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Autore: Entreri    22/08/2011    18 recensioni
In quel momento, mentre arrancavano a fatica lungo il ripido scalone, finalmente erano solo Sorot e Galoth, non il Conte di Varices ed il Conte del Sirenmat, non il patriarca di Besali e l’ultimo degli Usen, non l’Eren del trono dorato ed il suo vassallo riottoso.
Due uomini cercano di venire a patti con il proprio passato, guardando al desolante spettacolo della propria amicizia in frantumi.
Classificatasi prima al concorso " Un giorno ameremo questo periodo della nostra vita che adesso odiamo..." indetto da (Gaea) sul forum di Efp
Genere: Drammatico, Fantasy, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Amare i propri demoni. Rappacificarsi con se stessi. Per non impazzire.

A Lollo e Ponchia.


Amare i propri demoni. Rappacificarsi con se stessi. Per non impazzire.



Sorot non aveva mai amato lo stile tardo primo impero del palazzo degli Usen a Naska; gli imponenti pilastri e gli ampi archi lo sovrastavano, opprimendolo con la loro pesantezza di nuda pietra, e in ogni corridoio o sala le alte volte nascondevano anfratti di tenebra che le candele non riuscivano a rischiarare, ombre che guizzavano disturbate dall'eco dei suoi passi.

Nonostante fosse ormai un uomo, un conte, l'imperatore, quel luogo riusciva ancora a farlo sentire il ragazzo che era stato un tempo; non importava che l'ultimo erede della celebrata stirpe degli Usen barcollasse ubriaco al suo fianco capace di reggersi in piedi solo grazie al suo sostegno, la dimora austera dei conti del Sirenmat avrebbe continuato a giudicarlo e a respingerlo.

Scacciò il pensiero con irritazione e cercò di sistemarsi il braccio di Galoth sulla spalla, in modo da poter reggere meglio il considerevole peso di quel corpo gigantesco, prima di incamminarsi lungo la scalinata. Si lamentò confusamente, ma Sorot lo ignorò, convinto che dopo aver tracannato tre misure di vino del Lai si perdesse inevitabilmente il diritto di lamentarsi.

«Lasciate, sire, me ne occuperò io. È pesante per voi.»

Sorot non si voltò, limitandosi a gettare velocemente lo sguardo alla propria destra per controllare a chi appartenesse quella voce rispettosa ma decisa. Non si stupì nel riconoscere il giovane capitano della guardia del Conte avvicinarsi con passo sicuro, un'espressione grave e risoluta sul volto lentigginoso. Sorot gli sorrise privo di benevolenza.

«Lo è, anche se non viene mai in mente a nessuno. Se chiedessimo la prima parola che sovviene alla mente circa il signore di Usen sarebbe grande, forte, virile, prestante o imponente. Le donnine frivole che lo vedono cavalcare per le vie si sussurrano fra loro “avete visto quanto è alto?” e non “chissà quanto deve essere pesante!”»

Il sarcasmo parve scivolare fra le pieghe del farsetto blu senza che alcuna traccia della sua amarezza vi restasse impigliata e il giovane si frappose fra lui e le scale con la risolutezza di chi compia il proprio dovere con dedizione.

«Vi ringrazio per la premura, capitano. Posso farcela da solo.»

Il giovane, non riusciva davvero a ricordare il suo nome anche se era certo di averlo sentito pronunciare da Galoth almeno una volta, non disse nulla e Sorot intuì non se ne sarebbe andato se non dopo avere preso in carico il proprio signore, il che gli fece rinsaldare istintivamente la presa.

«Trelag...»

Galoth non disse altro, cercando di sorreggersi autonomamente per qualche secondo, e parve che di altro invero non vi fosse bisogno, perché il capitano si scostò con un inchino, lasciando libero l’accesso al piano superiore. Prima che potesse andarsene, Sorot gli si rivolse.

«Torna nella sala grande e annuncia ai nobili che il banchetto è concluso.»

Trelag, Sorot trovò piacevole potergli finalmente assegnare il nome che fino a poco prima spingeva sulla punta della sua lingua, cercò lo sguardo del proprio signore prima di annuire, ma, dopo avervi trovato il riscontro che cercava, chinò il capo in segno di assenso e si avviò verso il salone.

Sorot sapeva perfettamente che non era abitudine di Galoth invitare i propri ospiti ad andarsene, ma non gli importava di suggerire implicitamente la paternità del proprio ordine a tutta la nobiltà festante; voleva solo che se ne andassero a spettegolare da un’altra parte, malignando sfrenatamente sull’imperatore che si abbassava a portare a letto il membro del consiglio che più aveva avversato la sua elezione, quasi fosse un comune servitore. Facessero pure, non poteva impedirlo, solo altrove, se ne andassero lontano, così che lui potesse dimenticarsi di loro e di quello che le loro illazioni gli ricordavano. Non potevano capire che in quel momento, mentre arrancavano a fatica lungo il ripido scalone, finalmente erano solo Sorot e Galoth, non il Conte di Varices e il Conte del Sirenmat, non il patriarca di Besali e l’ultimo degli Usen, non l’Eren del trono dorato e il suo vassallo riottoso. L’aveva riportato a casa barcollante infinite volte nella loro gioventù, prima che i loro padri morissero lasciando loro in eredità due contee e la storica inimicizia fra le proprie casate; prima che lui riuscisse a strappare al Consiglio dei Dieci l’elezione al seggio che era stato di suo padre, prima di Anneleise, prima di Abigal, prima di Merith e della guerra che si erano quasi mossi l’un l’altro. Era stato diverso allora, quando Galoth beveva per amore dei bagordi e non per affogare nel vino i propri lutti, quando ancora non c’era nulla di stupido nell’amarlo così tanto, quando ancora credeva che non si sarebbero mai traditi ed entrambi si ritenevano belli e invincibili.

Percorsero con lentezza l’intera scalinata, entrambi nuovamente taciturni e avvolti da un’amara nostalgia. Svariati moccoli irradiavano di luce tremula i numerosi ritratti disseminati nel grande salone del piano superiore e loro passarono, come se stessero camminando attraverso una perenne veglia funebre, davanti ai più eminenti o recenti membri della stirpe degli Usen; da Hartaigen il fratricida, detto Arbitrio, sino ai fratelli di Galoth in un infinito succedersi di teste bionde, occhi chiari e severa grandezza. Fuggì lo sguardo giudice delle tele verso laddove la parete era ancora nuda e non poté fare a meno di domandarsi se quella lunga sala non fosse stata concepita per ospitare i ritratti dell’intero lignaggio degli Usen e quello spazio vuoto non fosse destinato ad inghiottire tutti gli Usen a venire. Affrettò il passo d’istinto, come se con questo potesse impedire a quel vuoto di rivendicare Galoth per sé nel posto che gli spettava accanto ai suoi antenati.

Fece per spingerlo verso l’angusta scala a chiocciola destinata alla servitù, cui tante volte erano ricorsi negli anni passati per evitare di percorrere il lungo corridoio del terzo piano, spuntando direttamente nei pressi delle stanze di Galoth.

«Non lì.»                                                                            

Sorot fece una smorfia quando Galoth glielo sussurrò all’orecchio, avvedendosi che, come avrebbe dovuto intuire da solo, le stanze verso le quali dovevano dirigersi erano gli appartamenti del conte, che un tempo erano appartenuti al padre di Galoth. Non vi era mai entrato, ma appena varcò la soglia il disordine compulsivo che neppure la più ligia delle attendenti era mai riuscita a sconfiggere del tutto gli parlò inequivocabilmente di Galoth, strappandogli un sorriso. Alle pareti facevano bella mostra di sé i disegni in inchiostro rosso raffiguranti sezioni di navi donati numerosi anni addietro dal conte del Malinlan al proprio giovane figlioccio nato e cresciuto a Nord, lontano miglia e miglia dal mare. Si guardò intorno, cercando una specchiera con brocca e catino fra una selva di mobili in legno pregiato, le cui rifiniture avevano probabilmente impiegato più di una generazione di ebanisti; non era dove se la sarebbe aspettata, a lato del letto, ma vicino all’ampio terrazzo da cui filtrava flebile la luce della luna. Spinse senza gentilezza la testa di Galoth nel bacile, rovesciando successivamente su di lui l’intero bricco di acqua gelida; Galoth gridò e si tirò indietro con l’inevitabile risultato di bagnare il pavimento e abbandonare il sostegno di Sorot, che gettò contro di lui anche l’acqua che si era depositata nel catino.

«Vaffanculo!»

Sorot lo fissò soltanto, lasciando che lo sguardo severo delle proprie iridi chiare si incuneasse negli occhi scuri di Galoth. Era quantomeno inusuale un conte del Sirenmat con occhi e capelli neri e per questo, Sorot ricordava, Galoth era stato oggetto del dileggio del proprio fratello maggiore e degli iniziali violenti sospetti del proprio padre. Galoth aveva odiato sua madre per quell'eredità inopportuna e Sorot ne aveva riso, motteggiandolo divertito, visto che non vedeva come potesse lamentarsi di quei grandi occhi tenebrosi in cui le fanciulle sembravano perdersi. Ora che era costretto a vedere quegli stessi occhi incastonati per sempre nel volto del proprio primogenito, non ne rideva più.

«Cosa ci fai qui?»

La domanda squarciò il silenzio, forte del frastuono che l'amarezza conferisce alle parole sommesse, e Sorot tentò inutilmente di non ferirsi tentando di tenere insieme i frantumi affilati della propria illusione appena andata in pezzi.

«Sei ubriaco e ti accompagno a letto.»

Non era una risposta, non davvero, Sorot lo sapeva, tuttavia scelse di nascondersi dietro quella replica scialba, sperando che Galoth lasciasse perdere e gli permettesse di tornare a raccontare a entrambi quella bugia falsamente rassicurante e dolorosamente dolce in cui erano immersi fino a poco prima. Com'era uso fare, tuttavia, in ogni aspetto della propria vita, Galoth non tornò sui propri passi e lo incalzò quasi sussurrando con la sua voce profonda e vibrante.

«Perché?»

Sorot si domandò se l'interrogativo avesse altro scopo oltre quello di arrecare a entrambi quanta più sofferenza possibile e per un istante, prima di respingere l'ipotesi, ne ebbe la certezza.

«È quello che ci si aspetta da un amico.»

Galoth lo spinse senza preavviso, gli occhi ardenti di collera, e Sorot incespicò andando a sbattere contro il mobiletto, catino e brocca caddero al suolo mentre entrambi trovavano un doloroso appoggio contro il muro.

«E quali splendidi amici noi siamo! Ho messo incinta tua moglie e tu hai ucciso la mia, hai cercato di uccidermi e devo ancora ricambiare il favore, ma a questo punto, quando lo farò, dovrò ricordarmi di brindare all’amicizia».

Era bello, disperato e ubriaco da far male e quando Sorot lo guardò pensò di non averlo mai amato e odiato così tanto, mai al punto di non capire più quale fosse la differenza. Lo colpì.

Galoth incassò il pugno in pieno volto senza neppure cambiare espressione, barcollò semplicemente indietro, mandando la propria schiena a impattare contro la colonna del letto a baldacchino.

Avrebbe voluto urlargli contro con tutto il fiato che aveva, soffio vitale compreso, tuttavia si sentiva così stanco e arrabbiato e triste che le sue parole risuonarono deboli, come se avessero dovuto percorrere una distanza infinita dentro di lui prima di poter emergere dalle sue labbra.

«Non puoi proprio lasciarmi fingere che non sia cambiato niente?»

La smorfia sarcastica di Galoth gli avrebbe fatto male se non fosse stata la sola forma di sorriso concessagli negli ultimi nove anni. Nove anni, sette mesi e tredici giorni: da quando il conte del Sirenmat si era incontrato con l’imperatore per concordare il ritiro degli eserciti stanziati in massa al confine fra il Sirenmat e l’Erenlan, ponendo fine alla minaccia di guerra civile che aveva turbato i sonni di tutti i sudditi dell’impero dall’attentato fallito alla vita del signore di Usen cui era seguito il massacro degli ambasciatori del Varices.

«Non sono io che non ti lascio fingere. Sei tu che mi guardi e non vedi più la stessa cosa.»

L’affermazione aleggiò nell’aria per un lungo istante prima che Galoth parlasse di nuovo con lo stesso tono grave e lontano.

«Quand’è stata l’ultima volta che hai visto il tuo migliore amico e non il padre del bastardo di Anneleise? Quante volte ci hai pensato dalla sala fino a qui?»

Aveva ragione, ovviamente ci aveva pensato, ma come era possibile non pensarci quando Abigal se ne stava in agguato, facile da scorgere, nei lineamenti di Galoth, così somigliante al proprio padre naturale da ferire lo sguardo? Gli occhi scuri di Galoth e il naso perfetto di Anneleise, il volto ovale di sua moglie e gli zigomi alti del suo migliore amico, le spalle ampie del conte del Sirenmat e le mani affusolate dell’imperatrice gli erano a tal punto insopportabili, armonicamente combinati nelle fattezze di Abigal, da rendergli difficile la vista e il ricordo degli originali.

Galoth prese il suo silenzio come un assenso e continuò a rivolgerglisi con la stessa acredine amara e stanca.

«Se brami una bugia confortante, Sorot, dovrai inventarne un’altra.»

«Per esempio?»

Evitò di guardarlo in viso mentre gli rispondeva, le labbra piegate appena nell’eufemismo di un sorriso; seduto scompostamente sul pavimento, con la schiena poggiata al letto e lo sguardo incerto, rassegnato e un po’ triste puntato lontano verso il frammento di cielo contenuto dalla finestra alle sue spalle, per la prima volta assomigliò davvero al ragazzo che era stato per lui come un fratello.

«Fingi di avermi perdonato.»

Furono le parole di Herald il Traditore e non la sua spada ad uccidere Lerghen il Giusto, ma eventi del genere sono relegati nella leggenda, perché se le parole avessero avuto il potere di uccidere, Sorot lo sapeva, lui sarebbe morto in quel momento. Perché a tormentarlo nel profondo, più ancora del tradimento di Galoth, era il fatto di averlo perdonato. Non era importato che gli avesse portato via, prima ancora di decidere di concedersi a lei, l’amore della sua vita, né che lei si fosse lasciata morire dopo essere stata respinta definitivamente. Nel profondo del proprio cuore l’aveva sempre perdonato; quello che non riusciva a perdonare era se stesso che non avrebbe mai dovuto amarlo così tanto. Era per giustificare quel perdono e non per desiderio di vendetta, che aveva cercato di ucciderlo, finendo soltanto per stroncare la sua giovane seconda moglie, ma questo a Galoth non poteva dirlo, così rimase in silenzio guardandolo fissare altrove, cercando una risposta che temeva di non poter trovare.

«Sono successe tante cose e non ho avuto nessuno a cui raccontarle. Siedi accanto a me e fingi di ascoltare, fingi che ti importi ancora, non della persona che ricordi, di me.»

Galoth di Usen non avrebbe mai aggiunto “te ne prego”, ma Sorot lo sentì aleggiare nella piega delle sue sopracciglia e si accorse con stupore che, forse, lo stava torturando con il proprio silenzio quanto lui lo torturava con le proprie parole. Avrebbe potuto cogliere il suo suggerimento: raggiungerlo sul pavimento e parlare con lui come una volta, non ci sarebbe stato nulla di degradante se solo avesse finto che il proprio affetto fosse una bugia. Così, mentre Galoth continuava a guardare altrove, sul volto la stessa espressione di quando gli aveva confessato che suo padre aveva iniziato a picchiare sua madre per colpa del colore dei suoi capelli, Sorot scivolò accanto a lui, poggiando la schiena al letto e puntando lo sguardo verso le stesse stelle di Galoth mentre le loro spalle si sfioravano appena.

«Non sei venuto al funerale.»

Sorot sussultò, pensando a tutte le pire che Galoth aveva innalzato e chiedendosi a quale si riferisse; forse all’ultima, forse a tutte.

«Tu non sei venuto a quello di Anneleise.»

Galoth si voltò di scatto verso di lui, come se pronunciare il suo nome contravvenisse a una qualche basilare regola non scritta.

«Non pensavo mi volessi.»

«Tu mi avresti voluto?»

Riportò con lentezza lo sguardo alla finestra e Sorot intuì che si vergognava della risposta, per un attimo ebbe l'impressione che tutto sommato fossero ancora più simili di quanto si ostinavano a credere.

«Mio padre, Isolle, mio fratello, Merith, mia madre, Anel, muoiono tutti, Sorot. Non resta nessuno.»

 Fosse stato sobrio non avrebbe mai palesato tanta cupa disperazione o forse lo avrebbe fatto lo stesso, Sorot non avrebbe saputo dirlo, perché in tutta la sua vita non l'aveva mai visto così infelice, sebbene, infelice, Galoth lo fosse sempre stato. Fu tentato di dirgli che lui era lì, tuttavia sarebbe stata una bugia, perché lui non c'era stato in quegli anni, non era rimasto al suo fianco a guardare il fuoco consumare tutte quelle pire e Galoth non era mai stato il genere di persona capace di accorgersi di essere amato da lontano.

Non riuscì a guardarlo, perché se l'avesse fatto non avrebbe potuto impedirsi di abbracciarlo e piangere e questo un imperatore non può farlo, nemmeno quando si suppone stia fingendo.

«Non è andata come la immaginavamo, vero?»

E come l'avevano immaginata, ridendo e cavalcando a perdifiato nei giorni passati della loro gioventù! Piena di guerre, d'amore, di gloria e di potere. Insieme. Dimenticandosi che c'è un solo trono d'oro nel consiglio, un solo Eren per tutto l'impero, dimenticandosi per amore della loro amicizia di quello che l'avrebbe fatta finire.

«Non ho ottenuto quello che volevo, ma in fondo me lo aspettavo.»

«Curiosamente le cose che ho ottenuto sono quelle che odio di più. Da quando sono diventato imperatore tutto ha cominciato a precipitare.»

Non l'aveva mai ammesso ad alta voce prima e gli parve che fosse un altro a confessare nella notte quella verità amara, domandandosi come fosse possibile che tante stelle si affollassero in un così piccolo ritaglio di cielo e tante sofferenze in un così piccolo periodo di tempo; come fossero finiti ad odiare le loro vite.

«Sarà sempre così?»

«No. Un giorno ameremo questo periodo della nostra vita che adesso odiamo. Un giorno dovremo riappacificarci con noi stessi, se non vogliamo impazzire.»

La risposta lo lasciò stupito; sarebbe stata incoraggiante, forse, se Galoth non l'avesse pronunciata con uno strano connubio di speranza e sarcasmo, unito a quell'inclinazione particolare della voce che dedicava alle citazioni.

«Chi l'ha detto?»

«Mio padre. Riesci a immaginartelo?»

No, non ci riusciva. Ricordava Thorghil di Usen, assiso sul proprio seggio di pietra con la stessa espressione ieratica delle statue degli antichi imperatori e non riusciva proprio a figurarsi quell'uomo duro e austero come le montagne pronunciare una frase del genere. In verità sapeva che l'immagine che serbava di lui non era affatto veritiera; Galoth gli aveva raccontato, ubriaco considerevolmente più di adesso, quanto suo padre fosse prono a violenti, gelidi attacchi di collera, quanto schiavo di una gelosia immotivata, dipingendo il quadro di un grande guerriero sovrastato da demoni più grandi di lui. Era la prima volta, tuttavia, che Sorot si trovava costretto ad attribuire a quella figura distante e misteriosa un'ombra di umanità.

«E cosa intendeva?»

Galoth rise e Sorot colse nel suono tutto l'affetto rancoroso che portava a suo padre; si domandò per un istante se non parlasse, ormai, anche di lui con quel tono.

«Non ne ho idea. Che dobbiamo accettare i nostri demoni e tenerceli. Che siamo quello che siamo. Pensavo fosse solo una scusa, ma forse è vero.»

Gli parve amaro ma equo, sarebbe stato persino pacificante se solo non fossero stati quello che erano.

«E c'è riuscito?»

Non avrebbe saputo dire con esattezza perché gli importasse, ma Sorot desiderava ardentemente saperlo.

«A rappacificarsi con se stesso?»

Annuì soltanto, voltandosi verso Galoth per osservare la sua espressione.

«Non saprei dirti. Le sue ultime parole sono state per mia madre, erano parole d'amore anche se non sono stato capace di sentirvi alcuna pace, solo rimpianto.»

Una smorfia di disprezzo increspò la nobiltà del suo profilo e Sorot seppe che stava per confessare qualcosa di sgradevole.

«Non le ho riportate. Credevo fosse impossibile amare qualcuno e fargli comunque del male. Ironico, no?»

Galoth si voltò per guardarlo negli occhi e Sorot dovette distogliere lo sguardo, cercando di non pensare a quanto invece si finisca sempre per ferire profondamente proprio le persone che si amano.

«E lei non le meritava. Non dopo averlo avvelenato per due anni.»

Sorot sgranò gli occhi per lo stupore, Galoth sorrise stancamente.

«Mi aiuteresti ad alzarmi? Voglio stendermi a letto, mi sento uno schifo.»

Sorot cercò qualcosa da dirgli, coltivando, forse scioccamente, la flebile speranza che le parole giuste avrebbero potuto penetrare nelle loro anime e saldarne le crepe laddove si erano spezzate. Non trovò nessuna frase confortante, tuttavia, così si alzò, porgendogli il braccio.

In realtà, si avvide, non aveva più bisogno del suo aiuto, ma glielo diede comunque come risarcimento per le parole che non era riuscito a scovare. Si sedette accanto lui sul grande letto, percependo il materasso tremare sotto la coltre di lana quando Galoth vi si abbandonò contro del tutto. Rimasero in silenzio per un tempo che gli parve infinito, come se avessero esaurito tutto quello che potevano dirsi o si fossero resi conto che tutte le parole del mondo non sarebbero state sufficienti. Tuttavia, prima che Galoth si addormentasse, cullato dai morbidi cuscini in seta di Darme, Sorot non poté fare a meno di porre la domanda che quel momento di quiete aveva generato in lui.

«Dovremmo amare i nostri demoni, quindi? Per rappacificarci con noi stessi?»

Galoth non si sollevò ma, anzi, chiuse gli occhi, allargando le braccia per occupare tutto l'ampio letto.

«Accettare i nostri demoni. Li amiamo già, altrimenti non avrebbero alcun potere su di noi.»

Sorot lo fissò intensamente, un dolore diverso dal solito, più puro, più calmo, a scuotergli lo spirito.

«Accettare di amarli.»

«Siamo ciò che siamo. Amiamo ciò che amiamo.»

Si accorse di stare piangendo silenziose lacrime liberatorie; amava il demone dagli occhi scuri che giaceva accanto a lui e, per la prima volta nel corso di anni, riuscì a non farsene una colpa.

Indugiò, taciturno e immobile, confrontandosi stupito con quei nuovi pensieri mentre il respiro di Galoth si faceva lentamente più regolare. Sospettò di essersi finalmente assolto e agognò un lungo sonno ristoratore. Forse quel sentimento non sarebbe durato e all'indomani avrebbe di nuovo odiato la propria vita, in quel preciso momento, tuttavia, si sentiva in pace con se stesso e al riparo dalla pazzia.

«E tu mi ami, Galoth, come ti amo io?»

Lo sussurrò nell'oscurità prima di andarsene, sapendo che lui, ormai addormentato, non avrebbe risposto.

***

«Più di quanto tu possa immaginare.»

La risposta non gli era uscita dalle labbra, il suo corpo già vinto dall'immobilità del sonno, così la ripeté in quel momento alla luce del mattino, chino accanto al corpo sanguinante di Sorot, fissando i suoi occhi azzurri ormai privi di sguardo. Non era una menzogna, a Sorot non aveva mai mentito; aveva finito per fargli del male infinite volte, ma non gli aveva mai mentito.

Da giovane aveva pensato che non fosse possibile fare del male a qualcuno che si amava, tanto meno amare qualcuno e ucciderlo, ora sapeva di essersi sbagliato; aveva amato Sorot più di chiunque altro, ma questo non gli aveva impedito di accompagnarlo durante la battuta di caccia e fracassargli il cranio. Avrebbe voluto abbracciare il suo cadavere e piangere, ma aveva perso la capacità di farlo molto tempo addietro, così rimase a guardarlo, scostandogli i capelli dal volto simmetrico, attendendo che qualcuno accorresse al richiamo che aveva lanciato.

Avevano finto di perdonarsi solo la sera prima, ma la verità era che, per quanto Galoth non avesse smesso di amarlo neppure per un istante, gli uomini del Nord non erano fatti per perdonare. Il suo cuore fremeva ancora al pensiero della bottiglia di vino avvelenato che era stata recapitata alla sua tavola dieci anni prima. Sorot, il suo migliore amico, non era stato in grado di perdonarlo e, per amore di una sciocca ragazzina viziata, aveva cercato di liberarsi di lui ammazzandolo come un ratto. Il suo amore non aveva fatto che alimentare quella collera ardente e solo in quel momento, solo davanti alla morte, la sentì scivolare lentamente fuori dalla propria anima, lasciandolo solo con il proprio tormento e con il desiderio di sdraiarsi accanto a lui sull'erba e morire a propria volta. Non lo fece, lo strinse soltanto fra le braccia, udendo il suono di cavalli in avvicinamento. Ascoltò i cavalieri approssimarsi e smontare di sella, ma non li degnò di un'occhiata.

«Che cosa è accaduto?»

Un abominio, avrebbe voluto rispondere, una condanna, la propria. La bugia del proprio padre si palesò ai suoi occhi, dopo quell'atto non avrebbe più potuto rappacificarsi con se stesso, era destinato ad impazzire.

«L'imperatore è morto.»


 

 



Note dell'autrice: Questa storia si è classificata prima al concorso per cui è stata scritta "Un giorno ameremo questo periodo della nostra vita che adesso odiamo..." indetto da (Gaea) sul Forum di Efp, ottenendo la seguente valutazione:

65/65

Correttezza grammaticale: 5/5 punti
Per correggere le storie le ho lette un paio di volte, commentando in rosso errori e cose non buone e in verde tutto quello che mi piaceva; ecco, la tua storia ha un solo segno rosso ( non un errore ma una scelta stilistica che non mi è piaciuta…salvo poi accorgermi di fare sempre lo stesso quando scrivo XD) e un sacco di sottolineature verdi. Sicché…

Stile e Originalità: 30/30 punti
Originalissima. Epica. Bella. Stile fantastico, non è facile scrivere qualcosa di storico/fantastico rendendolo attuale ma allo stesso tempo calato nel suo tempo. E poi ti prende davvero. I monologhi sono perfetti, certe frasi penso me le appunterò da qualche parte perché sono superbe. Soprattutto quelle dette da Galoth.

Caratterizzazione dei personaggi/del personaggio: 10/10 punti
Questi due tizi sono splendidi, egoisti, dolenti e eroici. Sembrano rozzi regnanti, ma hanno l’animo più raffinato di molti filosofi. E provano un amore disperato e tragico degno delle saghe più famose.


Sistemazione della citazione: 15/15 punti
Frase intera, inserita perfettamente, CAPITA perfettamente: la spiegazione che dopo poco ne dà Galoth è il degno completamento. È perfetto. 

[ Si tratta come è intuibile della frase riportata in corsivo. Tratta dal libro "Limit" di Frank Schaetzing ]

Giudizio personale: 5 /5 punti
L’ho amata dalla prima lettura, ne ho amato personaggi. Meraviglioso.

 

 

 

La storia ha partecipato anche  al concorso " Storie da piangere" Indetto da Balckhole95 classificandosi seconda

Grammatica e lessico:10/10

Stile e lessico: 9,50/10

Originalità: 10/10

Gradimento personale:9,50/10



La storia ha partecipaeto al concorso "And the Winner is..." ricevendo una nomination all'Oscar per la miglior coppia, Premio speciale Lacrima d'oro

e vincendo l'Oscar al Miglior Dialogo con le seguenti parole «Oltre alla estrema capacità stilistica dimostrata in questo pezzo, l'intensità di queste poche battute colpisce immediatamente il lettore, facendogli desiderare di leggere il pezzo ancora e ancora. Trovo la frase: “Li amiamo già, altrimenti non avrebbero alcun potere su di noi” assolutamente epica e del tutto vera»


 


   
 
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