PREFAZIONE:
Dunque, vediamo un po’. NON so da dove questa
fiction sia nata né perché abbia deciso di scriverla con protagonisti i
characters dei Pokemon ma sta di fatto che ormai è scritta e che quindi non
posso farci niente.
Che ci crediate o no non è la prima storia che
scrivo su questa serie: mi sto infatti cimentando in una long sulla
Palletshipping, richiesta a gran voce da una mia carissima amica, di cui
vedrete forse la pubblicazione del primo capitolo a breve, dipende da come mi
gira XD
Beh, avrei qualcosa da dirvi quindi leggete con
attenzione per cortesia: la sottoscritta si è sciroppata nel giro di pochi
giorni un numero sproporzionato di puntate sui Pokemon per poter essere in
grado di scrivere la long di cui vi parlavo sopra. Prima di farlo, ero
un’ignorante di dimensioni bibliche. Diciamo che ora mi sento un’esperta (ma
anche no) su Ash e soprattutto Gary (<3), quanto nei confronti della
restante gamma dei personaggi mi sento un’emerita profana. Se ho scelto di scrivere
una shot su questa coppia (Lucinda e Paul) è perché trovo questi due personaggi
semplicemente perfetti per stare assieme, sia caratterialmente che
esteticamente. Non credo di conoscerli alla perfezione ma mi piace pensare che i miei Lucinda e Paul
possano piacervi per quel che sono: magari un po’ OOC ma credo che sia del
tutto giustificato dalle… ehmmm, chiamiamole circostanze della storia.
Siete avvisati: quindi è OOC. Forse. Non lo so.
Ditemi voi se devo ficcarcelo tra gli avvisi. In ogni caso io vi ho avvertito.
Secondo: l’idea. Una folgorante discussione su
msn con Ondin_Beax, che mi ha raccontato vicende rocambolesche che non sono
nient’altro che la trasposizione di quel che c’è scritto qua sotto. Quindi sì,
una piccola-grande dedica a suo figlio Jason, mia fonte d’ispirazione per
scrivere questa shot.
Ultima cosa ma non per questo meno importante:
sì, ok, è un cliché ma davvero non ho saputo resistere. Vi prego di non
giudicarmi male mentre leggete. In fondo ho solo esaudito i desideri più reconditi
di ogni Ikarishipping fangirl che si rispetti. Leggete e capirete.
Per il momento è tutto. Vi auguro una buona
lettura <3
________________________
~Paul’s first time~
Accade
verso le due del mattino, mentre l’intero condominio sonnecchiava cullato dalle
amorevoli braccia di Morfeo, ignaro dell’apocalisse che di lì a poco si sarebbe scatenata. Non un alito di
vento, non il più piccolo presagio lasciavano pronosticare l’infausto
cataclisma che era ormai prossimo a compiersi e che avrebbe immancabilmente
tirato giù dalle brande tutti gli abitanti del palazzo, nessuno escluso. O
quasi.
Alcune
adorabili vecchine, infatti, per un caso fortuito della sorte erano già in
piedi, pronte per dedicarsi agli ultimi preparativi per la festa nuziale della
coppia che abitava al settimo piano. Anche qualche ragazzo era sveglio, l’uno
occupato al pc, l’altro a guardarsi un film a luci rosse, l’altro ancora al
telefono con la sua fidanzata. Per non parlare poi della futura sposa, in preda
all’insonnia e all’agitazione, che camminava in tondo sul tappeto del salotto
da circa due ore tentando inutilmente di calmarsi e darsi un tono.
Ecco,
questa era l’atmosfera di assoluta pace e tranquillità che si respirava
all’interno dell’edificio quando accadde il fatto: all’improvviso, uno strillo raccapricciante
e tutt’altro che umano risuonò tra le pareti dello stabile, più precisamente in una
camera situata al quarto piano nell’appartamento numero 36. Inutile dire che
quell’urlo, tanto potente quanto selvaggio, ebbe il potere di svegliare tutti i
poveri residenti e rischiare di far venire un colpo al cuore a un pugno di
essi. Ovviamente molti si spaventarono, un paio corsero addirittura a prendere
il telefono per chiamare la polizia o i vigili del fuoco poi, quando si
ritrovarono il cordless tra le mani tremule, si riscossero capendo finalmente
ciò che stava accadendo e
sputando spazientiti l’ennesima bestemmia seguita da colorite imprecazioni.
Di
nuovo. Non poteva essere vero!
Continuarono
a brontolare per un pezzo mentre tornavano ai rispettivi letti e mandavano
bellamente a quel paese la causa del loro risveglio notturno: quella era la
terza volta in una settimana! Non si poteva continuare così, bisognava intervenire e fare qualcosa, e alla
svelta anche!
Nel
frattempo, all’interno dell’appartamento numero 36, più precisamente nella
camera dove giaceva sotto le coperte una delle coppie più bizzarre e mal
assortite che il genere umano avesse mai potuto contemplare, una giovane donna
si riscosse immediatamente all’udire quello strillo, mettendoci mezzo secondo
netto a capire cosa stesse accadendo.
“Oh
no, di nuovo… domani i vicini ci ammazzeranno…” Pensò demoralizzata sfregandosi gli occhi impastati dal sonno
e cercando di districarsi dal nodo di coltri che l’avvolgeva dal capo ai piedi.
Ok,
era arrivato il momento di ammettere almeno a se stessa che la situazione stava
cominciando a sfuggirle di mano: si impegnava al massimo per assicurare un
quieto vivere a tutti e nessuno, malgrado in molti venissero a rimproverarla
per i più disparati motivi, aveva mai avuto di che ridire su ciò. Il punto era che così non ce la faceva più e che alzarsi ogni notte ad
orari inimmaginabili per correre a vedere cosa non andasse stava iniziando a
farle venire una crisi di nervi coi fiocchi e controfiocchi. Forse era arrivato
il momento di chiedere il cambio...
Rotolò su se stessa voltandosi in direzione del suo
compagno: eccolo là, beatamente addormentato accanto a lei, le testa appoggiata
sul bordo del cuscino e il respiro lieve sulle labbra carnose dischiuse. Avrebbe
volentieri allungato la mano per riscuoterlo dolcemente dal suo sonno se solo
ne avesse avuto la forza.
«
Paul… » Mugugnò
stringendosi nel suo pigiamone di lana caldo.
Quello
non rispose e continuò a
darle le spalle dormendo seraficamente.
«
Paul… » Lo richiamò più
forte, portandosi le mani alle orecchie per non sentire le urla.
Ancora
niente.
Stava
per gettare la spugna quando finalmente il ragazzo si mosse: eseguì un fiacco movimento quasi impercettibile ad occhio
nudo ma che lei riuscì a
cogliere al volo.
«
Mhhhhg… »
«
Si è svegliato di nuovo… »
«
Lo sento… » Bofonchiò lui
stringendosi ulteriormente al proprio cuscino: come avrebbe potuto ignorare uno
strillo di tal fatta? Era praticamente impossibile.
«
Quando ti ho sposata non credevo che il matrimonio mi avrebbe portato così tanti guai. » Brontolò infine tappandosi a sua volta le orecchie.
La
ragazza, sfiancata com’era, non trovò
nemmeno le parole per replicare.
«
Vai tu. » Si limitò quindi
a dire girandosi dall’altra parte, decisa a riappisolarsi quanto prima
possibile: pochi secondi dopo, una mano grande e calda la teneva per il braccio
incurante del fastidio che poteva procurarle.
«
Che cosa?? »
«
Ci vado sempre io, per una volta che vai tu… »
Sacrosanta
verità che solo un folle avrebbe osato contraddire.
«
Ma non ne sono capace, non l’ho mai… » Un sonoro sbadiglio interruppe il suo
piagnisteo infantile costringendolo a una piccola pausa. Infine, quando ebbe
esibito ai quattro venti le proprie fauci da leone alpha, terminò il discorso « …fatto. »
«
Non è difficile caro. Vai di là, vedi che c’è e poi torni a letto. Ci metti più
a lamentarti che a farlo… » Biascicò la
poveretta aggrappandosi al bordo delle lenzuola e nascondendocisi dietro.
Su
questo aveva i suoi seri, e tra l’altro del tutto comprensibili, dubbi. Detta
così poteva sembrare facile, una
cosetta che qualsiasi malcapitato avrebbe potuto affrontare, ma lui sapeva che
la realtà non avrebbe potuto essere più diversa e agghiacciante. Era
sinceramente combattuto, indeciso se cominciare a prendere a testate il muro o
scappare lasciando la sua Lucinda nelle fauci di quel terribile mostro: ora
come ora, col cervello in pappa e i muscoli celebrali ridotti in poltiglia per
via del sonno, l’unica cosa che riusciva miracolosamente a capire era che, se
davvero si fosse cimentato in una simile impresa, non sarebbe stato in grado di
tornare vivo al talamo nuziale.
Tutt’un
tratto, gli strilli presero a farsi, se possibile, ancora più acuti e rabbiosi,
seguiti dalle voci assonnate degli altri coinquilini, nonché loro vicini, che
li intimavano CALOROSAMENTE di fare qualcosa e alla svelta, se non volevano
essere chiamati in causa per inquinamento acustico.
«
Lucinda vai tu… » Borbogliò infine
cercando di farle capire che, nella loro relazione, così come all’interno della loro piccola famiglia, era
lui quello che portava i pantaloni. Quindi fece per tornare a voltarsi
dall’altra parte, pronto per ostentare orecchie da mercante alle disperate
suppliche della giovane, quando quella si voltò e sfoderò la
peggiore arma di cui potesse avvalersi, peggio ancora delle tanto declamate e
letali bombe atomiche: gli occhioni alla Bambi. Quelli sbrillucciosi, grandi e da cane bastonato che ti facevano sentire
il peggior marito del mondo.
Masticò un’imprecazione digrignando di nascosto i denti.
Ora, capiamoci: non che lui fosse uno di quegli uomini rammolliti che, al
primissimo capriccio della propria consorte, accorrono ad asciugarle la
lacrimuccia e ad accontentare ogni loro più piccolo desiderio, tuttavia –perché
doveva esserci un “tuttavia”– aveva imparato a sue spese che gli “occhioni da
cucciolo” di Lucinda erano il suo più grande tallone d’Achille, come tra
l’altro testimoniavano un sacco di esperienze e vicende che caratterizzavano e
facevano tale in quanto tale la loro storia d’amore. Volendo fare un brevissimo
elenco, le più famose e degne di nota potevano considerarsi tre: il matrimonio
(perché la convivenza, che a lui andava più che bene, a un certo punto a lei
non era più bastata), il cucciolo di Vulpix (che dopo tre settimane neanche si
erano visti costretti a lasciare a una fattoria perché aveva rischiato per ben
cinque volte di bruciare il loro appartamento) e il figlio (la peggiore e più
aspra battaglia mai combattuta e clamorosamente persa). Ancora oggi si
domandava dove si trovasse quando le aveva risposto “sì” tutte e tre le volte (specie per l’ultima) e
soprattutto a cosa stesse pensando in un frangente di così grande delicatezza. La risposta, per quanto
semplice, gli faceva ribollire il sangue ogni qualvolta ci rimuginasse, un po’
per orgoglio, un po’ per imbarazzo: non era questione di pensare o fare perché,
quando c’era di mezzo l’amore, potevi farti tutti i programmi di questo mondo
che questi erano destinati a fallire miseramente. E lui, malgrado se ne
vergognasse e gli costasse ancora oggi un sacco ammetterlo, amava profondamente
quella pasticciona di sua moglie.
Guardò la ragazza e arrossì appena, grato alla notte e alla cortina di buio
che rendevano invisibile questo piccolo dettaglio: i capelli arruffati e blu
prussia cadevano sparpagliati ogni dove sul suo petto, il pigiama troppo largo
e azzurro pastello le stava più grande di due misure e la faceva sembrare
infinitamente più piccola di quel che era mentre i suoi occhi brillavano
nell’oscurità di luce propria come fossero due fanali. Più la fissava, più si
convinceva che il matrimonio fosse davvero la più grande e infame trappola
dentro la quale un uomo potesse cadere. Ogni cosa di lei glie lo faceva pensare,
a cominciare da quello scialbo, orribile e per nulla attraente pigiama: come
rimpiangeva i completini sexy e gli innumerevoli merli e pizzetti che la sua
amata aveva indossato nei primi mesi della loro storia e che lui si era tanto
divertito a guardare, toccare e, soprattutto, sfilare!
«
Per favore Paul… » Si sentì
supplicare, prendere e baciare la mano, un gesto dolce e del tutto naturale che
lo fece solo arrossire e arrabbiare ancor di più.
Maledizione!
Ci era cascato di nuovo!
«
Va bene, va bene! » Brontolò infine
tirandosi faticosamente su a sedere e lottando fieramente contro le sue
palpebre, così
pesanti e stanche che supplicavano di potersi chiudere di nuovo « Ci vado. »
Ottenuto
quel che voleva, Lucinda si rigirò dall’altra
parte senza neanche elargire un grazie, affondando la testa nel suo morbido
cuscino.
«
Sbrigati per favore, voglio dormire. »
Troppo
stanco per controbattere finalmente si alzò,
cercando coi piedi le sue pantofole e indossandone alla fine una sua e una di quelle
con le paperelle e gli orsacchiotti di Lulù. Sempre troppo stanco per
rimediare, si trascinò in
direzione della tana del mostro, incapace di trattenere sonori sbadigli che
marcassero la sua stanchezza. Durante il tragitto, mentre si imponeva di
svegliarsi e di rientrare nel pieno possesso delle sue facoltà mentali, andò più volte e sbattere contro le mura e l’uscio
della porta, rischiando quasi di finire a gambe all’aria quando per poco non
inciampò in uno dei giocattoli di
suo figlio abbandonato per terra, più precisamente un trenino con il muso di
Pikachu sul davanti. Un regalo di quel megalomane di Ash Ketchum.
Prese
un’ultima generosa boccata d’aria prima di entrare nella stanza del bambino,
quasi a volersi far coraggio: beh, in fondo, se ce la faceva quell’imbranata di
Lucinda, lui che era stato Pokemon Master per quasi tre anni, Capopalestra di
Nevepoli e addirittura Campione per due volte consecutive alla Lega Pokemon di
Sinnoh, che problemi avrebbe mai potuto avere? Ma sì, si stava decisamente preoccupando troppo, era
perfettamente inutile fasciarsi la testa prima del dovuto. E poi aveva visto la
sua Lulù tante di quelle volte in azione, sarebbe bastato imitarla, no?
Soffocando
l’ennesimo sbadiglio finalmente entrò nella cameretta,
illuminata da una lampada la cui luce andava via via
spegnendosi più ti allontanavi dal lettino. Si prodigò quindi di fare attenzione a non pestare altri
giocattoli abbandonati sul palquet e si diresse verso
la culla, guardandoci dentro con fare circospetto: una creaturina minuscola e
rossa paonazza, costretta in una tutina bianca con una paperella rosa seduta su
un vasino cucita sul petto (fiero di affermare che tale orrore lo avesse scelto
sua moglie e che lui non centrasse meno che niente), si dimenava come
un’ossessa dibattendo braccia e gambe verso il suo volto.
“E
ora?” Pensò spaesato e lievemente intimorito da quella… cosa che lo stava guardando coi suoi
terribili occhietti neri seppia.
Che
fare?
In
un primo momento, prese seriamente in considerazione l’idea di chiamare un
esorcista, tanto quell’essere di dimenava e scalciava senza tregua. Insomma,
lui aveva sempre sentito dire che i bambini fossero le creature più buone di
questo mondo ma ora si costringeva a pensare che, l’unico modo per trovarle
tali, doveva essere arrosto. Poi ci ripensò,
immaginando che la faccenda avrebbe fatto tutt’altro che piacere a Lucinda, e
optò per una via più
diplomatica.
«
Smettila subito Ash, capito? » Disse incurvando le sopracciglia verso il basso,
come non fosse già abbastanza imbronciato e minaccioso nel suo quotidiano.
Il
bimbo come per magia si chetò, prendendo a fissarlo meravigliato, quasi
folgorato, coi suoi occhioni così
dannatamente simili a quelli di Lulù, e portandosi il pollicione in bocca.
Per
un brevissimo istante Paul si sentì come
il più temerario degli eroi, colui che era riuscito a riportare la pace dove il
caos regnava altrimenti sovrano: già pregustava il momento in cui sarebbe
tornato da Lucinda, l’avrebbe svegliata –perché sicuramente l’avrebbe trovata
addormentata– e le avrebbe detto, con un ghigno strafottente dipinto sulle
labbra “Che ci voleva?”.
Purtroppo
però, quell’istante di gloria e
di smisurata gioia svanì nel
giro di un microsecondo, quando il moccioso riprese a strillare e trepidare
facendo smorfie di puro disgusto e indicandolo come fosse la cosa più
orripilante che avesse mai visto in tutta la sua vita.
Il
panico.
Paul
fissò il marmocchio come si
guarda a una bancarella di pesce puzzolente andato a male senza avere la più pallida
idea di cosa fare.
Riprovò.
«
Ho detto basta Ash, mi hai capito? »
Quella
domanda suonò incredibilmente
stupida e insensata alle sue orecchie, mentre rifletteva sul fatto che un
bambino di appena tre mesi neanche capace di dire “mamma”, la prima parola che
ogni moccioso che si rispetti impara a questo mondo, non potesse effettivamente
assimilare quello che andava dicendo.
Ok,
era arrivato il momento di provare col piano B.
Lentamente,
con fare visibilmente impacciato, allungò le
braccia verso suo figlio e lo cinse per i fianchi con la massima delicatezza,
quasi avesse paura che, sol sfiorandolo, questo sarebbe finito in mille pezzi.
Quindi lo sollevò e se
lo portò davanti agli occhi, le
braccia tese per tenerlo il più lontano possibile e poter ispezionarlo con la
dovuta calma.
E
in quel momento non poté fare a meno di chiederselo: LUI, il genio delle lotte
Pokemon, ammirato e stimato in tutta la regione per il suo stile tanto
aggressivo quanto efficace, aveva abbandonato i combattimenti e i suoi numerosi
impieghi per una seccatura come quella? Per diventare padre??? Ma come aveva
potuto essere così
stupido da lasciarsi abbindolare da Lucinda?? Cavolo, avrebbe dovuto far presa
sul suo lavoro e farle notare che avere un figlio a ventitré anni era la cosa
più pazza, impegnativa e ancora più pazza che ci potesse essere al mondo!
Oltretutto sapeva bene quanto mancasse anche a lei lavorare e fare la coordinatrice,
glie lo aveva sentito dire mentre parlava con le sue amiche, in special modo con
la moglie di Ash (quello grande e stupido eh!), Misty. A lui non ne aveva mai
fatto parola perché sapeva che le avrebbe risposto per le rime, schiaffandole
in faccia che quel figlio se l’era voluto e che adesso meno che meno poteva
permettersi di lamentarsene. Un bambino comportava delle responsabilità e, per
quanto potesse essere bello (oddio, bello era una parola un po’ grossa, forse
era meglio piacevole) giocare a fare
il padre e la madre in quei rari momenti in cui Ash non piangeva, strillava o
vomitava, non riusciva in alcun modo a sentirsi pronto e maturo per crescere
una creatura così
piccola. E la cosa peggiore era che, in un modo o nell’altro, doveva
assolutamente farlo giacché quel marmocchio che ora stringeva tra le braccia
aveva tanto bisogno di un padre quanto di una madre, anche se loro non erano
pronti a rivestire tali ruoli.
Detto
in parole spicce: lui e Lulù si erano ficcati nel peggiore dei pasticci che
potesse esserci e dal quale non sarebbero riusciti più ad uscire.
Gran
bell’affare…
Venne
strappato ai propri pensieri da un odore fraudolento e incredibilmente intenso
che non capì come
non avesse fatto a notare prima. Calò lo
sguardo sul piccolo Ash, il quale piagnucolava sbrodolando e sputacchiandosi
intorno e toccando le sue mani con le proprie imbrattate di saliva e germi. Un
spettacolo disgustoso ma quasi delizioso se confrontato a quello che di lì a poco si sarebbe tenuto e di cui l’uomo avrebbe
preso tristemente parte.
Continuò a studiare il più attentamente possibile suo
figlio, chiedendosi da dove provenisse quel tanfo capace di mandare al tappeto
un branco di Grimmer e Skutank traboccanti di energie, quando la creaturina
divaricò le gambe e, assumendo
un’espressione di totale concentrazione, mollò un sonoro peto che lo lasciò letteralmente a bocca aperta e senza parole.
Oh
cristo.
«
Non dirmi che… » Cominciò
lanciando languide e terrorizzate occhiate all’abbraccatura demoniaca che
indossava il piccolo al posto delle comuni mutandine, altresì nota col nome di “pannolino”: se quello era un
incubo, che qualcuno si sbrigasse a svegliarlo.
Quasi
a volersi far beffe di lui, lo scricciolo gli sorrise sinistramente
ghermendogli un rantolo di viva disperazione.
“Lucinda
questa me la paghi…” Promise a se stesso mentre si dirigeva velocemente in
bagno e appoggiava la peste sul mobiletto apposito: ovviamente di dimenticò di stendere un panno morbido sotto il suo
corpicino, così la
creatura riprese a piangere e urlare ancora più forte, facendogli venire un’emicrania
coi fiocchi e controfiocchi.
«
E ora che c’è?? » Gli chiese esasperato mentre cercava un pannolino pulito nel
mobiletto lì
vicino.
L’interessato
piagnucolò raggomitolandosi su stesso nel
vano tentativo di fargli capire che stava soffrendo un freddo glaciale:
tentativo del tutto inutile e andato a vuoto considerando che Paul, alle tre
del mattino e col cervello ridotto in pappa, non era in grado di distinguere
neanche quale fosse la sua destra dalla sua sinistra. Quindi si rassegnò, constatando che quel decerebrato di suo padre era
nella maniera più totale incapace di comprenderlo e di fare le cose come
andavano fatte. Se solo avesse potuto parlare, avrebbe detto che gli mancava la
mamma, così brava, carina e dolce, al
contrario di lui che sembrava un vecchio e brutto orso brontolone!
Studiò con scarso interesse l’uomo destreggiarsi col
pannolino che reggeva tra le mani, mentre si posizionava davanti a lui e
alternava lo sguardo dal suo corpicino, più precisamente da quello che c’era in
mezzo alle sue gambe, all’oggetto diabolico che ora aveva poggiato accanto a
lui: sembrava pronto per cominciare, e finalmente!
Paul
sospirò e, pentendosi poco dopo di
non essersi tappato il naso con una molletta, una forcina, una presa o
qualsivoglia oggetto utile per compiere tale impresa, strappò le stringe di nylon e aprì la mutandina, che alla pari di un forziere, quando
si dischiuse, rivelò il
“tesoro” che vi celava al suo interno.
“Porca
miseria!” Pensò tra sé
e sé pallido come un cencio mentre il più disgustoso e stomachevole odore che
avesse mai odorato in vita sua si disperdeva nell’aria facendolo indietreggiare
di un passo.
Ok,
al diavolo l’orgoglio: non era, nella maniera più assoluta, in grado di fare
una cosa del genere! Cambiare il pannolino a suo figlio era senz’ombra di
dubbio la sfida più ardua che gli si fosse mai prostrata innanzi e tremava al
pensiero di doverla affrontare, specie considerando l’incredibile… mole –non sapeva in quale altro modo
definirla– di prodotto organico che quella piccola peste era stata in grado di
partorire in sole… cinque ore, se non si sbagliava di grosso. Lucinda lo aveva
cambiato giusto prima di andare a dormire e ora era già in quelle condizioni!
Quella creatura non poteva essere umana, nessuno era in grado di compiere un’impresa
così… così… gli mancavano le parole per poterla definire e la
cosa più triste era che, continuando a rimirare con occhi increduli, disgustati
e furibondi quel dramma così ripugnante,
non sarebbe cambiato proprio un bel niente!
Doveva
agire.
«
Lucinda… » Mugugnò con
tono minaccioso, afferrando con due dita il bordo dell’arma di sterminio e sfilandola da sotto il sedere del piccolo,
gesto di cui si pentì
immediatamente perché il culetto sodo, morbido e lercio di questo andò ad imbrattare la superficie del mobile bianco
schizzando un po’ ovunque del liquido marroncino che centrò pure lui in pieno petto.
Merda.
Avrebbe dovuto pulirlo prima di liberarlo da quell’affare!
“Va
bene, niente di grave, lavo tutto dopo.” Cercò di convincersi mentre richiudeva con estrema
fatica il pacchetto di plastica e buttandolo nel cestino: almeno questa era
fatta. Ecco, ora doveva prendere le salviette profumate al lillà (per le quali
sua moglie aveva speso due volte tanto se paragonate a quelle semplicemente
umide e senza alcun odore specifico) e cominciare a pulire il sedere dello
scricciolo prima di agganciare il nuovo pannolino.
Dopo
aver riflettuto sul fatto che, se qualcuno lo avesse visto in quelle condizioni,
a cominciare da Ash e finendo a suo fratello, lo avrebbe coronato nel giro di
pochi istanti lo zimbello dell’intera regione, si premurò di afferrare i primi fazzolettini e di divaricare
le gambe del piccolo con la massima cura e attenzione.
Poi,
accadde. Senza alcun preavviso, senza che niente lo lasciasse far credere: beh,
d’altro canto, chi avrebbe mai potuto pensare che, dopo aver visto il contenuto
tutt’altro che idillico della vecchia mutandina, quella piaga avesse ancora
qualche sorpresa in serbo per il suo povero papà?
All’improvviso,
uno spruzzo caldo e potente colpì Paul in
pieno volto costringendolo ad indietreggiare finché non incontrò un Magikarp di gomma a terra che lo fece cadere e
sbattere l’osso sacro nel peggiore dei modi. Non riuscì mai a capire cosa lo trattenne quel giorno dal
mettersi a bestemmiare e far scendere tutti i santi che stavano in cielo, come
non riuscì mai a comprendere perché
Lucinda, che SICURAMENTE aveva sentito tutto quel trambusto, non fosse accorsa
ad aiutarlo.
Insomma:
Ash gli aveva appena fatto la pipì
addosso, per di più in faccia! Avrebbe dovuto declamare il suo profondo schifo
e andarsene indignato anziché tornare in bagno ad affrontare quel piccolo
terremoto come effettivamente fece. Ecco, un gesto del genere avrebbe dovuto
essere riconosciuto alla pari di un merito di guerra, no anzi, di più,
assicurargli un processo di beatificazione e santificazione, e invece passò del tutto inosservato.
Si
posizionò nuovamente davanti a suo
figlio, che nel frattempo aveva terminato di urinare e di inzuppare il suo
accappatoio che, quando si diceva la sorte, aveva dimenticato lì vicino la notte prima quando si era fatto la
doccia, e fece mente locale prima di agire.
«
Va bene, se pensi che mi faccia sconfiggere da uno come te, hai sbagliato padre
moccioso. » Proclamò infine sul piede di guerra, agguantando il
pannolino pulito e legandolo assai sgraziatamente al corpicino del piccolo.
Glie lo mise anche al contrario ma, non avendo voglia di rimediare all’errore
(tanto quei dannati cosi erano uguali
sia dietro che davanti) lo prese in braccio, o meglio lo sollevò per aria come fosse un pesantissimo ed ingombrante
sacco di patate e, dopo aver sistemato il putiferio che aveva combinato, si
diresse nuovamente verso la culla per depositarcelo dentro.
Compiuta
la missione, si lasciò
sfuggire un sospiro di sollievo, mentre gli dava le spalle e gli lanciava
un’ultima occhiataccia come a volergli dire “Visto che alla fine ce l’ho
fatta?”, quando, ovviamente, come aveva visto in tutti quei film a tipico
sfondo familiare che si era sciroppato mentre Lucinda era in “dolce attesa”, il
mostro riprese a strillare; quindi si rese conto che Dio doveva per forza
esistere e che quella era la punizione per aver dubitato di lui in tutti quegli
anni.
“Che
qualcuno mi aiuti. Anche uno come Ketchum mi può andare!”
Si
girò di nuovo e si diresse per
la seconda volta verso la culla, le palpebre pesanti come due macigni e il buon
senso che lo implorava di andare a chiamare Lucinda. Come il piccolo Ash lo
vide, smise immediatamente di piangere ed inclinò la testolina assumendo un’espressione buffa che
però non riuscì ad intenerirlo.
«
Cosa vuoi adesso? » Gli domandò
sgarbatamente soffocando l’ennesimo sbadiglio in una manica, che scoprì subito dopo essere bagnata della pipì di suo figlio.
Schifo
profondo.
Lo
stomaco del piccolo brontolò
rumorosamente togliendogli ogni dubbio.
«
Hai fame. » Decretò infine
tornando a prenderlo tra le braccia e dirigendosi stavolta in cucina: ora
finalmente capiva come mai Lucinda fosse sempre così stanca ed intrattabile la mattina quando si
alzava, come fosse in perenne stato di sindrome premestruale. Capiva e non
poteva biasimarla.
Fece
accomodare il piccolo sul suo seggiolone di Pikachu (un altro regalo di Ash
Ketchum) e si fermò stanco
a contemplarlo per qualche istante: piangeva, strillava, sputacchiava e lo
guardava arrabbiato, come fosse colpa sua se il suo pancino stava ribollendo in
quel modo.
Ash.
Di tutti i nomi che c’erano, proprio Ash avevano finito col scegliere! Ok, non
aveva alcun problema ad ammettere che, se non fosse stato che quello era
proprio il nome di Ash Ketchum, gli sarebbe anche andato a genio e che in fin
dei conti doveva solo essere grato a chicchessia che alla fine quella
screanzata di sua moglie non avesse scelto Barry, Brock o, peggio ancora, Kenny
(oh no, quest’ultimo non l’avrebbe proprio tollerato: oltre a essere un
nomignolo terribilmente stupido e infantile, era anche lo stesso del suo ex
fidanzato!), però
cavolo: Ash! Come quell’idiota di Ash Ketchum! Ma andiamo!
In
quel momento, mentre guardava il piccolo intento a cercare di distruggere il
bracciolo del seggiolino a suon di pedate, morsi e pugnetti violenti, giurò a se stesso che se mai il suo primo Pokemon fosse
stato proprio un Pikachu, l’avrebbe diseredato e mandato a vivere coi pinguini
in Antartide. Poco ma sicuro!
Sospirò ciabattando verso il frigorifero e tirando fuori
due bustine di latte in polvere che, quando aveva scoperto il prezzo, gli erano
costate dieci anni della sua preziosa vita, capendo finalmente dove stavano
andando a finire tutti i soldi che aveva racimolato durante la sua tanto breve
quanto proficua carriera di Campione. Purtroppo Lucinda non riusciva a produrre
abbastanza latte per sfamare il piccolo, motivo per cui si erano visti
obbligati a comprare delle scorte capaci di sopperire alle sue mancanze. Non
che glie ne facesse una colpa, però
cavolo: una gli fosse andata dritta con quello scricciolo che ora si stava
divertendo a smembrare il povero peluche di Elekid che aveva trovato sul
tavolino davanti a lui.
Agguantò un pentolino e lo immerse sotto il getto potente
del rubinetto, poi ci mise dentro una bustina e mezza e ficcò il tutto a cuocere sul fuoco: ricordava a malapena un discorso che
gli aveva proferito la sua Lulù a proposito del fatto che i bimbi non potevano
bere liquidi né troppo freddi né troppo caldi perché altrimenti… già,
altrimenti cosa? Sforzò la
memoria nel vano tentativo di ricordare il continuo con ovvi e scarsi risultati:
niente, tabula rasa, sembrava quasi che un branco di vichinghi assetati di
sangue fosse passato a far piazza pulita dei suoi ricordi.
“Oh
beh, probabilmente non era niente di importante…” Cercò di convincersi mentre scrollava le spalle e
attendeva che il latte si intiepidisse. Quindi guardò l’orologio e, dopo aver constatato che erano quasi
le tre e mezza e che fra meno di quattro ore avrebbe dovuto alzarsi per andare
a lavorare, si affrettò a
ficcare un cucchiaino nel pentolino per assaggiare il latte, il tutto mentre il
piccolo continuava a frignare senza tregua nuocendo gravemente sia alla sua
pazienza che alla sua povera e tutt’altro che sana testa.
Desiderava
tornare a letto. Infilarsi sotto la trapunta e abbandonarsi tra le braccia di
Morfeo, guardare Lucinda con occhi carichi di rabbia e ricordarsi che
l’indomani si sarebbe fatto sentire e che avrebbe tutelato i suoi diritti di
padre incompetente, a costo di dover invitare un’altra volta a cena quel rozzo
di Barry! Sì,
avrebbe fatto proprio così!
Saggiò il liquido e annuì soddisfatto: sì, gli sembrava ben cotto, forse un po’ freddino ma
così poco che neanche quel
mostro in tutina si sarebbe fatto tanti problemi. Prese quindi un biberon da
una credenza e, dopo essersi rimboccato le maniche ed imposto di non vomitare
per via della puzza che emanava la sua maglia, infilò la tettarella e lo poggiò sul tavolino davanti a lui.
«
Ecco, tieni. Muoviti a mangiare che voglio tornare a letto. » Lo intimò lasciandosi cadere a peso morto su una seggiola a
caso e sostenendosi la testa pesante con l’aiuto di una mano.
Il
piccolo rimase fermo immobile a fissare il padre come a volergli far capire
che, oltre ad essere l’adulto più incapace ed irresponsabile che avesse mai avuto
l’”onore” di conoscere nei suoi tre brevi mesi di vita, non era in grado di
imboccarsi da solo.
Dopo
un abbondante minuto di silenzio, durante il quale aveva rischiato di assopirsi
e battere la testa contro la superficie lignea del tavolo, si riscosse dal suo
torpore e comprese ciò che Ash
stava cercando più o meno di dirgli.
“Non
ce la faccio più…” Pensò
esasperato alzandosi e prendendolo in braccio. Afferrò il biberon e lo ficcò con malagrazia tra le fauci del bebè, il quale
diede un’avida poppata prima di stringere gli occhietti, ingoiare e
ricominciare a piangere più forte di prima.
Sospirò senza avere neanche la forza di replicare.
«
Ti prego Ash, mangia! » Arrivò
a supplicare porgendogli nuovamente la
pappa, ormai prossimo alle lacrime.
Il
piccolo strinse la boccuccia scuotendo la testa e allontanando da sé con le
manine il braccio del padre.
Ok.
Era ufficiale. Stava per perdere il controllo. Di lì a poco avrebbe defenestrato il moccioso, se lo
sentiva, oppure avrebbe chiamato il suo Froslass e gli avrebbe ordinato di
ibernarlo fino a quando non avesse raggiunto la maggiore età. Forse quella era
una soluzione anche migliore!
«
Ash, non mi aspetto che tu capisca ma sappi che se entro dieci minuti non torno
di là nel mio letto potrei perdere i lumi della ragione. Quindi fatti e fammi
un favore: mangia! » Incitò con
voce stressata porgendogli nuovamente il biberon.
Quello
gli lanciò un’occhiataccia di puro disprezzo
e sdegno, acconsentendo infine alle sue suppliche. Succhiò per un po’ senza smettere di piagnucolare e
lacrimare fino a quando non ne poté più e lo allontanò da sé, ricominciando a strillare così forte che il ragazzo giurò di aver visto il vetro della finestra vibrare
sinistramente. Poi spalancò la
boccuccia, assunse un colorito purpureo e un’espressione di grande sofferenza,
e vomitò il latte appena ingurgitato
sulla sua maglia.
«
Maledizione!! » Urlò
correndo verso il lavandino e piegando la testa del figlio in modo che potesse
rimettere in santa pace finché avesse voluto.
Non
ci poteva credere, quel bambino era una mina vagante! E la cosa peggiore era
che non aveva ancora trovato il modo per farlo stare zitto. In compenso, ora il
suo pigiama puzzava di pipì,
escrementi e addirittura bile. Davvero meraviglioso.
“Lo
uccido, lo uccido, lo uccido.” Pensava tra sé e sé ignorando i richiami severi
della sua coscienza, la quale lo intimava a ricordare che non solo stava avendo
a che fare con un bambino di neanche tre mesi –e che quindi doveva portare
pazienza-, ma che quel bambino altri non era che suo figlio –motivo in più per
impedirsi di fare cavolate-.
Quando
Ash ebbe finalmente finito, l’orologio a pendolo appeso alla parete scandiva le
quattro meno dieci.
«
Hai in serbo qualche altro tiro mancino oppure possiamo tornare in camera? » Chiese
infine cominciando a spogliarsi e rimanendo con solo dei boxer addosso, l’unico
indumento rimasto miracolosamente incolume dall’attacco combinato “vomito-cacca-pipì” del mostro.
Ash
ridacchiò felice dal seggiolone sul
quale suo padre l’aveva precedentemente adagiato per potersi svestire e,
finalmente, si esibì in un
esausto sbadiglio che Paul interpretò ingenuamente
come una “proposta d’armistizio”.
«
Che il cielo sia lodato! » Esclamò quindi
alzando gli occhi al soffitto e affrettandosi a pulire le ultime tracce di
latte rancido rimaste sulle piastrelle di granito. Una volta finite le pulizie
e portato a lavare i vestiti, prese tra le braccia il bambino, il quale si
accoccolò contro il suo petto
muscoloso e sgalbro in cerca di calore, poggiando una manina piccolina lì proprio dove batteva stanco e provato il suo
povero cuore.
In
quell’istante si sentì
strano: avvertì
distintamente una scarica elettrica risalire la sua colona vertebrale fino a interrompersi
alla base del collo, mista a un calore sconosciuto di cui non riusciva a
capirne l’origine. Una cosa però
l’aveva afferrata e anche bene: quella sensazione era quanto di più piacevole e
gratificante avesse mai vissuto sulla propria pelle, meglio ancora che venire
nominati Pokemon Master o Campione della lega di Sinnoh per la seconda volta
consecutiva.
Si
lasciò sfuggire un mezzo sorriso
mentre tornava nella cameretta del pargolo reggendo con una mano la sua
testolina e con l’altra il resto del suo corpo.
Finalmente
silenzio. Ecco, era proprio in occasioni come quella che si sentiva felice di essere padre.
Adagiò lo scricciolo all’interno della culla e, in un
impeto di follia pura mista ad un’incredibile stanchezza, gli accarezzò una guanciotta, si chinò a rimboccargli le coperte e gli gettò un’ultima timorosa occhiata: eccolo là, il sanguinolento mostro
attentatore della quiete pubblica, in procinto di addormentarsi col pollicione
in bocca e i radi capelli in testa arruffati e premuti contro il cuscino.
Nessuno, vedendolo in quelle condizioni, l’avrebbe mai ritenuto capace delle temerarie
e nefaste azioni che si dilettava ogni sacrosanta notte a compiere, riuscendo
così a destabilizzare il senno
dei suoi genitori e la pazienza dei loro coinquilini. Anzi: a vederlo così, pareva quasi un angioletto, un cherubino appena
sceso dal cielo con tanto di aureola sopra la testa.
Paul
sospirò, un sospiro liberatorio di
puro sollievo.
«
Buonanotte Ash. » Disse baciandogli la fronte e incamminandosi verso la propria
camera, soddisfatto e appagato come non gli capitava da troppo tempo.
Fece
il primo passo.
Poi
anche il secondo.
Addirittura
il terzo.
E
che dire allora del quarto?
Appoggiò quindi la mano sulla maniglia e si accinse ad
abbassarla, quando…
«
UEEEEEE!! UEEEEEE!! GNEEEEEEEEEEEEEEEE!!! »
Un
urlo disumano riecheggiò tra le
mura della stanza facendolo ripiombare dal paradiso, miracolosamente raggiunto
pochi secondi prima, quando si era beato dell’illusione che Ash si stesse
DAVVERO addormentando, all’inferno, senza neanche passare per il purgatorio.
“Non
è possibile, vi prego ditemi che non è vero…” Pensò tra sé e sé fissando con coinvolgimento
l’invitante parete di mattoni lì vicino,
che sembrava chiamare a gran voce il suo nome. Un invito a frantumarsi,
spaccarsi, spappolarsi -o come meglio preferite- la testa contro questa.
«
Calma Paul, respira. Non è così grave
come può sembrare… » Si disse in
preda alla schizofrenia lanciando un’occhiata mefistofelica all’orologio appeso
alla parete: le quattro e un quarto. Tra tre ore avrebbe dovuto essere in
piedi, fresco e riposato come una rosa per affrontare l’ennesima giornata di
lavoro.
Voleva
andare a dormire e no, effettivamente la situazione non era così terribile come, a un primo sguardo, poteva
sembrare: era peggio.
Con
una forza sovraumana tornò sui
suoi passi e si costrinse a riprendere tra le braccia il piccolo Satana.
«
Ora cosa c’è? » Gli chiese aspettandosi quasi una risposta che però, com’era ovvio, non arrivò.
Lo
scricciolo lo guardava con occhi supplichevoli, battendosi di tanto in tanto il
petto e gonfiandosi come una rana per poi espirare il tutto in una sola volta.
Sembrava volergli dire qualcosa, qualcosa che Paul, tra le nebbie della pazzia
e dell’esaurimento nervoso, riuscì per intercessione
divina a comprendere.
Il
ruttino. Ma certo!
“Cosa
mi tocca fare…” Pensò
cominciando a battere con delicatezza la schiena del figlio mentre se lo issava
contro la spalla. In un momento di tal fatta si rese conto che avrebbe
preferito mungere mille Miltank e affrontare tutti i Tauros di Ash Ketchum
piuttosto che avere a che fare con quella bestia per ancora un microsecondo in
più.
Finalmente,
avvertì con chiarezza un rutto
sonoro invadergli le orecchie: mai suono così gutturale e disgustoso fu più apprezzato, almeno
quanto fu odiato quello che seguì subito
dopo.
Un
altro peto. E una puzza stomachevole poco dopo. La consapevolezza che avrebbe
anche potuto morire che tanto non sarebbe cambiato niente, no anzi, quella
maledizione si sarebbe finalmente conclusa, invase prepotentemente il cuore di
Paul costringendolo a prendere in considerazione quell’ultima e unica via di
fuga. La cosiddetta “ultima spiaggia”.
“No
no, non scherziamo. E Lucinda poi?”
Ad
occhi chiusi, col cervello a quel paese e la bocca sempre spalancata in un
interminabile sbadiglio, si diresse in bagno per la seconda volta e si accinse
a ripetere di nuovo l’operazione “cambio pannolino”.
Per
un’oretta abbondante il ragazzo non fece che correre dalla culla alla toiletta,
giacché quel piccolo-gran produttore di materia prima non faceva che defecare
ogni qualvolta il poveretto lo rimettesse al calduccio sotto le coperte. Troppo
stanco per chiedersi cosa stesse facendo, continuò a cambiare pannolini su pannolini, pulire i
pavimenti che ogni volta finiva immancabilmente con lo sporcare, passeggiare in
lungo e in largo per la stanza tentando disperatamente di farlo addormentare e
rimpiangendo e rimproverando se stesso per non essersi mai preso la briga di
catturare un Jigglypuff prima d’ora.
“Promemoria:
recarsi prossimamente a Johto o a Kanto per prenderne uno…” Si disse mentre si
lasciava cadere a peso morto su un divanetto accanto al lettino e poggiando il
figlio sulle proprie ginocchia.
Ash,
finalmente più tranquillo, ora non urlava più: a dire il vero aveva smesso di
lamentarsi e frignare da quasi mezz’ora, ma ogni volta che aveva provato a
rimetterlo nella culla e ad andarsene, quello aveva ripreso a piangere e a
strillare richiamandolo così
indietro. In poche parole, aveva capito di non aver scelta: se voleva sperare
di poter dormire almeno due orette scarse, doveva prima attendere che si
addormentasse per raggiungere la sua Lulù nel loro letto.
«
Ghua! GaGaGaGa! » Esclamò
arzillo il piccolo indicandogli il peluche di Pichu accanto a loro.
«
Vuoi questo? » Gli chiese acciuffandolo per pura fortuna al primo colpo.
Era
stanco.
Molto
stanco.
Si
sentiva come se un trattore da quindici tonnellate gli fosse passato sopra e lo
avesse ridotto in poltiglia. Un triste prologo di una giornata che doveva
ancora cominciare e che lui avrebbe preferito etichettare come “epilogo”.
Il
bimbo gli strappò via il
peluche e cominciò a
mordicchiarlo soddisfatto, soffermandosi in particolare sulle sue orecchie a
punta e sulle zampette dai palmi rosa, il tutto sotto lo sguardo affaticato e
provato del padre, che continuava a tener d’occhio ogni suo movimento temendo
che, di lì a poco, sarebbe anche stato
capace di ruzzolare a terra.
«
Guhe? » Disse tendendo una manina verso il suo volto.
Paul
sospirò distendendo le sopracciglia
e le rughe che fino a poco prima corrugavano la sua fronte ora piana.
«
Che c’è? » Si limitò a dire
non riuscendo a trovare nient’altro da esternare.
«
Guhe! GaGaGa!! »
Suo
figlio gli schiaffò
davanti al naso il piccolo roditore giallo e cominciò a battere le mani felice: voleva giocare, peccato
solo che lui faticasse a stare anche solo in piedi, figurarsi farlo divertire.
«
Papà è stanco Ash. » Disse infine restituendogli il peluche e strofinandosi gli
occhi che proprio non ne volevano sapere di rimanere aperti « Molto stanco… »
Quello
lo fissò stranito corrucciando la
fronte, riuscendo così a
riprodurre fedelmente l’espressione da “non toccatemi-parlatemi-guardatemi che
mordo” dell’altro.
Sorrise
fiero di sé, soddisfatto di ciò che stava
vedendo: allora quel mostriciattolo aveva preso anche qualcosa da lui! E
pensare che fino a quel momento aveva pensato che avesse ereditato solo i geni
di Lucinda e neanche uno suo.
Sghignazzò cercando di darsi un minimo di contegno mentre il
piccolo si divertiva a fissalo forse chiedendosi il motivo per cui stesse
ridendo, evento più unico che raro se si considerava che a farlo era proprio
quel vecchio e brontolone Grizzly di suo padre.
Aprì la boccuccia assumendo un’espressione concentrata,
mentre le sue labbra si piegavano in mille e più smorfie che ricordavano
mostruosamente quelle che era solito fare anche lui.
Infine,
accadde. No, nessun vomito improvviso, peto o ruttino, che poi di ruttino aveva meno che niente. Accadde la
cosa più bella, stupefacente e incredibile del mondo, quella di cui nessun
altro padre all’infuori di lui avrebbe potuto vantarsi.
« BaBa… Ba… Ba… PaBa, Pa… pà! »
Paul
sgranò gli occhi esterrefatto: per
una manciata di secondi si chiese se la stanchezza gli avesse giocato un brutto
scherzo, se la follia e il tic nervoso all’occhio gli avessero fatto storpiare i
suoni e prendere fischi per fiaschi, ma quando Ash ripetè la parolina “papà”
non poté fare a meno che arrendersi di fronte all’evidenza: la prima parola di
suo figlio era stata “papà” e non “mamma” come chiunque si sarebbe aspettato,
lui per primo ad essere sinceri.
Sorrise
amorevolmente stringendo il bimbo tra le braccia e stendendosi con lui sul
divano. Quindi continuarono a fissarsi per un po’, addirittura giocando a fare
le smorfie più strane che, a quanto pareva, ad entrambi riuscivano in maniera
impeccabile, fino a quando la mano di Morfeo calò su di loro e trasportò entrambi nel magico mondo dei sogni.
Quella
notte, o meglio quella mattina, Paul si sentì davvero felice e pienamente soddisfatto di essere
padre e capì che la
sua carriera e il suo passato non avrebbero mai potuto reggere il confronto con
Ash e Lucinda.
Né
ora, né mai.
*************
Quando
Lucinda la mattina seguente entrò nella
cameretta del figlio e trovò gli
uomini che più amava al mondo stesi abbracciati sul divano, ancora beatamente
addormentati, si soffermò
sull’uscio della porta a fissarli con occhi intrisi di dolcezza e tenerezza.
Non si chiese come mai Paul fosse nudo né tantomeno badò all’odore nauseabondo di cui erano pregne le
pareti di casa: continuò a guardare
il piccolo Ash e suo marito come si guarda alla cosa più bella che si sia mai
vista, fiera di essere rispettivamente madre del primo e moglie del secondo.
Quindi
si avvicinò, si chinò su di loro e svegliò il più adulto con un delicato bacio a fior di
labbra. Quello distese i muscoli aprendo prima un occhio poi anche l’altro,
ricambiando con un mezzo sorriso il gesto romantico della sua Lulù.
«
Mi sono persa qualcosa? » Chiese la donna accarezzando i capelli del compagno.
Quello
scrollò appena le spalle mettendosi
a sedere e prendendo tra le braccia il piccolo Ash.
«
Mi ha chiamato papà… » Ammise infine senza mostrare però il minimo entusiasmo.
Tipico.
Lui odiava esternare le proprie emozioni al prossimo e aveva già esagerato
poche ore prima con suo figlio: non aveva le forze per concedere la replica a
Lulù.
La
ragazza spalancò la
bocca incredula, forse traumatizzata.
«
Mi stai dicendo che mi sono persa la prima parola di mio figlio?? Ma non è
giusto! » Commentò con
una nota di gelosia nella voce. « E tutto perché per una volta ho mandato te a
vedere di lui! Se ci fossi andata io la sua prima parola sarebbe stata di
sicuro “mamma”. »
Paul
scrollò un’altra volta le spalle
strofinandosi gli occhi stanchi.
«
Non è così grave, infon
–che ore sono??» Urlò all’improvviso dimenticandosi di quanto fosse
leggero il sonno del piccolo. Cavoli, il sole era già alto nel cielo e
considerando il periodo dell’anno in cui si trovavano non gli serviva vedere l’orologio per capire che era in ritardo.
In un mostruoso ritardo.
«
Paul hai svegliato Ash! » Lo riprese Lucinda mentre il mostriciattolo cominciava
ad urlare a pieni polmoni scalciando come un ossesso in sua direzione.
«
Ma io devo andare a lavorare! Perché non mi hai svegliato?? » Mugghiò infuriato cercando disperatamente le pantofole per
correre in camera a cambiarsi.
«
PERCHE’ E’ DOMENICA PAUL!! »
…
…
…
«
Che c’è, il gatto ti ha mangiato la lingua forse? Sei felice di quello che hai
combinato? » Si sentì
rinfacciare animatamente, con tutt’altro che vaghe allusioni ai pianti isterici
della belva.
Paul
non commentò, come
tra l’altro non si sentì
minimamente in colpa per quello che era appena accaduto. Anzi: prese Ash tra le
braccia, lo porse alla sua amata Lulù e, accennando un bieco e vendicativo
sorriso, finalmente disse « Questa volta te ne occupi tu. »
E
se ne andò, tornò in camera per buttarsi sotto le coperte e
rimanerci fino a mezzogiorno, lasciando la povera Lucinda da sola ad affrontare
la furia omicida del loro primogenito.
Per
quel giorno, lui la sua parte l’aveva fatta.
The End
__________________________
NOTE SCONCLUSIONATE DELL’AUTRICE:
Non posso credere di aver pubblicato una cosa del
genere!
No, sul serio: io sono quella dei drammi, del
fazzoletto a portata di mano, dei rating rossi e delle seghe mentali, che ci fa
una fic del genere nel mio repertorio? L’ho forse scritta per rovinarmi la
reputazione? Tipiche domande esistenziali destinate a rimanere senza risposta.
Dunque che dire di questo sfracello: tanto per
cominciare è una IkariShipping (ma va?), l’unica coppia di cui conosca il nome
assieme alla Palletshipping, per il semplice motivo che amo entrambe alla
follia e per quanto detto nell’introduzione a inizio pagina.
Beh, non proprio. Io AMO la Palletshipping, la
mia coppia preferita (oh, ma andiamo: Ash e Gary sono la cosa più kawai mai
vista in questo mondo dopo Ufo Baby e i cuccioli di cerbiatto, ma questa è
un’altra storia…), mentre ADORO le Ikarishipping perché è un po’ il traslato etero
della Palletshipping. Per capirci, Lucinda sarebbe Ash e Paul invece Gary,
stando a quel poco che ho visto della serie animata di Sinnoh e alla mia
opinabile opinione.
Il rating alla fine è giallo per via di qualche
parola forse un po’ troppo pesante e di qualche allusione (quella zozzona di
Paul sui completini intimi di Lucinda) un po’ spinta: e pensare che mi sarebbe
tanto piaciuto pubblicare una verde.
Detto questo mi dileguo. Mi raccomando fatemi
sapere che ne pensate, spendete mezzo secondo per dirmi se almeno vi è piaciuta
XD
Un bacio!
Shin