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Autore: Atreius    20/08/2011    3 recensioni
Archibald J. aveva trent'anni, i capelli rossi, e gli occhi verdi. Viveva in un'anonima casa di pietra, a Londonderry, con un giardino ben curato, l'edera che si arrampicava sulla facciata, una bicicletta nera del '67 appoggiata alla recinzione di legno verde, e niente di diverso rispetto alle altre abitazioni.
Genere: Generale, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Archibald J. aveva trent'anni, i capelli rossi, e gli occhi verdi. Viveva in un'anonima casa di pietra, a Londonderry, con un giardino ben curato, l'edera che si arrampicava sulla facciata, una bicicletta nera del '67 appoggiata alla recinzione di legno verde, e niente di diverso rispetto alle altre abitazioni.
Archibald lavorava come impiegato alle poste, e nel tempo libero faceva volontariato presso la biblioteca civica della città. Archibald, da bambino, non leggeva. E la vita gli era sempre sembrata perfetta così.
Non leggeva niente, a parte i noiosi libri di scuola, e le istruzioni dei Lego. Accadde un giorno, che dovesse racimolare crediti formativi, per la scuola superiore. E ironia della sorte, scelse la biblioteca, per raggranellarli.
Archibald viveva la sua vita tranquillo, aveva imparato i nomi, gli autori, i titoli, e con agilità si muoveva fra gli scaffali, ogni qual volta si presentava un lettore, a chiedere un libro.
Eppure Archibald, aveva continuato a non leggere niente.
Accadde che la ragazza di Archibald, il giorno del suo ventinovesimo compleanno, lo lasciasse. Disse che era noioso, Archibald, che non aveva niente da dire. Il perfetto mondo di Archibald, andò in frantumi, e quella che aveva marchiato per anni come un'esistenza felice, come se un Lego meraviglioso che aveva montato secondo precise istruzioni, si fosse rotto, in mille pezzi.
Archibald soffriva. Passava le serate, fra un pub e l'altro, stordendosi di birra e idromele, cercando di annegare il dolore che provava, ma non vi trovava rimedio.
Una sera, ubriaco, si ritrovò in Foyle street, senza sapere bene come vi era giunto. La biblioteca lo guardava, con le sue enormi finestre. Lanciò la bottiglia per terra, e barcollando arrivò all'ingresso, e tentennando infilò la chiave che aveva trovato in tasca nella porta, e tremando vi entrò.
I corridoi enormi, zeppi di volumi, parevano fissarlo, come un intruso. Camminò, trascindandosi, ad ogni passo colpiva un mobile, per tenersi in piedi.
Cadde a terra, cercando di afferrare qualcosa, per non precipitare. Un libro dalla copertina rossa venne giù con lui.
"I dolori del giovane Werther". Esclamò, a voce alta. Subito, la sua esercitata mente da bibliotecario, gli ricordò Johann Wolfgang Goethe, narrativa straniera, Germania, mobile 2, scaffale 5, 813 Goe.
In preda al delirio, aprì una pagina a caso, e lesse "Sono tanto ricco, e il mio sentimento per lei divora tutto; sono tanto ricco, e senza di lei tutto diviene nulla". Quella frase lo colpì. Era Werther? Nella confusione dell'alcol, si sentì Werther.
E lesse. Iniziò da metà, per tornare all'inizio, e poi andare alla fine. Lesse, e non si fermò, ne prese un altro.  E un altro, a caso, buttava per terra, e ricominciava, una frase a caso e poi il libro intero.
Il giorno dopo, si presentò al lavoro, con la barba sfatta e l'euforia di chi è sotto effetto di sostanze stupefacenti.
E il gioco andò avanti, notte dopo notte, e Archibald non sentiva quasi la fame, il sonno era diventato corto, breve, una perdita di tempo ai suoi occhi.
Leggeva, buttato sulle piastrelle bianche della vecchia biblioteca, una torcia nella mano, una coperta sulle spalle. E attraversò la storia, le storie, le mille storie che la compongono, scritte in un libro. In migliaia di libri.
E il mondo diventò un passatempo triste. Erano i libri, il suo posto. Archibald incominciò a capire. A capire che la vita, non è mai come te l'aspetti. E incominciò a sentire che il suo dolore era male di vivere. E lesse Bukowski, e il male di vivere ebbe un senso.
Archibald soffriva, soffriva il male del mondo, il buio che emergeva dalle pagine, la malinconia del vivere.
Diventò malinconico. Smise anche di leggere. Passava le serate seduto in poltrona, guardava il fuoco. Ed era perso. Si era perso, lungo la strada.
Si domandava com'era possibile vivere, in questo posto così strano, in cui niente ha senso, in cui non v'è nulla dove rifugiarsi. Si sentiva solo Archibald. Tremendamente solo. I libri erano pagine, ma fuori dal libro, non c'era niente. Si era rifugiato in un sogno, si era scordato di vivere.
Incominciò a dimagrire, tremava, aveva la febbre. Ogni volta che apriva un giornale, ogni volta che ascoltava la radio, ogni volta sentiva che il dolore del vivere, aveva un motivo. Soffriva, empatico, con il dolore di sei miliardi di esistenze.
La febbre non smetteva di accompagnarlo. Dei suoi novanta chili, ne restarono cinquanta, ben nascosti nel suo metro e settantasette. Strinse la cinghia, mentre camminava per strada, dal dottor Janeway.
Lo visitò, sentendo il suo cuore battere a mille, gli prescrisse analisi, esami, e alla fine lo richiamò a sè, un pomeriggio d'inverno.
Gli occhi scavati di Archibald, lo fissavano attento, al di là della scrivania.
"Archibald, lei non sta bene. Tu non stai bene".
Archibald lo guardò, senza tradire emozione. Aveva imparato, nei suoi libri, che quando un medico passava dal "lei" al "tu", c'era sempre da preoccuparsi. Eppure non riusciva a farlo. Era euforico.
"Hai un tumore Archibald". Disse, alla fine, il medico.
Archibald non disse niente, e abbozzò un sorriso. Il dottore lo guardò sconcertato. Archibald sorrideva amabilmente, come fosse sollevato. Le sue guance erano rosse e i suoi occhi, allegri. Il medico si appuntò mentalmente di indirizzarlo ad uno specialista psichiatrico di supporto.
Archibald scattò in piedi, stringendo vigorosamente le mani all'uomo, congratulandosi.
"Una buona notizia dottore. Dopo tanto tempo. Una buona notizia." Archibald ridacchiò, godendosi l'espressione dell'altro. Fine della corsa. Meraviglioso. Si sentiva allegro.
"Quanto mi resta?" Chiese, gioviale.
"Resta? Tutta la vita, Archibald!" Esclamò Janeway. Il sorriso di Archibald si incrinò.
"Come?" Balbettò, boccheggiando.
"Tutta la vita. E' curabile!"

  
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