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Autore: ScarlettBennett    22/08/2011    4 recensioni
Saphira è una ragazza normale. Crede di esserlo. Ma la sua vita è piuttosto sorprendente. Le verrà strappata la vita che non ama, ma sopporta. Una nonna che sapeva defunta, il giovane e furbo Gilbert, degli antenati più famosi del previsto, una missione da compiere nel nostro tempo, un tempo di menti grette e stupide. Il misterioso Kaleb, un ragazzo senza passato ne futuro, fugace e perpetuo allo stesso modo. Dei poteri sconosciuti e la paura verso se stessi. Sei discendenti sparsi per il mondo e una minaccia invisibile quanto potente. Saphira è una ragazza normale. O almeno...così credeva.
Genere: Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Saphira di Camelot

La macchia del leopardo



Prefazione

A volte nascondersi fa bene. Dietro un albero se ti insegue un pazzoide con la motosega. Sotto il banco se è giorno d'interrogazione. Dentro l'armadio se hai voglia di fare lo spiritoso. O nel mio caso, nel primo posto che trovi per non finire come un tacchino arrostito. Ci si può nascondere da qualcosa che senti, dalla verità se hai mentito, dalla coscenza se hai sbagliato, dall'amore se non puoi viverlo. O nel mio caso, da un miscuglio di tutto ciò.
Eppure è buffo, nascondersi è sbagliato. Andrebbe affrontata ogni cosa.

O forse no. 








Nota dell'idiota: Ciao!! Ehm...allora, questa storia è la prima che pubblico qui su EFP, spero prima di una lunga serie. Sto facendo finta di essere una persona seria ma per ora, è meglio che non crediate -capiate- che sia pazza e voliate al CAPITOLO 1 :D (uuu quanti "ate" che ho messo o.o) Ciauuu E LUNGA VITA A SDHANKUT! 



Capitolo 1

Saphira Hayes


Saphira batté numerose volte la suola delle sue nuove Converse sull’asfalto, convulsamente. Prima o poi il verde sarebbe scattato! Certo poteva passare col rosso, ma c’erano un paio di problemi: innanzitutto i marciapiedi non si toglievano qualche metro: c’erano otto corsie che li dividevano. Inoltre dopo nemmeno il primo passo sarebbe stata ridotta a una frittata. Oh, finalmente il verde! Lei e la folla che si era creata attraversarono a passo veloce le innumerevoli strisce bianche, il tragitto fino alla riva opposta e sicura era così lungo che aveva paura riscattasse il rosso. Tutti i suoi compagni di traversata, la spingevano presi dalla fretta, spallate, calci, e con la scusa dell’essere estranei non le chiedevano nemmeno scusa.
Davvero non capiva come le persone potessero essere attratte dalle città caotiche e stressanti, una di quelle città era quella in cui viveva Saphira, una di quelle città era in particolare quella che lei odiava, era Bologna.
Meraviglioso e immenso cumulo urbano, piena di cose da vedere che probabilmente avrebbero affascinato chiunque, senza contare i negozi e i giardini...
Si, odiava Bologna. Dopo la prima occhiata, non ci aveva più visto nulla di incredibile.
Arrivò col fiatone e probabilmente un paio di lividi alla meta, ed era solo il primo isolato. Sospirò passandosi una mano tra i capelli, quanti guai le avevano causato quei capelli. Quante volte era stata presa in giro per quella chioma...così chiara da essere bianca. Innaturale di sicuro, ed era proprio per questo che la prendevano in giro. Come se non bastasse per aumentare l’autostima di una quattordicenne. Si aggiustò la tracolla in spalla e proseguì verso la fermata del bus.
Erano solo tre settimane che frequentava il primo anno di liceo e già non ne poteva più. Tanti, troppi compiti a casa. Decisamente più pagine di quante lei riuscisse a memorizzarne. Oggi aveva quattro ore, ottanta pagine, di cui quaranta non ne aveva studiate. Incrociò le braccia posandosi al palo delle fermate, non sapeva i nomi delle vie, lei. Era sbadata, distratta, con una brutta memoria. E nonostante vivesse lì da quando era nata sapeva a malapena i nomi delle maggiori attrazioni turistiche. Forse nemmeno quelle. Se le avessero chiesto indicazioni lei sarebbe scappata via, ed era anche successo un paio di volte. Ciò che le serviva necessariamente conoscere lo memorizzava, il numero del bus da prendere, il nome del suo ristorante preferito...
Per l’appunto il numero 19 si fermò davanti a lei e aprì le porte, salì con agitazione, non aveva studiato. Il problema mentre faceva i compiti era uno, uno e soltanto. La fantasia. Non era un vero fastidio per la verità, i suoi viaggi mentali erano l’unica cosa che la liberavano da quell’inferno dove viveva. Non era colpa sua se non riusciva a terminare di leggere la prima riga della pagina che già era dall’altra parte del mondo. Perfetto, l’autobus era totalmente pieno. La cosa peggiore era che era totalmente pieno di molti suoi compagni di scuola.
Saphira odiava le persone.
Era semplice il concetto.
Finora non aveva incontrato nessuno che potesse farle cambiare idea su quella che era la sua unica certezza. I bambini strillavano e rompevano le scatole. Decisamente non tra i suoi preferiti. I suoi coetanei e dintorni la prendevano in giro per i suoi capelli, oppure non le prestavano attenzione. Gli adulti erano qualcosa che facevano paura a Saphira. Doveva essere matura, eppure si sentiva così infantile, non riusciva a pensare che un giorno sarebbe diventata noiosa e seria come loro. Un brivido le passò lungo la schiena al solo pensiero. Non aveva molti amici, diciamo che non ne aveva proprio. A Bologna non era riuscita a stringere amicizia con nessun ragazzo o ragazza, non sapeva perché, non era una sfigata, questo lo sapeva. Lanciò un’occhiata a Giada “la Brufolosa”, lei era una sfigata, la chiamavano tutti così, lei non l’aveva mai insultata, non le interessava molto neanche di questo, perché sprecare fiato? Ma a lei non sarebbe piaciuto se l’avessero chiamata Saphira “la Brufolosa”.
Si guardò sformata nel palo di alluminio cui si reggeva per non cadere alle frenate dell’autista. Non potevano definirla secchiona, di certo non era un gioiello a scuola, e poi, qualche volta riusciva a chiacchierare anche con qualche essere umano, persino con quelli (tutti) che la insultavano: ma non si era mai fatta degli amici.
Come se non bastasse, Saphira, aveva il terrore degli animali. Qualsiasi tipo di animali, se vedeva un cane al guinzaglio di un passante tratteneva a malapena le urla, se ne vedeva uno randagio poi...per non parlare degli insetti! Una volta sua madre, un paio di anni prima, l’aveva convinta ad andare allo zoo per cercare di superare questa paura insensata. Lei aveva pianto come una poppante ed era rimasta traumatizzata da quel giorno. L’autobus frenò brutalmente e lei quasi inciampò, all’ultimo momento si aggrappò al palo con tutte le forze che aveva ed evitò di finire su qualcuno. Si trovava male sulle sue gambe, come se non si mantenesse bene. Scese dall’autobus di nuovo spinta dalla folla dei passeggeri, davanti alla scuola. Cammino con tranquillità, non era giusto che la maggior parte degli animali avesse dalle quattro alle mille e più zampe per reggersi in equilibrio.
-Ehi palla di neve! Anche oggi caduta nel talco?-. Lorenzo la superò correndo dandole una spallata, che, data la stazza si ripercosse sulla povera Saphira.
Situazione: caduta.
Luogo: scale.
Motivo: spallata.
Eventuali problemi: brutte ferite e figura del cavolo.
Sospesa nel vuoto mise per istinto un piede per terra, sentì ogni singola vibrazione del terreno quando la suola del suo piede sinistro toccò uno degli otto scalini, sentì anche i muscoli delle gambe che tiravano.
Poi tutto smise come era iniziato. Si raddrizzò e sbuffando si avviò a passo veloce verso la classe dalle pareti azzurre. Era da un po’ che le succedeva, nelle situazioni di anche piccolo pericolo era avvolta da una lucidità inumana, e riusciva ad evitare il peggio. Fuori sembrava un semplice movimento istintivo, ma Saphira non sapeva di essere la sola capace dei ragionamenti extrarapidi che il suo cervello metteva insieme.
Si era detta che era merito del relax delle vacanze, che tempo un mese e sarebbe tutto finito.
Buttò la tracolla sul banco in quinta fila, all’angolo. Era meglio così, aveva pensato quando era riuscita ad accaparrarsi quel posto, i professori si sarebbero accorti con più difficoltà dei suoi viaggi mentali e sarebbe stata tranquilla. Borbottò di malumore della maleducazione delle persone tirando fuori i libri.
-Ehi morta! Mi fai copiare i compiti di latino?-. Morta. Palla di neve. Già, perché lei non solo doveva avere i capelli bianchi, ma nonostante tutti i suoi sforzi, nonostante tutte le ore al sole la sua pelle restava cadaverica.
-Perché dovrei?-. Sputò acida contro Maria.
-Perché te l’ho chiesto io e perché sennò dirò a tutte le professoresse che la giustifica di ieri che hai portato per i compiti è falsa!-.
-Ma è vera!-. Esclamò col volto in fiamme (che comunque restava cadaverico se non per una sfumatura rosea appena accennata).
-Appunto-. La guardò furba e cattiva, già. Il rischio di trovare posto in ultima fila era quello di sedere accanto a bulli che non se ne fregavano nulla della tua esistenza, tu sei solo un loro strumento di copiatura e sono disposti a tutto pur di avere i tuoi quaderni. Le buttò il quaderno in faccia, lei lo acchiappò con un sorriso sornione su quel volto da stupida. -Brava Morta. E’ così che si fa-.
-Te lo faccio vedere io come si fa-. Mormorò mentre infilava le mani nella tracolla per non menarla.

La campanella la fece drizzare sulla sedia e con l’umore un po’ più solare mise la tracolla in spalla e uscì insieme ai compagni. Guardò con un po’ d’invidia i gruppi di amici. Non le interessava da chi erano formati quei gruppi, il solo fatto di più elementi in generale. Quello era che invidiava ai comuni mortali. Cercando di non rovinarsi il lunatico umore con la malinconia salì sull’autobus numero 19. Meno male, c’era meno gente e persino un paio di posti liberi, che fortuna. Le scappò un sorriso. Si sedette vicino al finestrino poggiando la tracolla stracolma di libri sull’altro posto libero accanto a lei, tanto nessuno ne sembrava interessato.
Mentre il veicolo partiva con uno sbuffo, chiudendo velocemente le porte si prese tra due dita un boccolo bianco, con qualche luccichio argenteo, erano davvero strani i suoi capelli, probabilmente come i suoi occhi. Erano azzurri, ma non di quel normale azzurro che aveva visto in molte altre persone, i suoi non erano sfumati, magari verso il bianco, o di un semplice colore. Lei aveva l‘iride di un azzurro opaco, poi il colore cambiava con prepotenza in un azzurro intenso, per poi terminare nel nero della sua pupilla. Innaturale come i capelli, Saphira non capiva che tutto in lei era strano e affascinante allo stesso tempo, per lei era imbarazzante quell’anormalità.
Rigirò tra le due dita il boccolo, guardò fuori dal finestrino e si rese conto di essere quasi arrivata, mise la ciocca di capelli dietro l’orecchio, prese la tracolla rischiando di perdere la fermata e sgusciò fuori proprio mentre le porte si chiudevano. Ma la tracolla non era stata altrettanto veloce...Saphira sentì la spalla tirare e si voltò appena in tempo per vedere il pullman che partiva con la sua tracolla infilata tra le porte. Perse l’equilibrio mentre sentiva che tra meno di un secondo sarebbe stata trascinata via.
Situazione: prossimo trascinamento per tutta la città.
Luogo: davanti casa.
Motivo: tracolla bloccata tra le porte dell’autobus.
Eventuali problemi: rimetterci la pelle mi sembra un problema.
Oltre all’analisi pensò anche alle ruote assassine di quel mezzo enorme.
Si riscosse e un attimo prima che l’autobus partisse si voltò tirando la tracolla con tutta la sua forza non avendo abbastanza secondi a disposizione per lasciarla. Come previsto la stoffa si strappò e Saphira guardò i suoi libri cadere malamente sul marciapiede ai suoi piedi. L’autobus fuggì via come un bambino che aveva appena fatto uno scherzo. Sospirò guardando la striscia di stoffa che teneva in mano, tutto ciò che rimaneva della tracolla.
Vide i libri tutti spiegazzati e i quaderni sfoderati pericolosamente vicini a un paio di pozzanghere.
-Merda-. Borbottò afferrandoli prima che si bagnassero fino all’irreparabile. Beh...almeno quell’aggeggio enorme e motorizzato non si era preso i libri...e nemmeno lei.
Armeggiò con le chiavi davanti al portone più del solito, resa impacciata da libri e quaderni. Più volte mentre saliva le scale le caddero i libri e rischiò di inciampare, aprì con sollievo la porta di casa, vuota. I suoi sarebbero tornati dai rispettivi lavori tra poco. Gettò nella spazzatura la striscia di stoffa, e gettò sulla scrivania i libri. Poi gettò se stessa sul letto sfatto e pieno di vestiti. Era probabilmente la ragazza più disordinata del mondo. Solo a volte linda e pulita, sotto minaccia di sua madre. Non che potesse poi vietarle così tanto. Non usciva mai, non c’era gusto ad uscire da soli; stupidate varie non ne combinava di certo, non fumava, non si drogava, nulla! La porta si aprì ma lei non si mosse di un centimetro: -Ciao!-. Gridò cercando dentro di sé la volontà di alzarsi. Aspettò la solita risposta di suo padre, suo padre trovava sempre un commento divertente o sarcastico quando lei non si degnava di alzarsi per salutarli. Cose come: “Non ti scomodare” oppure “Se vuole le chiamo la scorta per farla arrivare in cucina, o preferisce il maggiordomo?”. Un maggiordomo, per carità. Già era tanto se con i due stipendi dei suoi genitori riuscivano ad arrivare a fine mese, figurarsi prendere un maggiordomo...
I secondi passavano, ma Saphira si rese conto che suo padre non rispondeva, corrugò la fronte, strano. Di solito rispondeva sempre, persino quando era arrabbiato. La porta della sua camera, che somigliava più a un campo di guerra che a una camera, si aprì lentamente e spuntarono i suoi genitori. I volti scuri e forse...tristi?
Si drizzò subito a sedere, che diamine stava succedendo? Quelle faccie si trovano su persone a cui è morto qualcuno, ma loro non avevano parenti, ne a Bologna ne da nessun’altra parte del mondo. Amici lei non ne aveva, i suoi genitori si, qualche persona che anche lei conosceva e con cui aveva scambiato giusto qualche parola.
-E’ morto qualcuno?-. Chiese di slancio e suo padre sorrise appena. No, la risposta era no. Ogni tanto tendeva a pensare al peggio lei, e suo padre si divertiva a prenderla in giro su questo difetto. Sospirò di sollievo. Ma il sospiro le si mozzò in gola quando l’uomo si sedette sul materasso, fregandosene di schiacciare qualche indumento appallottolato. Sua madre incrociò le braccia e guardò la finestra cercando di distogliere lo sguardo da sua figlia. Brutta situazione. Decisamente brutta. Non capitavano mai brutte situazione in quella famiglia. Non brutte brutte, almeno.
-Saphira, io e tua madre dobbiamo dirti una cosa?-.
-Divorziate?-. Chiese senza riuscire a trattenere il suo peggior dubbio. Altro sorrisino; no, non era quello. Beh, secondo lei le due cose più brutte che potevano succedere erano quelle, il resto poteva superarlo.
-No, Saphira. Prima di sentire ciò che dobbiamo dirti, voglio che tu sappia che io e tua madre abbiamo pensato molto prima di prendere questa decisione. Crediamo che sia la cosa migliore da fare, anche se ci fa molto...male-. Mormorò suo padre, rimase di stucco. Suo padre, l’uomo che lei aveva sempre visto come la sicurezza fatta persona. Sempre imperturbabile, anche nei momenti più difficili. Vide con la coda dell’occhio sua madre non riuscire a trattenere un singhiozzo, in silenzio.
-Cosa...?-.
-Saphira, io e tua madre abbiamo deciso che è più giusto per te, andare a vivere da tua nonna-.
Sentì il suo cuore battere un colpo, poi perderne uno, poi riprese di nuovo a battere, ma in modo irregolare.
Era uno scherzo. Di certo. Suo padre faceva sempre scherzi.
Tutti i suoi nonni, sia materni che paterni erano morti prima che lei nascesse. Saphira guardò negli occhi suo padre, era così serio...
-Che cosa?-. Chiese con voce tremante. A quel punto subentrò sua madre.
-Mia madre, è ancora...viva-.

  
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