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Autore: Fuyumine    15/08/2011    0 recensioni
Di lei, da allora, non seppi più nulla. Sparì improvvisamente dal circo e nessuno la nominò più.
La sua esistenza venne cancellata nel giro di una sola notte.
Ed io...io non volli mai sapere dove fosse finita. Anche se, dal mio giaciglio, al tramonto, sentii i leoni ruggire e sbranare e sbrindellare e squartare. Mi raggomitolai sotto la coperta e, con gli occhi sbarrati, piansi tutte le mie lacrime e pregai.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mi hanno detto che la forza e la resistenza di una persona si misurano sulla sua capacità di reagire nei momenti di sconforto. Io devo essere fatta del miglior marmo in circolazione. Perché mentre i miei compagni piangevano la perdita del direttore, io ridevo come una fanciulla il giorno del suo compleanno. Ero felice.

Felice di averlo ucciso con l'arsenico.

 

Il vecchio mi lancia uno sguardo torvo e si picchietta l'orologio, al polso sinistro, con l'indice della mano destra.

« Sei in ritardo, bambina. »

Lo so.

Scuoto appena le spalle, mi volto e muovo qualche passo in direzione di una vecchia sedia che, da non so quando, pretende di essere utilizzata come appendi-abiti.

Lui si porta una sigaretta alle labbra, l'accende e ne aspira una boccata. Poi si lascia cadere su di uno sgabello vicino al letto che, per le prossime ore, mi vedrà vittima di un dolore che ho liberamente scelto di infliggermi.

Mi tolgo la maglietta e la lascio sulla famosa sedia.

Nonostante non possa vederlo sento il suo sguardo avido che mi si appoggia sulla schiena, che mi percorre la spina dorsale e che risale lentamente verso le mie spalle.

Sento la sua lingua scoccare e rabbrividisco. E non è solamente per il freddo che pervade questo sporco scantinato. È per una sensazione che mi attanaglia la bocca dello stomaco, una sensazione che speravo di aver del tutto ucciso.

Torno a rivolgere il mio viso verso il suo e la vedo, la fonte della mia tristemente familiare sensazione.

È una luce.

Una luce che conosco bene e di cui, per anni, ho sopportato, sorridendo, il peso.

La luce di chi, in me, vede solamente un oggetto, non una persona.

Lui nella mia schiena non vede una schiena.

Nella mia schiena vede una tela, di un bianco chiarissimo, su cui presto ripasserà il segno leggero che vi ha inciso solamente qualche giorno fa.

Questo vecchio sudicio, rinchiuso in uno scantinato maleodorante, si sente un artista.

Mi fa cenno di stendermi prona sul letto ed io mi avvicino con lentezza, misurando i passi.

Il materasso di questo insulso lettino è duro e freddo e giurerei che una molla sta lottando con la federa per penetrarmi in un polmone. Piego le braccia e vi appoggio sopra il viso; aspetto. Il vecchio mi appoggia il disegno che io stessa ho creato sulla spalla e mi intima di star ferma e tranquilla mentre lui fa il suo lavoro.

Chiudo gli occhi e mi perdo nei miei pensieri mentre conto i secondi che mi separano dalla venuta dell'ago.

 

Il ricordo esce dall'oscurità in cui mi sono rintanata e mi assale con la stessa sgradevole sensazione che sento provenire dalla mia schiena. Il dolore diviene presto fastidio ed io mi mordo il labbro inferiore mentre la carovana del circo riacquista i suoi sgargianti colori che nemmeno la memoria è riuscita a sbiadire.

Il ritmico battere del bastone da passeggio in terra scandiva il tempo di una danza che io ed altre tre ballerine avremmo dovuto imparare per lo spettacolo che si sarebbe tenuto tra qualche ora. Faticavo a tenere il loro passo, il fiato reso ancora più corto dal freddo pungente che sembrava penetrare in ogni singola cellula del mio corpo seminudo.

Un. Due. Tre. Quattro.

Loro non sembravano risentire del gelo. Si muovevano leggiadre nei loro abiti svolazzanti, un sorriso perennemente aperto in viso e gli occhi che brillavano.

Improvvisamente il ritmo era aumentato con il bastone battuto a terra ad intervalli sempre più brevi l'uno dall'altro ed il Direttore che si era lasciato sfuggire un cenno di assenso mentre noi ci esibivamo in passi sempre più complessi. Sembrava soddisfatto.

Si era alzato ed aveva preso a girarsi attorno, osservandoci, come a volersi accertare che non avremmo fatto nessun errore, quella sera.

Lo spettacolo della scorsa settimana si era rivelato essere un disastro. Io ed un'altra ballerina, Lucy, avevamo preso male le distanze provocando un rovinoso scontro proprio al centro del palco nel momento clou della scena.

Di lei, da allora, non seppi più nulla. Sparì improvvisamente dal circo e nessuno la nominò più.

La sua esistenza venne cancellata nel giro di una sola notte.

Ed io...io non volli mai sapere dove fosse finita. Anche se, dal mio giaciglio, al tramonto, sentii i leoni ruggire e sbranare e sbrindellare e squartare. Mi raggomitolai sotto la coperta e, con gli occhi sbarrati, piansi tutte le mie lacrime e pregai.

Non perché Dio avesse in cura l' anima immortale di Lucy ma perché quel destino avverso aveva colpito lei e non me.

D' altro canto conoscevo bene la politica che regnava sotto il nostro magico tendone; a noi non era permesso sbagliare.

Perché uno sbaglio avrebbe significato lo scontento del pubblico, lo scontento avrebbe significato una minor affluenza di spettatori, una minor affluenza avrebbe significato un minor incasso ed minor incasso avrebbe significato minor ricchezza ed una minor ricchezza avrebbe significato l'infelicità del Direttore.

Del Direttore che, tanto amorevolmente, ci aveva raccolti quando il resto del mondo ci aveva abbandonato e che, in cambio a tanta clemenza, chiedeva solamente tintinnanti monete d'oro.

Tintinnanti monete d'oro imbevute di sangue.

 

Il vecchio sbuffa e l'ago si ferma regalandomi qualche istante di sollievo. Gli è caduta un po' di cenere vicino al mio viso e, goffamente, cerca di spostarla con un rapido gesto della mano. Non perde fiato a scusarsi, anzi tossisce smuovendo una schifosa quantità di catarro.

Probabilmente pensa di avere i respiri contati. Ed io anche.

Non posso impedirmi di considerare per quando ancora i suoi polmoni resisteranno, potrei aprire un piccolo banco per le scommesse con i ragazzi al piano di sopra; e potrei anche farci un mucchio di soldi.

Socchiudo appena gli occhi, li rivolgo verso di lui per cercare di cogliere una qualche espressione sul suo viso giallo e rugoso. La sua pelle è rovinata dal tempo e dalla chissà cos'altro, ha lunghi capelli grigi, un ventre prorompente che gorgoglia in continuazione, le gambe sottili e delle mani callose. Eppure il suo tocco è molto dolce mentre percorre la mia schiena ricalcando quello che sarà il mio tatuaggio.

Mi lascio sfuggire un sorriso che lui ricambia con trentadue denti color nicotina.

Chissà a cosa sta pensando.

« Bambolina, conosciamoci meglio...»

La sua voce pastosa mi giunge alle orecchie e mi lascio sfuggire un nuovo sorriso carico d'indulgenza.

Il vecchio inizia a parlare della sua famiglia che è scappata dalla guerra e che si è rintanata in questo buco di città attirata dalla promessa di una vita migliore che nessuno si è preso la briga di mantenere. Dice che siamo tutti dei cani e che, per sopravvivere, dobbiamo sbranarci a vicenda e che alla fine resisterà solo chi inciderà la carne altrui con più forza. Segue qualche attimo di silenzio in cui lui, credo, si aspetta una risposta che io non intendo dargli.

Dice che ha un figlio all'incirca della mia età. È molto alto, muscoloso, aitante. Dice che gli piacerebbe se io lo conoscessi, che potrei essere la ragazza giusta per lui.

Scoppio in una fragorosa risata che inghiotte ogni sua parola prima che lui riesca a pronunciarla. Il vecchio ammutolisce e mi osserva allontanando l'ago dalla mia pelle.

Io rido, rido, rido, come se non lo facessi da anni.

Io non sono la ragazza giusta per nessuno, perché tutti coloro che hanno la sfortuna di avvicinarsi a me finiscono inevitabilmente per morire.

 

Era una calda notte di maggio ed io ero da poco entrata nella cerchia di Eletti che il Direttore allenava personalmente. Lui diceva che eravamo ragazzi speciali, io avevo presto capito che eravamo solamente assassini più o meno spietati.

Era accaduto circa due mesi prima: mi aveva convocato nel suo studio e mi aveva fatto qualche complimento per la mia esibizione allo spettacolo appena conclusosi. Poi si era alzato, aveva chiuso la porta a chiave e aveva oscurato tutte le finestre in modo tale che dall'esterno non si potesse scorgere ciò che accadeva all'interno. Ebbi paura, ma non accadde nulla di quello che questo preambolo potrebbe far presagire.

Il direttore di sedette alla sua scrivania e s'intrecciò le mani dietro la testa, mi osservò per qualche minuto in silenzio prima di schiarirsi la voce e cominciare a parlare.

Disse, senza mezzi termini, che il circo era solo una copertura per un'attività decisamente meno lecita. Disse che lui era il Boss di una squadra di assassini scelti incaricati di eliminare persone scomode per persone ancora più scomode.

Mentirei se dicessi che rimasi scioccata. Già da un po' avevo preso a chiedermi come facesse un semplice circo a guadagnare talmente tanto da permettere a tutti noi di mantenere lo stile di vita che avevamo.

Va detto che il Direttore, pur avendo tutti i suoi difetti, non ci faceva mancare nulla e, anzi, sono portata a pensare che con i suoi regali e le sue attenzioni coprisse il silenzio sulle misteriose sparizioni che avvenivano di tanto in tanto.

Ad ogni modo, con quel suo discorso compresi. I gioielli che indossava erano comprati con la morte di qualcuno.

In un primo momento lo trovai disgustoso e provai l'immediato impulso di andarmene, mi avventai sul pomello della porta, stringendolo con forza.

Lui rise. Rise e chiamò un nome.

Io mi voltai e, contemporaneamente, apparve – da non so dove ed in una nuvola di fumo - un ragazzo che mi puntò una katana alla gola. Deglutii a stento mentre prendevo coscienza della situazione: non potevo andarmene, ormai sapevo del segreto che si celava sotto al magico tendone che regalava sogni alle persone. Se non avessi accettato quella proposta mi avrebbero senza dubbio uccisa e data in pasto ai leoni.

Così, vittima di una folle paura di perdere la vita, mossi i passi più incerti della mia intera esistenza verso di lui e, una volta giuntagli innanzi, abbassai il capo in segno di obbedienza. Il ragazzo nel frattempo aveva rinfoderato la spada e mi si era affiancato.

Lo guardai di sottecchi e l'espressione che gli vidi dipinta in viso mi atterrì: era affranto, come se stesse per piangere da un momento all'altro, ciononostante teneva i suoi occhi verdi puntati in quelli del vecchio.

« Saggia scelta bambolina. Lui si occuperà di te, si chiama Magato. Andate. »

Ci congedò e noi uscimmo silenziosamente dal suo ufficio. Il mio accompagnatore mi appoggiò una mano sulla spalla e mi disse di dimenticare tutto quello che avevo vissuto fino a quel momento perché non sarebbe più tornato.

Disse che non avrei più dormito sogni tranquilli perché i fantasmi delle persone che avrei presto ucciso sarebbero tornati a tormentarmi. Disse che il cibo avrebbe perso ogni sapore a causa del perenne disgusto che avrei provato verso me stessa, verso la mia codardia di aver preso la decisione di partecipare a quel macabro gioco. Disse che non avrei più potuto fidarmi di nessuno perché dal momento che si uccide si deve essere pronti ad essere uccisi a propria volta. Disse di dimenticare le luci del circo perché da quel momento in poi il mio mondo sarebbe stato scuro come la notte. E soprattutto disse di dimenticare tutti gli affetti perché Hai appena accettato il più crudele dei ricatti. Tu hai scelto la tua vita contro quella di tutti coloro che ti sono vicini. Lui li ucciderà se solo tu proverai a scappare, lui li ucciderà se solo tu proverai a ribellarti, lui li ucciderà se solo tu proverai a parlare di ciò che quelli come noi fanno.

Il mio addestramento cominciò il mattino del giorno seguente e proseguì, incessante e tremendo, per i seguenti due mesi. Con me c'era sempre Magato. Combattevamo insieme, mangiavamo insieme, dormivamo insieme, facevamo insieme ogni cosa.

Ben presto cominciai a pensare che anche i nostri cuori battessero insieme – avevo solo diciassette anni e nonostante l'orrore che mi stava intorno volevo ancora illudermi che esistesse qualcosa di puro come l'amore.

Quanto a Magato, non diede mai apertamente segno di avere un qualche interesse particolare nei miei confronti; era il tipo di persona che viveva ai margini, schivo, senza dare importanza a ciò che gli avveniva accanto. Inizialmente pensavo fosse semplicemente apatico ma con il passare del tempo avevo capito che il suo era solamente terrore. Lui aveva una folle paura di perdere tutto e, per evitarlo, teneva il mondo costantemente lontano da lui.

Non ebbi mai il coraggio di chiedergli cosa il Direttore gli avesse portato via. Temevo che, così facendo, lui avrebbe chiuso il suo cuore anche a me.

In una notte tiepida, tornata da un allenamento che mi aveva lasciato le mani ricoperte di vesciche, qualche nuova ferita sanguinante sulle gambe e l'animo in pezzi, lo trovai steso sul nostro divano malmesso – vivevamo infatti in una cascina costruita alla bell'e meglio con materiali di fortuna e pronta ad essere smontata non appena il circo, che proseguiva con i suoi spettacoli ignaro di tutto, avesse avuto la necessità di muoversi verso altre mete. Era assopito, il libro che stava leggendo caduto a terra, le braccia incrociate sul petto, le gambe distese, le labbra socchiuse.

Trattenni il fiato e mi avvicinai a lui, la mia ombra, proiettata sul muro dalle candele disseminate nella stanza, che danzava come un tempo avevo fatto anch'io.

Non saprei dire se avvertì la mia presenza – dopotutto era un assassino perfettamente addestrato, i suoi sensi erano di gran lunga più allenati dei miei ed era abituato ad essere costantemente all'erta anche nei rari momenti di relax come quello – ma lasciò che mi avvicinassi a lui e che mi chinassi verso il suo viso.

Rimasi una quantità esagerata di tempo ad osservare le sue lunghissime ciglia che avevo sempre trovato di una bellezza spiazzante. In realtà avevo sempre pensato che tutto, in lui, fosse di una bellezza spiazzante.

Appoggiai una mano vicino al suo viso e lo chiamai in un sussurro, come se volessi avere il suo consenso a quel bacio che volevo così disperatamente rubargli.

Magato socchiuse gli occhi e, appoggiando i gomiti al cuscino del divano, si sollevò quel tanto che bastava affinché le sue labbra sfiorassero le mie.

Il tutto durò solamente qualche istante ma fu abbastanza perché le mie gote assumessero una deliziosa sfumatura color ciliegia. Mi scostai quel tanto che bastava per permettergli di sedersi e prendermi il viso tra le mani. Mi baciò ancora, ancora e ancora, come se non avesse aspettato altro in tutto quel tempo che avevamo vissuto insieme.

Fu in quel momento che il Direttore spalancò la porta della nostra cascina, cogliendoci in fragrante. Mi allontanai da Magato e, immobilizzata dalla paura, cercai con lo sguardo di appigliarmi ad un qualsiasi oggetto nella stanza. Il mio compagno, troppo spavaldo per lasciarsi intimorire dal vecchio, mi prese le mani tra le sue e vi stampò sopra un bacio leggero come se volesse dissipare qualunque dubbio e allontanare ogni fraintendimento sulla natura del nostro rapporto.

Per il direttore fu un affronto.

Se ne andò all'istante sbattendosi la porta alle spalle.

Mi voltai verso Magato. Aveva lo sguardo fisso nel vuoto e stringeva con forza le mie mani.

Non le lasciò per tutta la notte. Non le lasciò per tutta la sua ultima notte.

Era una calda notte di maggio quella in cui il direttore ci chiamò tutti e tredici e ci dispose in fila indiana. Spiegò a tutti quanti, per l'ennesima volta, quella che era la sua politica: non voleva che ci fossero legami tra di noi, poiché i sentimenti indeboliscono l'animo e rendono il cuore schiavo.

Io abbassai lo sguardo. Magato no.

Venne chiamato a fare un passo avanti ed il Direttore, impugnata la katana, lo uccise con un solo proprio davanti a tutti noi. Proprio davanti a me.

Quella notte sentii di nuovo i leoni ruggire e sbranare e sbrindellare e squartare.

Sapevo di chi erano quelle carni ma non avevo più nemmeno la forza di piangere.

Ma giurai a Magato che avrei ripagato il sangue con il sangue.

 

Ho smesso di ridere già da un po' ed il vecchio sembra aver capito che non sono il tipo di persona con cui intavolare un'amichevole conversazione. O meglio, non sono il tipo che discorre amabilmente mentre un ago le perfora la pelle provocando un dolore continuativo a cui è particolarmente difficile abituarsi.

Lui mi rassicura dicendo che ormai manca poco alla fine. Si complimenta con se stesso per l'abilità dimostrata nel riprodurre perfettamente quel vecchio disegno fatto da me, ne è incuriosito e mi chiede come mai ho voluto tatuare qualcosa di così grande e vistoso su tutta quanta la mia schiena.

Sbuffo, sarebbe troppo lungo da spiegare, e mi limito a dirgli che “mi andava”.

Si, mi andava particolarmente l'idea di farmi tatuare una Fenice con le ali spiegate pronta a prendere il volo in qualsiasi momento. È maestosa, bellissima, libera da ogni vincolo e da ogni catena. Padrona di un destino che lei stessa, attraverso le difficoltà, ha avuto l'ardire di scegliere.

Fenice è il mio nome, il nome che io stessa ho scelto per me.

Il nome che, oggi, segna il mio battesimo e la mia rinascita.

 

Sento l'ago che si allontana dalla mia pelle e la sua mano che mi batte un colpo leggero sulla spalla; mi raccomanda di fare attenzione a non infettare i punti e di chiedere ad Alex – il commesso del piano di sopra – una confezione di “cremina lenitiva ”.

L'ennesimo espediente per spillarmi dei soldi.

Gli sorrido, lo ringrazio e mi avvicino alla sua guancia per dargli un bacio.

 

Il vecchio non lo sa, ma io sono arrivata in ritardo al nostro appuntamento perché ho dovuto presenziare al funerale del Direttore del circo in cui lavoravo.

É stato ucciso, Dio l'abbia in gloria, da un'enorme quantità di veleno somministratagli da chissà chi.

 

Mi hanno detto che la forza e la resistenza di una persona si misurano sulla sua capacità di reagire nei momenti di sconforto. Io devo essere fatta del miglior marmo in circolazione. Perché mentre i miei compagni piangevano la perdita del direttore, io ridevo come una fanciulla il giorno del suo compleanno. Ero felice.

Felice di averlo ucciso con l'arsenico.

  
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