genere di persona che
incorreva in queste fortune - c'entrava piuttosto quel senso di
estraneità che tu rincorrevi e ricacciavi, ogni giorno.
C'è un
dolore sottilissimo e mortale che appartiene solo alla gente come te
e me.
E' il dolore della gente sola, che ama tutti ma non
abbraccia mai nessuno.
Tu ci guardavi imbarazzata come se fossi
stata nuda in mezzo a noi tutti vestiti, come se fossi stata calva o
priva di una scarpa, come se da un momento all'altro avessi potuto
iniziare a sbavare verde e a parlarci con lingua aliena. Non
appartenevi ai nostri mondi e noi non appartenevamo a te. C'era tutta
la volta celeste a guardarci, eravamo corpi schiacciati dalla stessa
atmosfera, eppure il tuo corpo sembrava ancora più gravato
dalla
pesantezza del vivere.
Ti guardavi intorno e non riconoscevi
nessuno, milioni di volte mi ripetesti quanto è triste
sentirsi soli
in mezzo alla gente, in mezzo agli amici, dicevi che nessuno era come
te, dicevi che noi tutti stavamo al di qua di una linea immaginaria
che a te era proibito valicare.
Vivevi come in un castello
striminzito, tutto finestre enormi aperte sul mondo. Guardavi da
dentro quelle tue ferite aperte e bramavi un granello di
banalità,
di omogeneità. Tutto ti era inferiore nel tuo mondo, tutte
le menti,
anche le più geniali, giacevamo miseramente ai tuoi piedi.
Eppure
non eri presuntuosa, ti vedevi stupida e immatura, eri come una
bambina morente seduta in cima ad una torre e scagliavi biglie e
giocattoli rosa addosso a chi ti stava intorno e non ti lasciava
morire in pace.
Il tuo corpo sotto
la luna era bianco e stranamente vivace.
Temevo l'attimo in
cui quel tuo intimo barlume di autodistruzione avrebbe incendiato i
tuoi occhi: tu bevevi vino e ballavi sotto la luna, attorno a noi
c'erano soltanto distese di di teste e mani e piedi, ma era come se
fossero sassi, o dune, o alberi. Noi non percepivamo la vita, al di
fuori delle nostre.
Vorrei poter
saltare così in alto
bisbigliavi severa, ma quel così
non indicava mai una misura precisa bensì una speranza, un
anelito
all'altezza.
Mi
porgevi il tuo bicchiere colmo, io attingevo piccoli sorsi aspri,
avrei voluto volarti accanto ma la mia educazione, i miei trascorsi,
il mio senso del pudore me lo impedirono sempre: tu eri così
libera
da tutto, si sarebbe detto che non avevi alcun legame col mondo,
avresti potuto benissimo abbandonarti al vuoto senza alcuna remora
–
chi è così solo da non considerare che, morendo,
farebbe
l'infelicità di qualcuno?
A
volte mi sentivo sola anch'io: tu ti abbandonavi ai tuoi deliri
post-prandiali, una sigaretta arrotolata male pendeva dalle tue
labbra, dorati riccioli di tabacco si spargevano fra i tuoi fogli.
Disegnavi dozzine di forme, tutte diverse, lontane le une dalle altre
e poi ti divertivi a collegarle. Era strepitoso trovare all'interno
dello stesso quadro una pannocchia e una chiesa, un cane, un pollo e
un accendino. Era questo ciò che facevi e ciò che
mi condusse a te.