Storie originali > Soprannaturale
Ricorda la storia  |      
Autore: sayuri_88    19/08/2011    1 recensioni
- ONE SHOT DELL'ESTATE -
Un viaggio in solitaria che porterà una ragazza alla scoperta di un mondo che neanche immaginava. Quello che pensava fosse solo una favola per bambini è in realtà un mondo nascosto, ai più. Un'avventura che la porterà a conoscere qualcuno che le mostrerà questo misterioso nuovo mondo.
Dalla storia:
Giocherellai con la piccola collana che portavo al collo. Era molto semplice, fatta con frammenti di corallo rosso da cui pendeva una metà di conchiglia, simile al nautilus, ma più piccola, e al centro una bellissima perla. Non so com’era possibile, ma questa cambiava colore in continuazione, col tempo avevo associato la cosa all’influenza dell’umore, come quegli anelli che vedono lungo le spiagge o nei negozi di souvenir. Ogni volta che provavo forti emozioni, il suo colore cambiava.
Come ne ero venuta in possesso? Beh, questa è una bella storia.
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
SIREN SONG

SireN'S Song

In barca a vela controvento


Giocherellai con la piccola collana che portavo al collo. Era molto semplice, fatta con frammenti di corallo rosso da cui pende una metà di conchiglia, simile al nautilus ma più piccola, e al centro una bellissima perla.
Non so com’era possibile, ma questa cambiava colore in continuazione, col tempo avevo associato la cosa all’influenza dell’umore, come quegli anelli che vedono lungo le spiagge o nei negozi di souvenir. Ogni volta che provavo forti emozioni, il suo colore cambiava.

Come ne ero venuta in possesso? Beh, questa è una bella storia.



§





Avevo la passione del mare - inevitabile quando hai un nonno ammiraglio e un padre nella marina - e quando arrivavano le vacanze estive, andavo in fibrillazione. Vivevamo in Arizona, mamma lavorava in una scuola superiore di Phonex mentre papà era impegnato nella flotta dislocata nell’Atlantico ed erano rare le volte che aveva la licenza per tornare a casa.
Sole, mare, spiaggia e la mia famiglia unita… Sognavo per tutto l’anno questo periodo.
Avevo otto anni e come ogni estate ero andata alle Hawaii con la mia famiglia.
Quell’estate, sapevo dentro di me che sarebbe successo qualcosa che mi avrebbe segnato. Come… non lo sapevo, forse era solo la fervida immaginazione di una piccola bambina che viveva il mondo come una fiaba e per molto tempo pensai che fosse davvero così… solo ora, dopo i recenti avvenimenti capisco quanto era stata vera quella sensazione che ebbi, appena arrivata alla spiaggia, in una giornata soleggiata di metà luglio.

Mi trovavo sul bagnasciuga mentre mamma era sdraiata a prendere il sole e papà leggeva l’ennesima rivista nautica. Aveva promesso che quando sarei diventata più grande mi avrebbe insegnato ad andare in barca e ogni estate quando gli chiedevo se ero abbastanza grande, lui mi rispondeva che avrebbe iniziato a insegnarmi solo quando sarei stata in grado di raggiungere la grande boa galleggiante a circa 4 Km dalla spiaggia, ma nonostante ci provassi da tre anni, non c’ero mai riuscita.
Fino a quell’estate mi ero dovuta accontentare di imparare a fare nodi resistenti e il moto delle maree, a riconoscere le stelle e come orientarsi in mare aperto. Tutte cose che mi affascinavano, ma nell’innocenza dei miei otto anni sognavo viaggi avventurosi. Sognavo di viaggiare verso l’isola che non c’è per raggiungere Peter Pan e lottare assieme e Capitan Uncino, quel povero pirata era bistrattato dai bambini sperduti, a pare mio, senza un valido motivo.
Ed era per quello che osservavo intensamente la boa, a cui era appesa una campana, come se fosse il nemico da sconfiggere per vincere la guerra. Mi ero allenata tutto l’anno nella piscina comunale ed ero migliorata moltissimo. Me lo sentivo quello era il momento giusto. L’avrei raggiunta.
“papà!” urlai per farmi sentire da lui. Papà alzò la testa e rimase in attesa che continuassi.
“Guardami che oggi raggiungerò la boa!” lui s’illuminò in un sorriso, lasciò cadere la rivista sulla sabbia e si alzò per raggiungermi. Mi affiancò e mi carezzò il capo dolcemente.
“Forza allora! Vediamo se questa è la volta buona!” sorrisi sicura di me. Ero più che convinta del mio successo.
Feci un passo e subito i miei piedi furono bagnati dall’acqua che s’infrangeva sulla spiaggia. L’acqua era fredda a contatto con la mia pelle calda ma mi abituai presto. Continuai a camminare e dopo pochi metri mi tuffai iniziando a nuotare. Il mare era leggermente agitato ma non rappresentava un problema, scivolavo tranquillamente tagliandolo come burro. Ero euforica, sentivo l’acqua che mi accarezzava il silenzio che mi circondava, era infranto dal rumore delle mie braccia che colpivano l’acqua. Mi sentivo libera ed era una sensazione paradisiaca. A occhio e croce dovevo trovarmi a metà strada quando sentì la voce di mio padre che mi urlava di tornare a riva. Ma non mi fermai, pensai che fosse una sua tattica per farmi fallire. Papà era sempre stato protettivo e forse credeva che fosse troppo per me, una ragazza andare per mare…
Continuai a nuotare e fu un grosso errore.
La campana dei guardia spiaggia, iniziò a suonare impazzita. L’avevo sentita poche volte ma quando iniziava a suonare in quel modo forsennato, voleva dire solo una cosa.
Squalo in vista.
Mi bloccai e valutai l’ipotesi di tornare a riva ma era troppo lontana, avevo quasi raggiunto la boa. Con la coda dell’occhio una forma triangolare attirò la mia attenzione facendomi ghiacciare il sangue nelle vene. Sparì dopo pochi secondi ma mi bastò per capire il pericolo che stavo correndo. Era vicino.
Con poderose bracciate mi mossi in direzione della boa. Se fossi riuscita a salirci sarei stata al sicuro, almeno fino a che la guardia costiera sarebbe arrivata.
Mi sembrava di sentirlo dietro di me pronto a fare di me il suo pranzo. Arrivai alla boa stanca e sfinita per la troppa energia usata per scappare e a fatica ma spinta dalla paura più nera mi issai su quel pezzo di acciaio che rappresentava la mia salvezza.
Un colpo mi fece capire che lo squalo era veramente dietro di me e che solo per pochi secondi non mi aveva preso. Mi aggrappai con forza alla struttura della campana tremante. Subito fui percorsa dai singhiozzi, chiamavo a gran voce mio padre e mia madre perché mi aiutassero ma nessuno sarebbe entrato in mare ad aiutarmi.
Un altro colpo al fondo della boa mi fece urlare dal terrore. Quello squalo mi aveva puntato e non voleva lasciarmi stare. Strinsi con più forza il fusto tra le mie mani.
“Ti prego… ti prego… vattene…vattene” lo ripetevo come una litania mormorandolo tra un singhiozzo e l’altro. Gli occhi serrati per non vedere.
Poi un colpo più forte me li fece aprire di scatto e vidi il muso dello squalo spuntare dall’acqua. Urlai con tutto il fiato che avevo in corpo. Purtroppo l’ultimo colpo mi aveva fatto perdere la presa e caddi in acqua. Chiusi gli occhi e quando li riaprì, ero sott’acqua e lo squalo si stava avvicinando minaccioso. Scalciai e sbracciai con forza. Aprì la bocca per urlare ma l’unica cosa che usci fu un gorgoglio mentre iniziai a bere sempre più acqua.
L’ultima cosa che vidi prima di perdere conoscenza, fu una scia di un qualcosa che si avvicinava a gran velocità. Sembrava un ragazzo ma la cosa strana era che al posto delle gambe aveva una coda, come i pesci.
Un suono melodioso sembrava arrivare dalla sua direzione mi attirava come un orso al miele. Protesi la mano verso quel ragazzo o pesce? Che cos’era?
Poi il buio.
Quando mi risvegliai, mi ritrovai distesa sulla roccia di una grotta.
Mi dolevano la testa e le gambe, e le braccia erano intorpidite. Mi rialzai a fatica.
Un rapido sguardo attorno a me e riconobbi il luogo. Era una grotta vicino agli scogli, ci ero già stata qualche giorno prima con mio padre durante una delle nostre escursioni. Riconobbi subito la roccia che spuntava in mezzo alla pozza, rotonda e piatta, ci si poteva salire e sdraiarsi. A nord c’era l’ingresso subacqueo mentre per entrare da terra, c’era un ingresso a ovest.
Ma com’ero arrivata fino a li? Non riuscivo a spiegarmelo. Ero in mare e uno squalo mi stava attaccando come avevo fatto a finire ad almeno cinque chilometri di distanza!
Un rumore dall’acqua attirò la mia attenzione. La superficie era incrinata da cerchi concentrici, assottiglia gli occhi per osservare meglio ma non vidi nulla, l’acqua era così cristallina che non poteva nascondere niente.
Stavo per andarmene. Sicuramente i miei genitori erano molto preoccupati quando un luccichio attirò la mia attenzione. Una collana giaceva a terra. La raccolsi e la girai tra le mani. Era fatta di corallo rosso e una conchiglia come pendente cui era stata incastonata una perla bianca che appena entrò in contatto con la mia pelle divenne viola. Sbalordita osservai la perla mutare colore. Com’era possibile?
Un altro rumore mi fece sussultare. Intimidita, uscì dalla grotta sostenendomi a ogni tipo di appiglio che trovavo sulla mia strada.
Quando finalmente raggiunsi la mia famiglia, non seppi spiegare del perché mi trovavo a cinque chilometri di distanza, né di come c’ero arrivata o di come mi fossi salvata dallo squalo.


§



Dieci anni dopo…

“Hai intenzione di darmi una mano o cosa?” la voce di Bob mi riscosse dall’oceano dei miei ricordi. Liberai la collana dalla mia presa e mi affrettai ad aiutarlo ad issare la vela. Mi muovevo rapidamente sul mio cutter da dodici metri, con lo scafo rosso veneziano e il ponte di un bianco immacolato, che scivolava veloce sulla superficie del mare.
La marea si era alzata e mi aveva permesso di uscire in mare. Nell’aria si respirava il profumo dell’oceano.
“Direi che la randa è perfetta. Pronta per il viaggio” urlò zio Bob per sovrastare il rumore del vento e delle onde. 
“è un capolavoro” concordai. Era fatta di un materiale all’avanguardia, resistente alle condizioni metereologi che più estreme.

Quell’anno mi ero diplomata e nonostante le proteste di mia madre ero riuscita a convincerli a lasciarmi partire da Houston per compiere la traversata atlantica e raggiungere le mitiche colonne d’ercole che fino a Cristoforo Colombo avevano segnato la fine del mondo. Da li avrei percorso il Mediterraneo e mi sarei fermata in Spagna, in Francia, in Italia per poi raggiungere l’Egitto, la Grecia, sarei risalita fino alla Croazia e poi sarei tornata indietro. Quattro mesi in mare aperto. Dall’Atlantico al Mediterraneo.
Solo io, la mia barca a vela e il mare.

Attraccammo al porto nel tardo pomeriggio. Appena scesi, accarezzai con le dita la scritta a caratteri bianchi sulla poppa. SIREN’S SONG.
In ricordo di quel lontano giorno in cui mi salvai dallo squalo. La melodia che sentì forse era stata frutto della mia fantasia ma era un suono così dolce e ammaliante che ricordava molto quello delle sirene che attiravano i marinai lungo gli scogli.
“Allora non ti rivedrò la mia nipotina per i prossimi novantadue giorni” Zio Bob non era proprio mio zio. Era il migliore amico di papà e dopo aver lasciato la marina, aveva aperto un’attività di noleggio navi a Houston ed era lì che tenevo la mia piccola barca. Coccolata e accudita durante i periodi invernali quando mi trovavo in Arizona.
“devo prendere un fazzoletto per te? O forse è meglio un pacchetto intero?” Zio Bob fece una faccia fintamente offesa.
“signorinella porta rispetto per l’uomo che faceva il pony per te quando eri alta cinquanta centimetri, un tappo e una cartolina di traverso!”
“già che cosa avrei fatto senza di te” gli dissi abbracciandolo con forza e scoccandogli un sonoro bacio sulla guancia. Zio Bob ricambiò l’abbraccio e depositò un leggero bacio tra i capelli.
“ fa attenzione ragazzina!” mi prese per le spalle e mi allontanò dal suo corpo di pochi centimetri, giusto per portare il suo viso all’altezza del mio e guardarmi  negli occhi - Spingiti oltre i limiti per vedere fin dove puoi arrivare - gli occhi mi s’inumidirono. Erano le parole che papà mi diceva sempre quando andavamo a bordeggiare. “ ma cerca di stare attenta o tua madre mi lincia vivo chiaro?” terminò per alleggerire la tensione. Ridacchiai scuotendo la testa.
“promesso Zio. Farò molta attenzione quando passerò per il triangolo delle Bermuda” in risposta lui assottigliò gli occhi e mi passò una mano tra i capelli scompigliandoli.
“Che parlo a fare con te! Non mi dai mai retta” e, fintamente offeso, s’incamminò lungo il molo. Una brezza leggera mi scompigliò i capelli, veniva da nordest. Con gli anni avevo imparato a riconoscere il vento, ormai nona aveva più segreti per me.
Mi girai verso il mare, ora il vento mi colpiva il viso accarezzandolo con una dolce carezza. Inspirai l’odore dell’oceano e sorrisi felice, tra due giorni quell’odore che tanto amavo mi avrebbe accompagnato per quattro mesi, entrandomi nelle ossa.
Il mare era piatto e di un blu intenso che mi faceva innamorare ogni volta che lo guardavo. Un gabbiano volò sopra la mia testa per poi atterrare sulla ringhiera del modo a ovest.
Una strana sensazione mi attanagliò il cuore, vi posi sopra una mano che inevitabilmente sfiorò la collana. Era come se fossi in attesa di qualcosa o qualcuno…

“Ti prego fa attenzione” mormora mamma stritolandomi nel suo abbraccio.
“mamma è la millesima volta che me lo dici” dissi cercando deliberarmi dalla sua morsa. È sempre stato così. Ogni volta che dovevo salire su una barca lei, si faceva prendere dall’ansia, dalla paura che potesse succedermi qualcosa.
“lo so ma sono una mamma devo essere una rompiscatole” disse ridacchiando e lasciandomi finalmente andare. Mi accarezzò le braccia e poi la faccia riservandomi un sorriso materno e preoccupato. Tirò su col naso e una lacrima le sfuggi. Fui io ad abbracciarla nel tentativo di rassicurarla. Lei mi circondò il busto con le sue braccia e mi accarezzava la schiena.
“Mamma non preoccuparti. Starò bene. Ci sono un sacco di persone che lo fanno e alcune intraprendono addirittura il giro del mondo! Io solo l’America del sud”
“ sì, ma sarai da sola! Sicura di non volere neanche Bob?” cercò di convincermi ancora. Da giorni si era fissata con quell’idea e cercava in tutti i modi di convincermi. Mi staccai e la guardai negli occhi avvolgendo il suo viso nelle mie mani “no mamma. Voglio farlo da sola e ti assicuro che starò bene. Lo zio Bob sarà sempre in contatto radio con me e se succederà qualcosa, farò dietro front e tornerò a casa. Ok?”.
Lei si limitò ad annuire e a lasciarmi andare, indietreggiando di qualche passo, andando ad affiancare Zio Bob.
“Buona navigazione allora” mi disse a voce flebile, scacciando ancora con la mano alcune lacrime che erano scivolate dai suoi occhi.
“grazie”.
Fu poi il turno di Zio Bob per i saluti. Allargò le braccia e la strinse forte con quelle sue braccia forti e muscolose, frutto di anni di allenamento, di nuoto, tanto simili a quelle di suo padre.
Salì sulla passerella e mi diressi verso la cabina comandi e girai la chiavetta  d’avviamento - tutto era apposto, il pilota automatico, le vele, la strumentazione, l’equipaggiamento di salvataggio - e impugnai la manetta.
Presi in mano la collana e ne osservai la perla. Era prima di un verde caldo, simbolo di vita nova per poi sfumare verso il giallo, simbolo di entusiasmo e vivacità.
Ero pronta per partire.
La solitudine per me non è mai stata un problema, spesso mi chiudevo nella mia stanza, sola con i miei pensieri. Nel silenzio ho sempre trovato quello che cercavo, è un amico.

Ero in viaggio da una quasi una settimana e tutto stava andando benone, le apparecchiature era apposto e sia il mare che il vento mi erano favorevoli. In quei gironi ero anche riuscita ad avvistare dei delfini. Due si erano affiancati alla mia imbarcazione e mi avevano seguito per un paio di miglia prima di inabissarsi per l’ultima volta e scomparire all’orizzonte.
I contatti con Zio Bob erano giornalieri, se non orari per le prime due settimane - era così apprensivo nonostante, alla partenza si era dimostrato molto tranquillo - poi si era calmato. Lo informavo della situazione della SIREN e lui del meteo e delle previsioni sul mare. Fino a quel momento ero stata fortunata. Vento favorevole e mare calmo.

Era appena mezzogiorno, avevo appena gettato l’ancora, e stavo sistemando l’albero alcune corde quando si alzò un forte vento. Era successo tutto così velocemente, che non ebbi il tempo di reagire prontamente. Alzai la testa di scatto ed ebbi solamente il tempo di vedere la boma venirmi addosso. Un forte dolore alla tempia destra, persi l’equilibrio e caddi in mare. La vista iniziò ad annebbiarsi e mentre la mia mente scivolava lenta verso l’oblio, mi parve di intravedere qualcosa nuotare nella mia direzione, ma forse fu uno scherzo della mia mente.

Un senso di nausea mi pervase, la testa mi doleva come se avessi ricevuto una mazzata. Attorno a me sembrava esserci il nulla, il silenzio più assoluto ma dopo un po' iniziai a percepire dei suoni. Il vento che soffiava e si scontrava con qualcosa, forse una tela o una vela, il rumore di acqua che s’infrangeva contro qualcosa, i versi degli uccelli, gabbiani forse. Iniziai a percepire un odore salmastro che mi solleticava l’olfatto, tentai di aprire la bocca ma era impasticciata e appena ingoiai della saliva feci una smorfia di disgusto, sapeva di salato. Cercai di fare mente locale e subito la mia testa si riempì di tanti flash. Io che salivo su una braca e che la manovravo, poi la boma che mi colpiva alla testa e mi faceva cadere in mare. I ricordi tornarono a galla ma mi sorse spontaneo chiedermi come facessi a respirare sott’acqua e a sentire il calore del sole sulla pelle.
Piano, piano riacquistai anche la percezione delle gambe e delle braccia e le iniziai a muovere lentamente, scivolavano su qualcosa di bagnato e liscio, il braccio destro era schiacciato dal mio peso, cosi come la gamba. Ero distesa su un lato, sul ponte della barca.
Alla fine provai ad aprire gli occhi ma questi fanno fatica ad aprirsi e quando finalmente ci riuscì, fui abbagliata dalla luce del sole. Dovetti richiuderli subito.
Il secondo tentativo andò meglio, e dopo un primo momento dove vedevo tutto bianco, iniziai a distinguere il profilo delle cose. Mi girai, mettendomi a pancia all'aria e il mio campo visivo si riempi dell'azzurro limpido del cielo. I raggi del sole mi accarezzavano la pelle, provocandomi leggeri brividi di freddo. Ero completamente zuppa.
Ma come avevo fatto a tornare sulla barca?  Mi alzai a sedere di scatto, provocandomi un forte giramento di testa, attesi qualche secondo e la barca smise di girare. Ero caduta in acqua e avevo perso i sensi, avrei dovuto scivolare sempre più giù, perche invece mi ero risvegliata sul ponte della nave?
La mano corse al collo, dove avevo legato la collana. Tastai il collo e il petto alla ricerca del sottile filo di corallo. Quando lo trovai lo strinsi forte nella mia mano, non sapevo perché ma il stringerla mi donava un forte senso di pace e tranquillità. Dischiusi la mano e ne osservai la parla che lentamente iniziava a cambiare colore. Dal grigio scuro, dovuto allo spavento del mio quasi annegamento, passò al blu, la calma ritrovata.

Un rumore insistente usci dalla cabina in sotto coperta. Con attenzione mi alzai reggendomi alla scotta della randa e m’infilai nell’abitacolo. Il segnale della radio lampeggiava senza sosta e quando risposi la voce profonda e preoccupata dello Zio Bob usci dal microfono. La voce dello Zio Bob era gracchiante e distorta dalle interferenze radiofoniche ma era più che evidente la sua ansia e la sua preoccupazione.
“Per Dio Selene, dove eri finita? È più di un quarto d’ora che cerco di contattarti e non rispondi”
Avevo perso i sensi per tutto quel tempo e forse anche più ma mi sentivo bene ed era meglio non far preoccupare lo zio e mamma.
“scusa zio ma ero...” si dov'ero?  “ero a prendere il sole e mi sono addormentata” e subito dopo aver aperto bocca, vorrei essermi tagliata la lingua per la stupida scusa che gli avevo propinato. Era risaputo che non ero mai stata brava a inventare scuse.
“a prendere il sole?” era scettico e come dargli torto? Sapeva benissimo che non era da me.
“beh si… ho gettato l’ancora e si stava così bene che mi sono sdraiata per godermi un po’ il sole, ma come ti ho detto mi sono addormentata” mi stavo letteralmente arrampicando sugli specchi. Un sospiro rassegnato arriva dall’interfono, probabilmente si stava convincendo che la mia, era la verità.
“okay, faccio finta di crederci. Sei adulta e sai badare a te stessa” sorrisi divertita, alla fine non ci aveva creduto ma Zio Bob non è uno che fa troppe domande, ha sempre rispettato la mia privacy.
“comunque non farmi stare più in pensiero come oggi, intesi?”
“Intesi. Ora chiudo perché non ho ancora mangiato e sto morendo di fame” e a conferma il mio stomaco si fece sentire richiamando la mia attenzione.
“Okay buon appetito allora” e ridendo chiuse la comunicazione.
“Buon appetito” dissi scimmiottando la voce dello Zio “si fa per dire…” e riagganciato il microfono, mi diressi nella mini cucina. Non fraintendete amo andare in barca a vela e passare gironi in mare ma in ogni cosa bella c’è un lato “negativo” e nei lunghi viaggi per mare il problema è il cibo. Cibo liofilizzato o in scatola, insomma quei cibi che hanno tutto fuor che l’aspetto e il sapore del cibo.

Dopo un fugace “pranzo” ripresi l’attraversata, i lavori sulla barca mi tenevano la mente impegnata ma nei pochi momenti vuoti, mi ritrovavo a pensare a come avevo fatto a tornare sulla barca. Inevitabilmente mi ero ritrovata a confrontare quell’episodio con quello dello squalo anche quella volta mi ero ritrovata in una grotta senza sapere come esserci arrivata. In entrambi i casi ero caduta in mare e avevo perso i sensi, non prima di aver intravisto qualcosa muoversi a grande velocità, e poi mi ero svegliata fuori dall’acqua sana e salva.
I due episodi sembravano legati ma non riuscivo a capire quale fosse il nesso e nonostante ci pensassi e ripensassi non me ne capacitavo. Alla fine ci rinuncia additando alla buona stella che mamma diceva avere ogni essere umano e che risplendeva nel cielo solo per proteggerci.
Un’altra settimana era iniziata, attorno a me ormai c’era solo mare e altro mare. Il cielo era limpido e niente preannunciava quello che sarebbe accaduto da li a dieci minuti.
Fino ad allora lo avevo letto solo nei libri e visto nei film o documentari. Zio Bob durante la mia preparazione per l’attraversata me ne aveva parlato e spiegato quello che avrei dovuto fare ma mai avrei pensato di assistere il prima persona al nascere di una tempesta tropicale, che lentamente si stava trasformando in un Uragano che dai tropici si stava dirigendo verso le coste degli Stati Uniti. Il vento aveva raggiunto forza nove e soffiava oltre i cinquanta nodi. Dovetti metterci tutta la forza che avevo per non farmi travolgere. Non avevo mai avuto paura del mare ma in quel momento ne ebbi molta. Fino ad allora lo avevo visto calmo, irritato e arrabbiato ma in quel momento era davvero incazzato ma nonostante la paura non potei esimermi dall’ammirare la grande forza e maestosità del mare, si era rivelato in tutta la sua potenza e se possibile lo amai ancora di più.
Le onde erano alte almeno dieci metri ed era impossibile pensare di continuare la navigazione. Legai la ruota del timone leggermente all’orza e ammainai completamente tutte le vele, facendo in modo che la barca si disponesse di traverso rispetto alle onde e al vento, mettendo la barca “alla cappa secca”.
La situazione non mi permetteva altre vie di fuga. La barca ondeggiava e subiva passivamente la forza delle onde. Sbalzata a destra e a sinistra, pregavo che la tempesta passasse in fretta. Rimasi per ventiquattro ore chiusa sotto coperta, addosso, le protezioni e lo zaino di sopravvivenza, nel drastico caso che la barca non reggesse mentre cercavo di mantenere la rotta. Le apparecchiature elettroniche erano sballate e il pilota automatico era fuori uso. Avrei dovuto contare solo sulle mie forze.
A un tratto la barca venne come risucchiata. Saliva e saliva, come in quelle giostre nei parchi acquatici, dove ti fanno sedere dentro delle specie di canoe, e appena raggiungi la cima, la canoa si ferma per un breve attimo prima di precipitare. Ti sembra di fluttuare, la paura di cadere nel vuoto e hai come la sensazione che il cuore salga fino a fermarsi in gola mozzandoti il respiro. Io mi sentivo allo stesso modo, la barca sembrò girare su se stessa, un tonfo sordo e poi tutto tornò tranquillo.
Non c’era più il vento che colpiva con violenza la barca, né le onde che si schiantavano contro lo scafo. Per prima cosa controllai le apparecchiature che sembravo essere a posto, anche se mi chiedevo ancora, come una tempesta potesse mandare in tilt tutti i sistemi elettronici di ultima generazione, testati per resistere a ogni situazione. Avrebbero dovuto superare indenni anche il diluvio universale!
Usci dalla cabina e subito fui colpita dai raggi del sole che mi obbligarono ad assottigliare gli occhi. Portai una mano sopra di essi a mo di visiera. Il mare era azzurro ed era piatto come una tavola. Era quasi il tramonto e tutto si stava tingendo di rosso e arancio, il cielo era completamente libero da nuvole, qualcuna faceva capolino all’orizzonte, bianca e soffice, dava l’idea di essere fatta da zucchero filato. Ma la pace che mi aveva iniettato la vista del tramonto venne spazzata via quando buttai l’occhio sull’albero della mia imbarcazione. Era distrutto! Lo stesso per la randa, il vento aveva danneggiato la custodia che la proteggeva e l’aveva fatta uscire, strappandola la stessa fine l’aveva fatta il fiocco i cui frammenti svolazzavano spinti dal leggero vento che spirava da Est. Mi sporsi per osservare lo scafo e una smorfia di dolore mi attraversò il viso quando costatai che era stato seriamente danneggiato. Un taglio profondo segnava la parte superiore. Non potevo continuare l’attraversata. Cercai di contattare Zio Bob alla radio ma questa sembrava fuori uso. Con forza riattaccai il microfono, presi il cellulare ma questo non funzionava. Un telefono satellitare ultra moderno che neanche dopo tre mesi già non andava più.
Il mio sguardo correva lungo tutto l’orizzonte quando una macchia scura attirò la mia attenzione. Ritornai in cabina e presi il binocolo e quello che vidi mi lasciò interdetta. C’era un’isola. Non sembrava molto grande, la superficie era ricoperta da una folta vegetazione, al centro una montagna coperta fino a metà da alberi mentre la cima era rocciosa e verso est si allungava creando una piccola penisola.  
Un’isola voleva dire persone, voleva dire civiltà e comunicazioni radio, internet,…
Mentre cercavo di trovare qualche elemento che mi potesse aiutare a identificarla vagliavo mentalmente tutte le isole segnalate nella zona, ma capii subito che era impossibile. Nessuna isola era segnata sulla cartina, o almeno così credevo. Per mesi avevo studiato le cartine, le maree, cercato le isole da vedere ma nessuna aveva le caratteristiche di quella che stavo guardando e secondo i miei calcoli non avrei dovuto trovare terra ferma ancora per alcuni giorni… e la cartina e gli strumenti mi davano ragione.
Fui presa da un’esuberanza sconvolgente, stavo forse per fare una scoperta. Il problema dei danni alla nave passò subito in secondo piano sopraffatta dalla mia voglia di scoperte e avventure.
Una nuova isola ancora vergine. Incoraggiata da questi pensieri, corressi la traiettoria puntando la prua verso l’orizzonte dove il sole faceva capolino dietro la sagoma dell’isola. Ci misi poco a raggiungerla e appena potei osservarla a occhio nudo dovetti ricredermi sull’idea che mi ero fatta. L’isola aveva una forma assai particolare: era simile a un atollo costituito da un anello di terra che circonda una laguna, al centro della quale svettava una montagna.
“Stupenda” sussurrai al vuoto di fronte a me.
Sembrava una di quelle isole che fa bella figura sui depliant delle agenzie di viaggio, che ti fanno credere di essere in un sogno. In quel momento mi sembrava davvero di essere in un sogno. Non mi sarei più voluta  svegliare.



§



Gettai l’ancora a pochi metri dall’isola, era circondata da una barriera corallina e non volevo danneggiarla con lo scafo della nave, lanciai il gommone di salvataggio in mare che si gonfiò subito. Vi gettai sopra alcuni zaini con dentro cibo, tutto il necessario per la mia sopravvivenza e il mio diario, dove avevo trascritto gli avvenimenti delle prime settimane di viaggio. Avrei dormito sull’isola e il giorno dopo sarei tornata, avrei riparato la radio e mi sarei messa in contatto con la guardia costiera spagnola.
Ma non sempre tutto va come vogliamo. Mi ero svegliata presto, avevo ripreso il gommone ed ero tornata sulla barca ma non ero riuscita a ripararla, non capivo che cosa non andasse, l’avevo completamente smontata quando notai dei cavi danneggiato. Dannata me e la mia idea di tenere una radio vecchia di cinquant’anni solo per non rovinare ancora di più la struttura originaria. Dovevo sostituirli ma con cosa? Vaglia mille e più soluzioni ma una era peggio dell’altra, poi mi si illuminò una lampadina il sistema di S.O.S della barca! Ogni nave ne aveva uno, un sistema GPS che una volta azionato avrebbe portato i soccorsi da lei. Se la montagna non va da Maometto, è Maometto che va alla montagna. Azionai il sistema e subito una lampadina si mise a lampeggiare, segno che il messaggio era stato inviato. Rassicurata ritornai sull’isola, sistemai il gommone all’ombra comprendono delle palme e mi tolsi i vestiti rimanendo il costume. Questi li sistemai sul tronco di una palma ricurva lì vicino e iniziai a perlustrarla in attesa dell’arrivo dei soccorsi.

Camminai lungo il bagnasciuga, la sabbia era stupenda, bianca e mi solleticava i piedi.
L'isola era completamente disabitata, nessun essere umano o animale a parte alcuni pappagalli multicolore. Insoliti nell’oceano Atlantico, i pappagalli sono tipici delle zone tropicali e subtropicali.
Il vento soffiava gentile e rendeva più sopportabile la calura estiva. Alla mia sinistra le onde morivano dopo essersi infrante sulla candida sabbia. A destra la spiaggia si estendeva per almeno dieci metri prima di cedere terreno all'erba, agli alberi, alle palme gravide di noci cocco e ai banani da cui pendevano caschi di un giallo paglierino. Erano abbastanza in alto ma anni di flessioni, arrampicate e pesi, hanno reso il mio corpo tonico e scattante.  Attraversai il muro di palme e dopo neanche due chilometri mi ritrovai dalla parte opposta dell’anello di terra.
Il sole era alto nel cielo e il brontolio del mio stomaco m’informò che era ora di pranzo.
Decisi di tornare indietro fermarmi a raccogliere due noci di cocco e un casco di banane, l’arrampicata era stata abbastanza complicata ma finalmente dopo due settimane potevo mettere cibo vero sotto i denti.
 Il pomeriggio passò lento e tranquillo e seduta sul limitare della foresta, protetta dai raggi quasi pungenti del sole del primo pomeriggio, scrutavo l'orizzonte in attesa di vedere l'imbarcazione del soccorso marittimo arrivare in mio soccorso.Mi sembrava di essere in un altro mondo, un Eden immacolato, un angolo di paradiso terrestre.  Il caos e la frenesia di Phonex sembrano un ricordo lontano e astratto. Le ore si susseguirono senza sosta ma ancora, quando il sole stava scomparendo sotto il letto d'acqua, della guardia costiera non c'era traccia. La preoccupazione era cresciuta durante tutto quel lungo pomeriggio e a quel punto era arrivata a livelli esponenziali. Dovevano essere già arrivati da ore, prima della tempesta ero quasi arrivata in acque ispaniche e non riuscivo a capire perché ci mettessero così tanto tempo. Ormai era buio e se mi fossi messa ad attraversare la barriera corallina avrei rischiato di bucare il gommone, sgonfiando l’unica alternativa per riuscire a sopravvivere.
Stanca, mi coricai nel sacco a pelo e il rumore rilassante delle onde mi accompagnò nel mondo di Morfeo. Ero in uno stato di semi coscienza e dei raggi solari birichini colpivano a intervalli irregolari i miei occhi. Apri un occhio e poi altro. Il sole era già alto nel cielo, all'incirca dovevano essere le dieci del mattino. Stropicciai gli occhi, liberandoli dalle piccole incrostazioni di sale, da quando ero arrivata l'unica acqua che avevo usato per lavarmi era quella salata del mare. Avrei dovuto trovare presto una sorgente di acqua dolce ma prima decisi di ritornare sulla barca per controllare che il dispositivo di soccorso stava inviando il segnale.
Mi alzai e dopo aver indossato i vestiti spinsi il gommone in acqua e con attenzione remai fino alla barca. L’acqua era stupenda, limpida e trasparente, ero riuscita a vedere qualche piccolo pesce nuotare placido incurante, come se non tenesse l'attacco di qualche pesce più grosso che lo avrebbe potuto usare come colazione. Ero anche sicura di aver visto un cirritide, un pesce che vive nelle vicinanze delle barriere coralline, ma subito mi diedi della stupida, quei pesci vivono nella parte tropicale dell'oceano Atlantico.

 

Era semplicemente impossibile.

Legai il gommone alla barca e mi issai su essa. Era ancora in buone condizioni, beh a parte i danni provocati dalla tempesta. La cabina era come l'avevo lasciata, c'era solo qualche oggetto rotolato a terra per il moto delle onde. Senza perdere tempo mi diressi verso il pannello di controllo decisa a scoprire perché non fossero ancora arrivati.
Non.era.possibile.
Il lampeggiante del segnalatore di soccorso non era in funzione. Era spento, morto, caput.
Il mio cervello non riusciva a elaborare la novità, prima di partire avevo controllato tutti i sistemi, le batterie e quella autonoma del GPS l avevo controllata tre volte ed era carica e avrebbe dovuto funzionare per cinque giorni minimo!
Non riuscivo a capire cosa fosse successo, l avevo azionato ed era partito. Accesi la barca nella speranza che il sistema, collegandosi alla batteria principale dell’imbarcazione, riprenda a funzionare.
"ti prego parti..." mormorai come  fosse una preghiera. Provai una, due,...
" dai..." la incitai girando con forza la chiave d accensione per la terza volta ma niente, la barca non si accendeva. Entrai nel panico.
Nel giro di dieci minuti mi ero trasformata da navigatrice in attesa di soccorsa a naufraga su un’isola deserta senza modo di contattare nessuno. Abbassai il tavolo pieghevole e srotolai la carta nautica tracciai le coordinate della mia ultima posizione prima della tempesta, ero a 200 km dalle colonne d ercole. Poi cercai, con l’aiuto di alcuni strumenti e la posizione delle stelle, che avevo osservato la notte prima, di calcolare la mia nuova posizione ma successe un’altra cosa che mi lasciò esterrefatta. Gli strumenti erano come impazziti, le lancette ruotavano senza una logica precisa come se il campo magnetico fosse impazzito. E le stelle che avevo osservato la notte prima erano completamente sbagliate o meglio corrette se mi fossi trovata nell’emisfero australe ma io mi ero in quello boreale.
Osservai le carte, gli strumenti e la domanda che mi sorse spontanea, fu solo una.
"Dove diavolo sono finita?"

Tornai a riva con l’umore sotto i piedi e la testa piena di domande e ipotesi, alcune sfioravano l’assurdo. Strumenti difettosi, errori miei di calcolo, rapimento da parte degli alieni, trasporto in un'altra dimensione o pianeta, mi trovavo sull’isola di Atlantide.
Appena misi piede sulla spiaggia catturai un movimento con la coda dell’occhio. Mi girai di scatto. Un ragazzo all’incirca della mia età era nascosto da alcune palme. Mi guardava tra lo stupito e l’allarmato, probabilmente riflesso delle mie stesse emozioni.
Ebbi solo il tempo di vedere il suo viso, dai lineamenti regolari e proporzionati che gli davano un aspetto regale, con un paio di occhi blu come il profondo oceano e i capelli, scompigliati, ricadevano come una cornice d’orata attorno al viso, perché quando mossi un passo nella sua direzione lui si girò di scatto e cominciò a correre tra le palme.
“Ehi aspetta!” frettolosamente sistemai il gommone sul bagnasciuga e mi lanciai al suo inseguimento con la speranza rinvigorita dalla scoperta di un altro essere umano. Non ero sola come credevo, forse c’erano altri e sicuramente avevano delle barche. Il ragazzo correva veloce e nonostante i miei trascorsi non riuscivo a stargli dietro, una falcata delle mie corrispondeva ad almeno due delle sue.
“Ti prego aspetta! Voglio solo parlarti!” urlai nella speranza di farlo rallentare. Inutile dire che i miei richiami non ebbero l’effetto desiderato.
Cercai allora, di far confluire tutte le mie energie nelle gambe e lo avevo quasi raggiunto quando una radice traditrice mi fece ruzzolare a terra provocandomi un taglio al polpaccio destro e facendomi urlare, questa volta dal dolore.
Mi portai a sedere e alzai la gamba per esaminare attentamente il taglio. Non era profondo ma con la sabbia, la terra e l’erba si era sporcato ed era meglio ripulirlo per evitare future scocciature che avrebbero peggiorato la mia situazione.
Uno scricchiolio di rami mi fece scattare ma quando riconobbi il ragazzo, tirai un sospiro di sollievo. Il suo sguardo corse dal mio viso alla gamba e in fine alla ferita osservandola preoccupato. In poche falcate mi raggiunse e s’inginocchiò davanti a me, prendendo la gamba ferita ed esaminandola. Senza farmi notare lo osservai attentamente.
Indossava dei semplici bermuda color kaki, che lasciavano in mostra delle gambe toniche e robuste, e una camicia a maniche corte di lino bianco sbottonata, che mi permetteva di osservare il suo petto asciutto e muscoloso.
La carnagione era ambrata e la pelle non mostrava nessuna imperfezione, non aveva neanche un pelo superfluo! - Io che ero una donna dovevo soffrire sotto le torture della ceretta mentre lui, un uomo non ne aveva neanche uno, una vera ingiustizia, o forse faceva anche lui la ceretta… ma non mi sembrava il tipo pensai dubbiosa - in quel momento mi sarei presa a sberle da sola, con tutto quello che mi era successo mi perdevo a pensare alla ceretta e tutto il resto. Il sole doveva avermi dato alla testa…
“Emh…senti…” ma non mi lasciò il tempo di terminare la frase che si alzò e iniziò a corre nella stessa direzione di prima.
“Ehi! Aspetta non puoi lasciarmi qui!” cercai di richiamarlo. Che razza di persona è una che lascia indietro una ragazza ferita? Il ragazzo si gira e mi fa degli strani segni. Sulla testa devo avere un enorme punto interrogativo perché il ragazzo abbassa le braccia lungo i fianchi e si guarda attorno. Alzò una mano mostrandomi l’indice. Che vuol dire uno? Poi come se mi si fosse accesa una lampadina, realizzai il significato.
“devo aspettare qui?” chiesi sperando di aver capito bene. Venerdì, così avevo chiamato il ragazzo in onore dell’indigeno che aveva incontrato Robinson Crusoe, naufrago come me su un’isola deserta, scusse la testa in segno affermativo.
“Okay, aspetto qui” lo vidi allontanarsi e di nuovo rimasi sola come compagnia solo il suono del vento tra le fronde e il gracchiare dei pappagalli. Ce ne era uno, appollaiato su un ramo, dalle mille colorazioni.
“O…Okay!” gracchiò facendomi sobbalzare “O… Okay, aspet... to… gra… qui!” gracchiò ripetendo l’ultima frase che avevo detto.
“Parli” dissi stupita. Avevo visto molti pappagalli negli zoo o nei negozi di animali esotici ma nessuno aveva mai parlato anche se i proprietari lo garantivano.
“Pa…parli!... gra…” disse ancora sbattendo le sue ali piumate. Sorrisi divertita. Era forte quell’uccello. Appena tornata al campo lo avrei scritto sul diario.
Il ragazzo tornò dopo più di dieci minuti e mi colse in flagrante mentre tentavo di far ripetere al pappagallo quello che dicevo. Era stato il momento più imbarazzante della mia vita. Mi medicò in silenzio, mi pulì la ferita con dell’acqua fresca e vi spalmò sopra un impacco di sostante ignote, avevo tentato di ritrarre la gamba quando avevo visto quel miscuglio ma la sua presa ferrea non me lo aveva permesso. Il suo sguardo era così limpido e sincero che il timore che stesse usando sostanze nocive scivolò via.
“come ti chiami?” chiesi quando ebbe finito di medicarmi la ferita. Il ragazzo mi guardò, eravamo occhi negli occhi, marrone e blu, c’era esitazione nei suoi, non si fidava e beh potevo capirlo, anch’io nonostante mi avesse colpito nella sua figura e nonostante mi avesse appena aiutato non mi fidavo pienamente. Ma sapevo che non era pericoloso e questo mi bastò per fare il primo passo, sperando che anche lui mi imitasse. Allungai la mano destra e mi presentai.
“Io sono Selene De Raffaeli” dissi stampandomi in faccia il miglio sorriso che potessi fare.
Lui alternava lo sguardo tra il mio viso e la mia mano, incuriosito e disorientato.
“Emh… dovresti prendere la mia mano, stringerla e presentarti” dissi esitante ma lui non si mosse di un millimetro. Sconsolata iniziai a ritrarre la mano ma come se si fosse risvegliato da un sogno ad occhi aperti l’afferrò. Con la sinistra.

Osservai le nostre mani legate e il mio stomaco si riempì farfalle che volavano impazzite, sconvolgendomi.
Alzai lo sguardo e lo vidi che mi osservava attentamente, ogni centimetro del mio corpo era passato ai raggi X, non era uno sguardo inopportuno o maniaco, era più uno sguardo curioso, come se non avesse mai visto una ragazza prima d’ora.
Imbarazza cercai un diversivo per uscire da quella situazione, scrollai le nostre mani leggermente, subito lo sguardo del ragazzo si spostò sulle mani e anche lui iniziò a scuoterle divertito, solo che ci mise un po' troppa foga e per poco non mi staccò un braccio.
“Ehi… ehi!” protestai sciogliendo la presa e chiudendo e aprendo la mano per riprendere sensibilità. Il suo bellissimo viso si deformò in una smorfia mortificata che mi lasciò spaesata. Il ragazzo nonostante avesse almeno vent’anni non sembrava conoscere niente del modo di rapportarsi delle persone e il fatto che non aveva ancora aperto bocca, aveva acceso la mia curiosità.
“Okay…allora non devi essere così esuberante” dissi con un tono calmo e pacato, lo stesso che hanno i genitori quando spiegano ai figli quello che non possono fare. Gli presi la mano, questa volta la destra e la strinsi con la mia, ondeggiandole lentamente, lui sembrò capire. Sorrisi soddisfatta di me stessa.
“ Bene, io sono Selene, tu sei?” mi guardò spaesato prima di toccarsi la gola e scuotere la testa.
“Non puoi parlare?” chiesi cercando una conferma. Lui annuì.
“Mi…”
“Non p…puoi parlare” la voce del pappagallo fece voltare entrambi. Lo guardai imbronciata.
“ E invece qualcun altro parla troppo” borbottai facendo ridere il ragazzo.
“Parla troppo…parla troppo” ripeté ancora l’uccello.
“Sì, tu parli troppo!”
“Troppo….troppo…troppo” sembrava un disco rotto
“Oh basta stupido pappagallo” sbottai indispettita. Rimangiai tutto quello che avevo detto. Era insopportabile quel pappagallo.
La scenetta sembrò sortire un effetto diverso su qualcun altro. Il ragazzo scuoteva la testa divertito e sorrideva felice. Era un sorriso così bello che contagiò presto anche me e come due bambini ridemmo spensierati con il pappagallo che continuava a ripetere le stesse parole.

“Sai scrivere?” gli chiesi una volta che fummo al campo. Il ragazzo mi aveva aiutata a camminare fino alla spiaggia. Il ragazzo annuì e io felice di aver trovato un mezzo per parlare saltellai fino allo zaino sotto il suo sguardo interrogativo.
Presi un block notes, una penna e tornai a sedermi accanto a lui mettendogli in grembo gli oggetti appena recuperati.
“Così possiamo parlare. Allora che ne dici di presentarti per prima cosa?” annuì e aperto il block scrisse
Kei, in calligrafia ordinata e pulita.
“E’ bello. È un nome particolare, mi piace” dissi sorridente.
“Quindi Kei, sei da solo o ci sono altri che abitano quest’isola?” finalmente diedi voce a quei pensieri che avevo trattenuto fino a quel momento. Dovevo sapere se c’era qualche speranza di potermi mettere in contatto qualcuno. Ma la sua risposta distrusse tutte le mie speranze. Un semplice e conciso
No.
“ E come ci sei arrivato qui?” forse aveva una barca, forse non era tutto perso, solo perché non c’era nessun altro non voleva dire che lui non avesse i mezzi che mi servivano. Mi guardò per un momento poi impugnò la penna e scrisse.
Non lo so.
“Come non lo sai?” deve essere arrivato per forza in barca o qualcuno ce lo deve aver portato.
Non lo so, sono qui da sempre.
“Ti hanno abbandonato qui quando eri piccolo? Come hanno potuto fare una cosa del genere?”
La prima cosa che mi venne in mente era che fosse pazzo o che si stesse prendendo gioco di me ma vedendo quello che era successo nell’ultima mezz’ora la sua storia poteva essere vera.
“E come sei sopravvissuto?“

Frutti, pesci, tutto quello che offriva il mare,…
“Un giovane Robinson Crusoe” dissi ridacchiando, Kei mi guardò confuso, ovviamente non poteva sapere chi fosse.
“ E’ un naufrago che visse per più di ventotto su un’isola. E’ una storia inventata ma prende ispirazione da un fatto vero di un marinaio che passò quattro anni e quattro mesi da solo su un’isola”Kei mi ascoltava con attenzione, rapito dalle mie parole.

Doveva sentirsi solo.
“Beh anche tu hai vissuto per tutto questo tempo da solo” annuì esitante e distolse lo sguardo.
Il sole stava tramontando e stava portando con se un’altra giornata. Il terzo giorno stava volgendo al termine. Tre giorni che i miei non avevano mie notizie, chissà che cosa stavano pensando, sicuramente erano preoccupati e certamente avranno già denunciato la mia scomparsa. Quando avevo iniziato questo viaggio non avevo pianificato questa piccola variante…

Tutto bene?
Kei mi aveva messo davanti agli occhi il foglietto e mi scrutava preoccupato. Potevo sentire la potenza del suo sguardo, era destabilizzante tanto era intenso, sembrava volermi leggere dentro. Alzò una mano e con il pollice accarezzò la mia guancia destra e poi se lo portò davanti agli occhi, osservando attentamente la gocciolina salata che aveva raccolto dal mio viso.
Stavo per piangere ma non volevo, dovevo essere forte e positiva. Mi avrebbero trovato al più presto e sarei stata salve e anche Kei.
“Sì, tutto bene. Non è nulla” mormorai, la voce bassa e roca. Stropicciai gli occhi con le mani per eliminare quelle poche lacrime che erano fuoriuscito dagli occhi e mi stampai in faccia un sorriso tirato.
“Hai fame?” chiesi per cambiare discorso e occupare la mente con altri pensieri. Non dovette rispondere perché lo stomaco lo fece per lui, un rumore sordo e prolungato che lo fece arrossire fino alle punte.
“Sì, direi che hai fame”
Mangiammo in silenzio, avrei voluto chiedergli molte cose, come erano stati questi anni da solo sull’isola, cosa faceva ma alla fine optai per il silenzio era meglio affrontare quella discussione di giorno quando entrambi saremmo stati freschi e riposati. Quando ormai era buio e il cielo era illuminato dalla luna piena e dalle stelle chiusi gli occhi, troppo stanchi per resistere oltre. Troppe novità, troppe emozioni che mi avevano destabilizzato. Inconsciamente poggia la testa sulla spalla di Kei e mi addormentai.




§



Fui svegliata da una serie di strani rumori. Fruscii, foglie schiacciate, legni che si scontravano tra loro. Mugugnai infastidita infilandomi maggiormente nel sacco a pelo. Un momento… mi ero appena girata nel sacco a pelo ma come c’ero arrivata? Ricordavo di essere rimasta a osservare le stelle dopo aver mangiato e poi solo il buio. Dedussi che mi ero addormentata sulla sabbia e che fosse stato Kei a portarmi nel sacco a pelo. Era stato un gesto carino.
Usci dal mio nascondiglio, volevo ringraziarlo, ma non ero preparata a quello che mi ritrovai davanti. Palme erano depositate a terra una sopra l’altra e alcuni tronchi di palma erano raggruppati in un angolo.
“ Kei che stai facendo?” al suono della mia voce sobbalzò per lo spavento, era così assorto nel suo lavoro che non mi aveva sentito avvicinarmi. Quando mi riconobbe mi sorrise e mi fece segno di aspettare. Strano con lui ero sempre messa in attesa.
Corse a prendere qualcosa, riconobbi il blocco di ieri, lo aprì e iniziò a scrivere freneticamente. Tornò vicino a me e mi mise in mano il foglio.
Sto costruendo un riparo, non è sicuro dormire solo in quel coso… la prima tempesta ti spazzerebbe via.
“ Kei non devi avere tutta questa premura” dissi commossa “presto verranno a recuperarmi e…” lo sguardo rattristato che mi riservò dopo quello che gli avevo detto fu come una stilettata al cuore. Non sapevo perché ma non volevo vederlo con quell’espressione addosso. Che cosa mi legava così fortemente a un ragazzo di cui non sapevo nulla. E poi non era detto che mi avrebbero trovato, in questo posto tutto sembrava essere sotto sopra.

“ sai che c’è ti do una mano a costruire il rifugio” dissi decisa incamminandomi verso le grandi foglie di palma. Ma qualcuno non era d’accordo con me. Kei mi prese per la vita sollevandomi come se fossi una piuma e mi depositò vicino a un focherello su cui stavano cuocendo dei pesci di medie dimensioni. Prese il quaderno e vi scrisse qualcosa. Quando ebbe finito me lo porse e dopo avermi depositato un bacio sulla fronte si allontanò, tornando al suo lavoro.
Tu non fai nulla, ti devi solo rilassare e fare colazione. Penserò a tutto io.
Semplice e conciso. Senza protestare feci come mi aveva detto, mangiai e passai il resto della mattinata ad aggiornare il mio diario e a guardarlo lavorare, si era tolto la maglietta e potevo godere di una bellissima visuale. A quel pensiero, e altri che seguirono, non proprio casti, scossi la testa come per scacciarli. Da quando facevo certi pensieri su un ragazzo?  Per le ragazze della scuola i ragazzi erano l’argomento principale per me non erano così rilevanti, forse perché non avevo trovato nessuno che suscitasse il mio vivo interesse o il mio nel loro, certo ero uscita con alcuni ragazzi ma ogni rapporto in cui mi buttavo si trasformava in un completo fallimento. Avevo creduto di trovare quello giusto in Blake, con lui avevo avuto le prime esperienze ma poi si era sciolto tutto come neve al sole. Ero giunta alla conclusione che fino a che fossi rimasta nella mia città nei miei confini non avrei mai trovato quello giusto e questo viaggio doveva essere un’occasione per fare un’incontro speciale ma al punto in cui ero arrivata vi avrei dovuto rinunciare. Appena mi avrebbero trovato, mia madre e zio Bob mi avrebbero riportato a casa anche con la forza se fosse stato necessario.

Verso mezzogiorno richiamai il mio operaio improvvisato per una meritata pausa suggerendogli di farsi un bagno in mare per rinfrescarsi dalla calura. Spalancò gli occhi impaurito alla mia proposta per poi raccogliere la camicia, il quaderno che mi mostrò.
Scusa ma devo andare a recuperare delle cose alla capanna. Torno il prima possibile promesso.
”Okay. Ti aspetto” farfugliai mentre cercavo di dare una spiegazione alla sua fretta.


Passarono diverse ore e di Kei nessuna traccia. Che cosa doveva prendere di così importante?
Stanca di aspettarlo, mi addentrai tra gli alberi mantenendo contato visivo con la spiaggia. Non sapevo dove andare, Kei non mi aveva mai detto dove “abitasse” e io per non sembrare invadente non gli avevo fatto alcuna domanda. Ma avevo una sensazione che mi spingeva verso la parte est dell’isola dove l’anello si allargava, creando una zona circolare. Camminai per un’ora o poco più prima di uscire dall’ombra degli alberi fermandomi sul limite della prima linea di palme.
Quello che vidi paralizzò! Come poteva essere vero? Insomma erano leggende, storie che si raccontano ai bambini. Quegli esseri non esistevano.
Mi avvicinai alla riva. Kei era immerso fino alla vita in acqua ma era impossibile non notare la grande coda che guizzava dietro di lui, al posto delle gambe. Perché Kei aveva le gambe, avevamo camminato insieme, corso. Non le avevo immaginate.
“Kei” sussurrai al vento tanto piano che ero certa non lo avesse sentito, ma non fu così. Si girò di scatto e mi guardò con occhi sbarrati dalla paura. Lo vidi girarsi e puntare verso il mare aperto. Voleva scappare, andare lontano da me e a quella prospettiva il mio cuore andò in mille pezzi. Non potevo, non volevo perderlo.

“Aspetta non fuggire” urlai quando lui s’immerse sott’acqua. Iniziai a correre liberandomi dei vestiti ed entrai in acqua ma subito fui circondata da cuccioli di squalo.
“oddio, squali! “ strillai alla vista dei loro denti, ancora piccoli ma già molto affilati.
Tornai sulla spiaggia quasi sull’urlo delle lacrime. Non avrei potuto rincorrerlo. Poi un rigonfiamento della superficie e la sua testa che emerge, i capelli erano resi più scuri dell’acqua. Gli occhi blu che tanto mi avevano ammaliato mi guardavano con inquietudine. Sorrisi felice del suo ritorno. Non se ne era andato,  caddi in ginocchio sulla sabbia, le gambe erano troppo deboli per sostenere il peso del mio corpo.
“ Ti prego non andartene “ lo supplicai “già corri come una lepre con le gambe non voglio immaginare come nuoti, visto che l’acqua è il tuo elemento” dissi per cercare di alleggerire la sua palpabile tensione. E ci riuscì lo vidi accennare un sorriso e avvicinarmi alla riva. Rimase immerso in acqua reggendosi sui gomiti, le braccia si gonfiarono, accentuando la forma dei muscoli, così come il petto. Deglutì a fatica alla vista di quello spettacolo.
“Sei una sirena!” esordì stordita. Lui mi scocca un’occhiata omicida.
“Okay non una sirena, scusami” mi affrettai a dire. Effettivamente non deve essere bello essere paragonato ad Ariel, insomma non c’è confronto!
“Mhh… un sireno?” azzardai con il genere maschile. Scosse la testa sbuffando.
“Un tritone?” dissi infine ricordando i personaggi di alcuni bassorilievi greci e romani che avevo studiato a scuola. Sorride e lo prendo come una conferma.
Avevamo stabilito un contatto, ed ero certa che non si sarebbe più allontanato. Forse la reazione di prima era dovuta alla sorpresa, all’incapacità di capire come avrei preso la novità.
“P… posso avvicinarmi” dopo un momento di esitazione mi fece segno di si con la testa.
Goffamente mi alzai con l’intenzione di raggiungerlo ma la vista dei cuccioli di squalo bloccarono il mio intento.
“Mi attaccheranno?” chiesi timorosa additandoli. Lui li guardò per un momento e questi come se avessero ricevuto un comando si allontanarono, uscendo dalla laguna. Lentamente ripresi a camminare, l’acqua mi arrivava a metà polpaccio quando lo raggiunsi e mi sedetti al suo fianco. Lui si girò, portandosi a sedere, la coda immersa per metà nell’acqua e la muoveva lentamente creando delle piccole increspature sulla superficie. Mi persi nell’osservarla.
Era bellissima, trasmetteva forza ed eleganza. In essa vi erano tutte le sfumature dall’azzurro al blu, tanto che si poteva mimetizzare con l’acqua. Alzai una mano col desiderio di toccarla ma a pochi centimetri mi bloccai. Forse non potevo, lui si sarebbe arrabbiato e sarebbe scappato. Volsi lo sguardo, scontrandomi con i suoi occhi da cui traspariva una nota di preoccupazione ma anche curiosità verso di me e le mie reazioni.
“Posso toccarla?” domandai con tono basso e sommesso, temevo di dire qualcosa di sbagliato. Ma tutti i miei timori risultarono infondati quando con  un sorriso luminoso e rassicurante mi diede il permesso. La sfiorai piano partendo da quella che per me era la coscia fino alle ginocchia, quando la sentì fremere sotto il mio tocco mi allontanai di scatto guardandolo allarmata.
“Tutto bene? Ho fatto qualcosa di male?” lo vidi arrossire e poi negare energicamente con il capo. Prese la mia mano e la riportò sulla sua coda, un’implicita richiesta a continuare, se volevo. Non me lo feci ripetere due volte e tornai ad accarezzare le scaglie fino ad arrivare alla coda che, appena la sfiorai, scattò in alto per poi ricadere con un piccolo tonfo increspando l’acqua, schizzandomi la maglietta e la faccia.  
Sentì le sue forti braccia afferrarmi e portarmi verso di lui, in meno di un secondo mi ritrovai seduta sulla sua coda, la vita avvolta dal suo abbraccio e io completamente abbandonata sul suo addome caldo e vigoroso. Dopo un iniziale irrigidimento da parte mia, mi rilassai, gli cinsi il collo con le braccia e iniziai a giocare con alcune ciocche dei suoi capelli mentre lui mi lasciava lievi carezze lungo tutta la schiena e le gambe. Rimanemmo in quella posizione per molto tempo, in silenzio, a osservare l’orizzonte fino a che il sole non iniziò la sua inevitabile caduta, felici di quell’intimità raggiunta. Forse quell’incontro speciale che ormai non speravo più di fare era già avvenuto.

La trasformazione era una cosa incredibile. Kei si trascinò fuori dall’acqua e subito la coda iniziò a mutare a dividersi in due, le scaglie iniziarono a scomparire per essere sostituite dalla pelle. Non sapevo che fare ero immobile come una statua e lo guardavo. Ammirando quel miracolo della natura. La pinna caudale infine, si trasformò in un paio di piedi prima palmati poi umani. A fine trasformazione il suo corpo era scosso da brividi. Allarmata mi avvicinai, teneva le braccia strette al petto e le gambe raggomitolate vicino al petto in posizione fetale.
“Kei stai bene?” chiesi seriamente preoccupata, non sapevo se quegli effetti fossero una normale conseguenza della trasformazione. Accarezzai la guancia e i capelli cercando di confortarlo.  Solo in un secondo momento realizzai che era completamente nudo. Avvampai dall’imbarazzo e farfugliando frasi sconnesse e senza senso anche per me andai alla ricerca dei suoi abiti, poggiati a terra vicino a dei caschi di banane e noci di cocco. Senza guardarlo glieli porsi. In poco tempo si vestì e toccandomi lievemente la spalla mi fece intendere che era pronto. Vedendo il mio nervosismo sorriso sornione e senza preavviso mi prese in braccio, lanciai un piccolo urlo di spavento e gli cinsi il collo con le braccia, chiudendolo in una morsa ferrea. Recuperò le banane che tenne in una mano mentre le noci le fece tenere a me in grembo. Non parlammo per tutto il tragitto di ritorno, avevo mille domande ma le avrei riservate per dopo, in quel momento mi stavo godendo il tepore del contatto dei nostri corpi. Scoprire che era un tritone non mi aveva sconvolto, lo avevo accettato come se fosse una cosa normale. Arrivammo al capanno che si poteva dire quasi finito tre pareti erano fatte di tronchi di palma mentre un lato corto era coperto da una specie di porta fatta di palme, queste avrebbero dovuto coprire anche il tetto che per ora aveva solo un’intelaiatura di legno. Kei accese un fuoco, quella sera faceva più freddo del solito, e mangiammo solamente le banane e bevemmo il latte di cocco. Spesso avevo beccato Kei lanciarmi sguardi furtivi e lo vedevo a volte sorridere, come se fosse in attesa della mia ondata di domande e intanto si divertiva a vedermi sguazzare nel mare della curiosità mentre aspettavo il momento giusto per iniziare.
Forza fammi le domande che vuoi.
Alla fine fu lui a darmi il via.

“ Com’è essere un tritone? Insomma vivere nel mare, con i pesci, come parlate tra di voi? È tipo un linguaggio strano che io non posso capire ed è per questo che non parli? E quanti siete nel mondo? Esiste anche Poseidone? E dove vivete? Come fai a trasformarti in uomo? E tutte quelle leggende che raccontano i marinai sono vere?...” e probabilmente sarei andata avanti con una serie infinita di domande se lui non mi avesse tappato la bocca con una mano.
Se prometti di stare in silenzio ti libero la bocca e inizio a rispondere alle tue domande. Una alla volta.
Lo guardai imbronciata per il suo tono beffardo che sottintendeva la frase. Annuì col capo e lui spostò la mano. Io strinsi le labbra e mimai una cerniera che si chiudeva a intendere che sarei stata muta come un pesce ma mi ero dimenticata che il mio interlocutore non sapeva molto del mondo umano e così con un gesto della mano gli feci segno di iniziare a scrivere.

 Essere un tritone è la cosa più bella di tutte. Posso nuotare fino agli abissi dell’oceano e passare i miei giorni in mezzo ai pesci. Ma abbiamo anche dei doveri come tenere pulito il mare e devo dire che vuoi umani ci rendete il lavoro un po' difficile di questi tempi…
Aveva ragione, l’uomo ormai non ha più rispetto per il mondo e il suo delicato equilibrio. Ci crediamo i padroni del mondo e ci sentiamo in diritto di fare tutto quello che vogliamo. Lo guardai dispiaciuta, non avevo parole per giustificare l’atteggiamento umano. Come nel pomeriggio, mi prese e mi fece accomodare sulle sue gambe cingendomi la vita e lasciandomi un dolce bacio sul collo. Rabbrividì e non certo per il freddo. Quello è sempre stato un punto delicato per me e a quanto pare anche Kei lo aveva capito perché alternava momenti di scrittura a momenti in cui mi riempiva il collo di baci.

Tra di noi in mare, non parliamo, comunichiamo con la mente, più che parole sono sensazioni e immagini ma possiamo anche parlare se vogliamo, ma per voi umani è pericoloso.
“Perché?” chiesi senza riuscire a trattenere la domanda. Lui mi riservò uno sguardo torvo e subito mi tappai la bocca con le mani, decisa a non toglierle da li fino alla fine del suo racconto. Sorrise malizioso prima di baciarmi il collo, ma questa volta al posto di limitarsi a un semplice bacio, marchiò la mia pelle con scie umide e infuocate che dalla base del collo arrivavano fino all’orecchio. Non riuscì a trattenere un gemito di piacere che fece crescere la mia e la sua eccitazione. Poggiai la testa contro la sua tempia. Il respiro singhiozzante e un immenso calore al mio inguine mentre un moto di farfalle distruggeva il mio stomaco. L’unica consolazione era che lui non fosse messo meglio di me.

Kei chiuse gli occhi, trasse un profondo respiro e riprese a scrivere spezzando l’attrazione che si era creata.
E’ pericoloso perché per voi la nostra voce è ammaliante, vi attira verso di noi e diventate creta nelle nostre mani.
“Come nell’Odissea. Le sirene attiravano i marinai verso gli scogli uccidendoli. Oh accidenti ho parlato ancora…” scosse la testa e torno a scrivere. Quindi io non lo avrei mai sentito parlare?speravo che avrei potuto sentire almeno una volta la sua voce ma rimarrà una cosa impossibile.

Esatto, alcuni banchi di sirene lo fanno ancora… sono simili alle vostre amazzoni.
Il mare poi è pieno di sirene e tritoni anche se siamo molti di meno rispetto ai secoli passati. Il mare è così inquinato che rende la vita molto dura a molti.
Quanto male stava facendo l’uomo con la sua arroganza?

Per lo più viviamo alle basse profondità dove l’uomo non arriva, la più grande città è Atlantide. Io vivevo li.

“Vivi ad Atlantide e com’è?”
Bellissima. È impossibile da descriverla, la devi vedere!
“Allora non avrò mai quest’onore” dissi sconsolata. Se vivevano nelle profondità marine per me sarebbe stato impossibile arrivarci e poi non credo che un’umana sarebbe stata ben accetta.

Kei mi prese il mento obbligandomi ad alzare lo sguardo scontrandomi con i suoi occhi limpidi e fece sfiorare i nostri nasi. Facendomi ridere per l’ingenuità del gesto.
Non ridere è simbolo di affetto da noi!
Scrisse simulando una faccia imbronciata. Risi ancora di più per poi avvicinare ancora i nostri fisi e ricambiare il gesto. Poi una frase attirò la mia attenzione.

“Perché hai detto che vivevi?”
Il suo sguardo s’incupì e nonostante lui fosse li con me la sua mente sembrava viaggiare lontano verso luoghi a me reclusi.
Non posso più tornare ho perso la “chiave della via”.
“Che cos’è?” il suo sguardo cadde sul mio collo o meglio sulla collana che pendeva al mio collo e la sfiorò con le dita. “è questa collana? Ma io l’ho trovata in una grotta alle Hawaii!” lui annuì e ripreso il foglio mi spiegò i fatti.

L’ho persa quando ti ho adagiato sulla roccia e me ne sono accorto solo quando tu l’hai presa in mano…
Per dieci anni lui non è potuto tornare a casa per colpa mia. Gli occhi mi si riempirono di lacrime. Ero o la causa della sofferenza di poco prima.
“Mi…mi dispiace” riuscì a dire tra un singhiozzo e l’altro. Key sorrise e mi posò un dito sulle labbra. Avvicinò ancora il suo viso al mio e accarezzò il labbro inferiore con il dito che venne sostituito poi dalle sue labbra. Calde, morbide, dolci e salate.
Mi persi in quel bacio per un tempo che mi parve infinito e quando staccammo avevamo entrambi il fiato corto e gli occhi lucidi pieni di desiderio.
“ Mi hai salvato dallo squalo quando avevo otto anni?” annuì per poi avventarsi ancora una volta sulle mie labbra dando vita a un altro bacio mozza fiato. Era passione, era desiderio, era amore.
“E mi hai salvato anche la settimana scorsa quando sono caduta in mare?” sussurrai sulle sue labbra. I nostri respiri si mischiavano, potevo sentirli. Erano la fragranza più buona che avessi mai percepito. Annuì anche questa volta e il cuore sembrò scoppiarmi nel petto e fui io a coprire le sue labbra e a farci cadere in un vortice di carezze senza fine. Mi fu sopra e iniziammo ognuno a esplorare il corpo dell’altro e non ci fu più tempo per parlare, per pensare e per respirare.
C’eravamo solo noi.
Lui sopra di me, io sotto di lui.
Lui attorno a me, io circondata dal suo calore.
Lui dentro di me, io piena di lui.

Danzammo su quella spiaggia baciati dai raggi della luna a ritmo di una musica interiore solo nostra. I nostri volti erano l’uno accanto all’altro respirando il respiro dell’altro.
Al principio fu lento poi veloce e ancora lento. L’intensità crebbe, le mie braccia corsero attorno al suo corpo mentre i fianchi, si spingevano uno verso l’altro. Furono baci rubati, gemiti soffocati che nessuno dei due soffocò.
La mia mente urlava due parole che non avevo detto a nessuno neanche a Blake, ma le avevo pensate per un ragazzo conosciuto il giorno prima e che poi avevo scoperto essere un tritone. All'apice le stavo per urlare,mi morsi la lingua per trattenermi. Avevo timore di rompere la magia, di confondere il suo interesse per qualcosa di più. Ci stavamo donando completamente l'uno all'altra ma non potevo impedire alla mia mente di macchinare certi pensieri. Mi baciò con foga prima di accasciarsi su di me. E così mi addormentai, felice e appagata tra le sue braccia che mi tenevano strette al suo corpo, come se avesse paura di perdermi.

Un raggio di sole s’infilò tra le palme del soffitto e mi colpì in viso ridestandomi dal torpore del sonno. Le immagini della notte appena trascorsa mi tornano alla mente, io e lui uniti come un solo corpo, le labbra sue che avevo assaggiato per tutta la notte. Ma poi un dubbio s’insinuò nella mia mente. Eravamo sulla spiaggia non eravamo arrivati al capanno. Forse era stato solo un sogno, un frutto del mio inconscio e infatti quando mi girai lui non c’era. Una tempesta, di dolore, tristezze e frustrazione, s’impossessò di me. La notte più bella della mia vita era solo un sogno. Poggiai la mano sul tappeto di foglie di palma e sfiorai qualcosa. Era un foglio, piegato in due.
Incuriosita lo aprì e quello che vidi scritto cancellò come un colpo di spugna le mie paranoie.
Sono andato in mare, torno presto.
Aspettami.
Felice mi alzai recuperando i vestiti e in attesa del suo ritorno iniziai a preparare la colazione. Avevo un sorriso ebete sulle labbra, era stupido ma non riuscivo a toglierlo anche se le guance mi dolevano per lo sforzo. Ero troppo felice e dovevo urlarlo al mondo intero.
“Tro…troppo. Troppo” sul tetto del capanno, poggiato su uno dei rami sporgenti, c’era lo stesso pappagallo che avevo visto il giorno in cui conobbi Kei.
“Ciao piccolo pennuto! Hai visto che stupenda giornata?” gli chiesi anche se sapevo di non ricevere risposta.
“Stupenda giornata…gra…stupenda giornata”
“Esatto amico pappagallo! Una stupenda giornata” urlai alzando le braccia al cielo e girando su me stessa. Misi un piede in fallo e caddi sulla sabbia iniziando a ridere come una sciocca. Si ma una sciocca innamorata.
“ Sono felice! Hai capito Pollo? Felice” urlai ancora al pappagallo che mi osservava girando la testa prima a destra e poi a sinistra.
“Felice…gra…felice!” gracchiò sbattendo le sue grandi ali colorate.
“Esatto!”
Due braccia forti mi presero da dietro facendomi girare come una trottola. Avrei riconosciuto il suo odore e il suo tocco tra mille.
“Sei tornato finalmente!” dissi appena mi lasciò a terra. Lo abbracciai e baciai come se non lo vedessi da anni. Un Odisseo tornato dalla sua Penelope dopo molte peripezie.
Kei mostrò vittorioso la fila di pesci che aveva pescato. Li cacciava per me, anche il giorno prima non ne aveva toccato nessuno e dopo le ultime rivelazioni potevo capire il perché.
Ora non c’erano più segreti, o meglio c’erano ma certamente questo era il più grande. Gli altri potevano aspettare.
Mi lasciò andare per recuperare il quaderno e la penna. Era frustrante dover ricorrere a quei mezzi anche se lui poteva parlare, ma capivo perché non lo facesse.
Chi è che ti rende felice?
Risi della sua domanda. Portai un dito a picchiettare il meno facendo finta di pensarci.

“Non so se lo conosci…” Kei sorrise del mio tentativo di tenerlo sulle spine.
Descrivilo forse lo conosco…
Continua stando al mio gioco.

“ Beh è alto, capelli biondi che sono la cosa più soffice che abbia mai toccato. Occhi blu come il mare…. E ah sì, è un tritone. Lo conosci?”
I suoi occhi s’infiammarono di desiderio, gettò a terra il quaderno e si avventò contro di me. Ci amammo ancora con la stessa passione della prima volta, felici e con la sensazione di essere finalmente a casa dopo tanti anni passati alla sua ricerca.
“Questa è tua” dissi porgendogli la collana, una volta che c’eravamo rivestiti. La perla era rossa, un rosso intenso e caldo. Manifestazione dei miei sentimenti per lui.
La legai al suo collo, la perla cambiò colore dal bianco, colore della purezza, al blu, simbolo di regalità e poi rosso. E se avessi cercato una conferma dei suoi sentimenti, in quel momento l’avrei avuta.

Nel pomeriggio Kei mi portò a esplorare il fondo marino. Grazie a un suo bacio ero in grado di respirare sott’acqua per almeno mezz’ora. Era stato incredibile, un’esperienza più unica che rara. Avevamo esplorato la barriera corallina, avevo nuotato con i delfini e altri pesci che non scappavano al mio passaggio, ma si lasciavano toccare. Sembrava di essere in un altro mondo, e forse lo eravamo davvero.
Molti dei pesci che vidi non erano tipici della latitudine in cui mi sarei dovuta trovare.
Ero placidamente sdraiata sulla sabbia godendomi i raggi del sole con Kei al mio fianco che mi vezzeggiava quando il rumore di un motoscafo attirò la mia attenzione e quella di Kei.
“I soccorsi!” dissi alzandomi e iniziando a correre seguendo il rumore. Veniva dalla parte dell’anello che dava sull’oceano e stava costeggiando l’isola.
Kei mi bloccò per un braccio, quando mi girai per chiedere spiegazione il suo sguardo serio e concentrato fece morire qualunque mia protesta.
Mi fece segno di stare zitta e s’incamminò all’interno dell’isola fino a fermarsi un metro prima di uscire allo scoperto. Un gommone senza bandiera o altra segnalazione navigava a bassa velocità, portava tre persone vestite di nero, dall’aspetto militare osservavano l’acqua molto attentamente, come se fossero alla ricerca di qualcosa.
“Chi sono?”
Pirati.


§



“Cosa?!” usando una voce di tre ottave più alta del solito. Non circolavano belle voci suoi piati moderni e le notizie di sequestri e attacchi, che riempivano i telegiornali, ne erano una prova tangibile.

“Shhhh” sibilò girandosi di scatto verso di me e portandosi un dito sulla bocca.
Uno di loro girò di scatto la testa nella nostra direzione e mi sembrò che puntasse lo sguardo nel punto in cui eravamo nascosti, istintivamente ci acquattammo entrambi. Il gommone deviò avvicinandosi alla spiaggia. Volevano scendere a terra!
“Che facciamo?” lui scosse la testa e continuò a osservare il gommone che si arenò venti metri più avanti. Gli uomini scesero con un balzo ma quello che catturò maggiormente la mia attenzione fu l’oggetto che uno degli uomini teneva in mano. Una collana simile a quella di Kei, di diverso c’era solo la conchiglia. Emetteva uno strano bagliore, lento e ritmato.
Kei mi fece segno di seguirlo, sembrava scosso, e in silenzio tornammo alla mia capanna.
"Dobbiamo nasconderci. Se ci prendono non so cosa potrebbero farci" dissi appena uscimmo dalla boscaglia. Kei sembrava non darmi retta, si guardava attorno, la capanna, il focolare, la barca ormeggiata al largo.
Corse verso la sterpaglia che nascondeva il gommone, lo estrasse e lo porto a riva.
" Kei che vuoi fare!"gli chiesi seguendolo come un’ombra.
"Ora tu prenderai il gommone, raggiungerai la barca e te ne andrai" per la prima volta senti la sua voce.
"Hai parlato..."era stupenda, dolce e melodiosa ma con uno strano timbro ridondante.
La testa divenne leggera, i sensi si annebbiarono mi sembrava di essere sotto l’effetto di sostanze stupefacenti. Le sue parole arrivavano come un ordine. Mi stava manipolando.
"Ti prego non farlo Kei...." pigolai con le lacrime che cadevano ininterrottamente, una cascata di dolore. Avevo capito cosa stava facendo. Prese il mio viso tra le mani e mi guardò risoluto.
"Sali sulla barca e scappa. Li distrarrò, non gli permetterò di farti del male" suggellando la promessa con un bacio.
"Ti amo" sussurrò sulle mie labbra facendo fare una capriola al mio cuore. Facendomi raggiungere le vette più alte del cielo e contemporaneamente le viscere della Terra.
"No. Voglio rimanere al tuo fianco".
Lo avrei perso.
Una voce mi urlava che se me ne fossi andata da li senza di lui non lo avrei più rivisto.
Voci confuse arrivavano dal bosco. Si facevamo sempre più vicine.
"Vai. Ora" ancora quel tono incantatore che non mi lasciò altra scelta.

Guardavo inerme la spiaggia e la figura di Kei che diventavano più piccole. Volevo tornare indietro ma il mio corpo non rispondeva ai comandi come se qualcosa avesse preso il controllo su di me.
Lo vidi girarsi di scatto e iniziare a correre nella direzione opposta alla mia mentre due figure sbucavano dagli alberi. A peggiorare la situazione arrivò anche il gommone, guidato dal terzo uomo che gli bloccava l’unica via di fuga.
Il terrore mi annichiliva e la paura che quegli uomini potessero fargli del male ruppe le barriere che mi tenevano imprigionata. La nebbia che offuscava la mia mente si dissolse e tornai padrona delle mie azioni.
Impugnai il timone e feci dietro front. Il gruppo si era allontanato, Kei era davanti e gli altri due lo tampinavano, in mano una pistola. Rabbrividì a quello che sarebbe successo se lo avessero raggiunto.
Ritornai a riva senza preoccuparmi di tirare dentro il gommone, raccolsi un pezzo di legno abbastanza resistente, che sarebbe diventato la mia arma, e iniziai a correre infilandomi nella foresta. Correvo più forte che potevo per raggiungerlo il prima possibile.
Delle urla mi ghiacciarono il sangue nelle vene. Avevo sentito poco quella voce ma l’avrei riconosciuta subito. Avevano colpito Kei.
Nascosta da degli arbusti assistevo ammutolita alla scena. Kei era a terra, sul petto e sul braccio sinistro, erano conficcati dei dardi del taser, non era una pistola con proiettili, che a ogni impulso lo facevano contorcere dal dolore. Volevo agire, raggiungerlo e liberarlo ma loro erano in tre ed io solo una. Di fronte a lui stava quelle che gli aveva sparato. Un uomo corpulento, dall’aspetto marziale. Sguardo duro e impassibile.
Lungo il braccio destro, un grande tatuaggio maori, un’aquila, all’interno di un elemento circolare, che sembrava scendere in picchiata verso una sirena. Un tatuaggio bello quanto inquietante.
“Ma bene, bene, guarda chi abbiamo pescato” urlò il secondo uomo mentre raggiungeva il duo. Impugnava la collana, la teneva alzata in bella mostra, il suo luccichio era diventato più intenso e ritmato.
“Un giovane tritone! Ciao amico” continuò con un tono mellifluo. Era un uomo smilzo, altezza nella media, non aveva capelli, al loro posto un grande tatuaggio partiva dalla nuca e scendeva lungo il collo fino a scomparire sotto la canotta nera. Lo sguardo era cattivo, si vedeva che godeva nel vedere e infliggere dolore. Certamente era un essere disgustoso e abbietto.
S’inginocchiò davanti a Kei togliendomelo dalla mia visuale e subito l’uomo armato, si posizionò al suo fianco, dandomi anch’egli le spalle. Nel piegarsi la canotta dell’uomo che reggeva la collana si era alzata rivelando la custodia di una pistola elettrica. Un piano si sviluppò nella mia mente.
Scrutai il mare alla ricerca del gommone ma questo non c’era.
Era il momento di agire, impugnai più saldamente il pezzo di legno e a passo felpato mi avvicinai al gruppo, stavo bassa per non farmi vedere. Il tizio con la collana parlava a Kei, gli chiedeva di qualcosa, “altri…”,“gioielli…”,”oro nero” erano solo parole isolate e non ne capivo il senso.
Arrivai alle spalle dei due pirati e con un gesto secco colpì la testa del tizio inginocchiato. Subito recuperai il taser e sparai all’energumeno che non aveva avuto il tempo di reagire. Si accasciò a terra contorcendosi tra gli spasmi degli impulsi elettrici. Kei si alzò e lo coplì con un pugno stordendolo.
“Selene! Ti avevo detto di andartene!” la sua voce esprimeva sorpresa e inquietudine. Sicuramente non si aspettava che l’effetto del suo potere svanisse. Lo liberai dai dardi e subito mi abbracciò come a cercare conferma che io fossi veramente lì e che stessi bene.
“Come hai fatto?” sapevo a cosa si riferisse. Sorrisi e lo abbracciai.
“Non lo so. Ti ho visto correre, questi due che t’inseguivano. Avevo paura che ti avrebbero fatto del male e non potevo permetterlo... non ti avevo neanche detto ti amo!”annaspai alla fine del mio discorso, ero senza fiato sopraffatta dalle emozioni,  volevo rivelargli i miei sentimenti prima quando lui aveva confessato i suoi ma non me ne aveva lasciato la possibilità. Gli occhi gli s’illuminarono, brillavano di luce propria ed erano in grado di oscurare il sole con la loro luce. Mi baciò con trasporto e anche se la tentazione di perdermi in esso era forte la minaccia dei pirati era ancora forte.
“I pirati… dobbiamo andarcene” dissi quando forzai le mie labbra a staccarsi dalle sue. Due erano a terra ma il terzo poteva tornare e portare i rinforzi con se.
Ci alzammo, io recuperai il bastone e Kei prese la collana che giaceva a terra a fianco dell’uomo che avevo colpito. Continuava a emettere una flebile luce che aumentò d’intensità una volta che Kei la prese in mano. In risposta anche la collana al suo collo prese a brillare come se si riconoscessero. La guardava con occhi tristi, lucidi. Gli presi la mano libera tra le mie per confortarlo, lui mi riservò un flebile sorriso e iniziò a correre verso la direzione da cui ero venuta, trascinandomi con se. La sabbia rallentava i nostri passi e una nuvola di rena si alzava al nostro passaggio. Eravamo così sicuri di averli messi fuori combattimento per un tempo abbastanza lungo da permetterci di scappare che non mi c’eravamo accorti dell’ombra che si stagliava dietro di noi.
Urlai quando venni strattonata indietro verso un corpo sconosciuto.
“Selene!” urlò Kei guardandomi terrorizzato.
“Niente scherzi se non vuoi che la tua amica si faccia male!” riconobbi la voce sibilante e maligna dell’uomo che mentre Kei era a terra aveva un sorriso beffardo, divertito dalla scena che aveva di fronte. Il freddo della lama di un coltello premeva contro il mio collo, irrigidita cercavo di assecondare i suoi movimenti nel terrore di ritrovarmi con la gola squarciata nel giro di pochi secondi. Cercavo negli occhi spalancati di Kei uno spiraglio di salvezza ma senza successo.
“Ti prego lasciala. Lei non c’entra nulla. Non sa nulla” gli disse con tono supplicante. Le mani alzate protese verso il mio assalitore, in un atteggiamento di resa.
“La sua sicurezza dipende da te tritone. Ora ci seguirai docile e …” disse con la bocca che sfiorava il mio orecchio. Una sensazione di umido sul mio lobo mi fece ritrarre disgustata.
“No!” urlò Kei quando l’uomo mi leccò il lobo e insinuò la lingua nel condotto uditivo.
 “… alla tua ragazza non verrà torto neanche un capello”  concluse il suo ricatto con una risata crudele. Quell’uomo era un pazzo, ormai ne ero più che certa.
“va bene, ma togli quel coltello. Farò tutto quello che vorrai”
Come saremmo usciti da quella situazione? Presto sarebbe arrivato anche l’altro pirata e noi saremmo stati spacciati.
“ Stupenda giornata….gra…stupenda giornata” Pollo usci dalle fronde degli alberi, facendo cadere una noce di cocco che rotolò giù, e volò in picchiata verso il mio assalitore, colpendolo in viso. Questo per difendersi mollò la presa permettendomi di scappare, subito le braccia forti e protettive di Kei mi accolsero portandomi dietro di lui. Pollo continuava a beccare il pirata evitando sapientemente i fendenti con cui l’uomo cercava di colpirlo. La noce di cocco si fermò a pochi centimetri da me e senza pensarci la presi e superando Kei la alzai sopra la mia testa e con essa colpì l’uomo in testa, fecendogli perdere i sensi per la seconda volta.
Pollo prese posto sulla mia spalla. Quel pappagallo era incredibile.
“Grazie Pollo sei stato molto coraggioso”
“Pollo coraggioso…gra…coraggioso” e iniziò a darmi una serie di baci sulla testa, almeno così avevo interpretato il suo continuo beccarmi i capelli. Ridacchiai divertita dal comportamento del pappagallo.
Sentì la mano di Kei prendere la mia e insieme riprendemmo a correre raggiungendo il gommone. Pollo prese il volo e raggiunse la barca in poco tempo, Kei m’intimò di salire sul gommone mentre lui si tuffò in mare, prese una delle corde che contornavano l’imbarcazione e mi trainò verso la barca. Andava velocissimo e in poco meno di un minuto ero sulla barca ad accendere il motore. Come l’altro giorno non ne voleva sapere di partire.
“Che succede perché non parti?” la voce preoccupata di Kei annunciò la sua entrata nella cabina.
“La batteria è morta e non ho energia per farla ripartire” dissi per giustificarmi.
“Dov’è questa batteria?” chiese dopo l’ennesimo mio fallimento.
“A che ti serve saperlo?” chiesi incuriosita.
“Dimmelo e basta, poi ti spiego” ordinò con un tono che non ammetteva repliche, se fossimo stati in un'altra situazione avrei già dato di matto per il tono che aveva usato ma in quel momento potevo ben capire il suo nervosismo.
“è sotto questa botola” dissi indicando la botola a pochi passi da me. Senza aspettare altro Kei la apri e vi pose sopra le mani.
“Riprova” e subito girai la chiave d’accensione. Dalle sue mani scaturì una forte scarica elettrica e il motore prese vita.
“Come hai fatto?” chiesi sbalordita.
“Cose da tritoni” certo che altro se no?
Presi il largo con un’andatura non troppo sostenuta. La barca era danneggiata e non avrebbe retto sotto sforzo. Gli strumenti elettronici continuavano a non funzionare per almeno tre chilometri.
“è il campo magnetico dell’isola, li aveva mandati fatti impazzire. Ora siamo fuori, tra poco dovrebbe tornare tutto alla normalità” mi spiegò quando avevamo superato il confine dell’isola. Non riuscivo a capire di che confine parlasse l’anello di terra dove avevamo vissuto era già lontano.
Poi il vento iniziò ad alzarsi, il mare che prima era piatto ora era increspato da onde che si alzavano sempre di più.
“non preoccuparti” disse Kei percependo la mia ansia “ è l’isola. Continua su questa rotta”
“L’isola?” ma non mi rispose troppo concentrato a guardare la tempesta che si stava creando attorno all’isola.
Effettivamente più ci allontanavamo e più il mare tornava ad essere calmo e a scorrere placido.
Quando gli strumenti di bordo tornarono in funzione, attivai il sistema di soccorso. Dieci minuti e una nave della guardia costiera spagnola arrivò in mio soccorso.
“Ti aspetto al molo di Càdiz sulla strada che porta al Castello si San Sebastian. Non dire nulla dell’isola per favore. Poi ti spiego.” mi disse prima di lasciarmi con un bacio dolce e pieno di attese.

Ci impiegai tre ore per arrivare a Càdiz, a sistemarmi con la guardia costiera e prendere accordi per riparare lo scafo.
“Scusi tre giorni fa avete ricevuto un segnale di soccorso per caso?” ero più che sicura che il segnale fosse almeno partito. “ era il 23 luglio, più o meno alle cinque del pomeriggio” spiegai. Il comandante mi guardò interrogativo.
“vorrà dire el veinte de luglio” lo guardai con un grande punto interrogativo al posto del viso.
“no il 23 oggi è il 27, sono stata quattro giorni…” ma lo sguardo stralunato dell’uomo mi fece morire la voce in gola. Mi guardava come se fossi pazza.
“Señorita oggi es el veintequatro de luglio” il ventiquattro?
“Sì, scusi, ha ragione, deve essere il sole che mi ha scombussolato la testa” dissi con leggerezza, per sviare il discorso.
“Sicura de stare bene? Vuole andare all’ospedale por un controllo?” chiese apprensivo facendo segno a un uomo dietro a una scrivania di chiamare. Subito assicurai che non era necessario, che un po' di riposo avrebbe risolto tutto.

 

Camminavo sulla strada ciottolata, aspettando il suo arrivo e intanto cercavo di trovare le risposte alle domande che mi frullavano in testa. Tante cose erano successe in quei giorni, avevo scoperto un nuovo mondo, avevo scoperto le bellezze e le minacce di quel mondo e avevo trovato l’amore, sempre in quel mondo. Avevo rischiato la vita con quei pirati, ma avrei rifatto tutto per lui.
Non dovetti aspettare molto, dopo una mezzoretta era dietro di me che mi cingeva la vita con le braccia, la testa poggiata sulla mia spalla che guardavamo in silenzio il mare.
“Come mai ora puoi parlare senza manipolarmi?” volevo chiederglielo da quando eravamo alla spiaggia ma i tempi erano ristretti.
“La collana ci permette di controllare la nostra voce” annuì pensierosa. Quindi ora potevamo parlare come due persona normali.
“ Perché per tutti è passato solo un giorno mentre per me ne sono passati quattro?”
“ Quella era l’isola evanescente” mi spiegò “Il tempo è distorto. E’ un concetto relativo”
“Cose da tritoni dunque” dissi usando le sue stesse parole. Ridacchiò e poi depositò un bacio sulla spalla.
“Già…cose da tritoni”
"Compare e scompare senza una ragione precisa. Tu ti sei trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato o al momento giusto e nel posto giusto”
avevo tante altre domande ma in quel momento persero importanza. Ero sala e al sicuro e anche Kei lo era. L’ansia e l’angoscia erano un ricordo passato ora c’erano solo gioia e pace. Anche se una domanda continuava a martellarmi nella mente e quella necessitava di una risposta.
“Kei…”
“Mhh”
“ Adesso…” esitai, avevo paura a dare voce a quel timore “ adesso… tornerai ad Atlantide?” ecco l’avevo detto. Chiusi gli occhi in attesa della sua risposta che stentava ad arrivare. Si staccò da me e mi fece girare, eravamo faccia a faccia. O almeno credevo non avevo avuto il coraggio di aprire gli occhi.
“Apri gli occhi Selene” una supplica a cui non seppi resistere. Li aprì piano e il viso di Kei mi si presentò davanti.
“Tu vuoi che me ne vada?” mi chiese evitando di rispondere alla mia domanda. Cercai di rispondere ma la voce non voleva saperne di uscire e così scossi il capo in segno di diniego.
“Neanche io me ne voglio andare” c’era sollievo nella sua voce.
“Allora, ti va di accompagnarmi nel mio viaggio nel Mediterraneo?” chiesi cercando di contenere la gioia che premeva per uscire dal mio corpo.
“ Sarebbe un onore” sussurrò prima di baciarmi. Un bacio bellissimo, che ancora una volta ebbe la capacità di trasportarmi in un mondo nostro, dove non c’era nessuno all’infuori di noi. Le sue mani sul mio corpo, le mie nei suoi capelli.
“Ti amo” dicemmo all’unisono quando separammo le nostre bocche per riprendere fiato. Ridemmo come due sciocchi ma non m’importava. Ero felice, abbracciata dall’uomo barra tritone che amavo e….
“ Ti amo… gra, gra… Ti amo”
E in compagnia di un pappagallo troppo impiccione.
Ero pronta per ricominciare il mio viaggio e chissà cosa mi avrebbe riservato il futuro.

“ Devo preoccuparmi della concorrenza del pappagallo?”



“Il mare. Non devi odiarlo, anche perché sai già che dopo un po’ di tempo, quando sarai a casa, avrai tanta nostalgia di questo Mare e ne sentirai la mancanza, dopotutto tu questo Mare l’hai sempre amato e continuerai ad amarlo anche se capisci che in questo momento sta cercando di rapirti, di prenderti per mano accompagnandoti a far visita ai suoi abissi.”
( presa da un sito di cui non ricordo il link^^ )





Citazioni e spiegazioni:


1. La randa è una vela armata sull'albero principale (o sull'unico albero) di un'imbarcazione a vela.
2. Siren dal latino sirena
3 Le scotte sono le corde, in questo caso si tratta della corda che tiene in tensione la randa (vela principale)
4. “e furono baci rubai grida soffocate che nessuno soffocò” rielaborazione da “Valsinha” di Mia Martini
5. “Pollo” nome del pappagallo di Robinson Crouse
6. Ho usato l’isola di Maupiti per ambientare l’isola evanescente.



____________________________________________________________________________________________
Se siete arrivate fino a qui è incredibile. E' un po lunga ma le cose venivano da se e personalmente mi piace molto. Da quanto non si parlava di sirene, tritoni, ecc... Grazie ai Pirati dei Caraibi sono tornate e con successo ma la concorrenza è spietata^^ Con la storia ho voluto dare il mio omaggio, senza grosse pretese, a quelle creature tanto misteriose e antiche che mi hanno sempre affascinato. Forse farò altri capitoli in futuro, se vedrò che piace, ma per ora rimane solo una OS bella lunga, poi il viaggio di Selene è lungo^^ può trovare di tutto sulla sua strada. Se vi va fatemi sapere il vostro parere io sarò felicissima di leggere i vostri commenti e rispondervi^^Altrimenti penserò di aver scritto una schifezza...
CIAO!!!!!!!!!!!


   
 
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Soprannaturale / Vai alla pagina dell'autore: sayuri_88