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Autore: Fiamma Drakon    24/08/2011    1 recensioni
Per Inghilterra non c’era niente di meglio per cominciare la giornata di un buon thé nero dall’aroma intenso - il Kenilworth era il suo preferito, anche se spesso beveva il Nuwara Eliya o altri ancora.
Andare in cucina e mettere il bollitore sul fuoco era la prima cosa che faceva ogni mattina appena si alzava dal letto.
Da quando America era diventato il suo fratellino, Inghilterra aveva preso l’abitudine di iniziare la giornata assieme a lui: aveva smesso di preparare il servizio da thé sul tavolino della veranda adiacente la cucina ed aveva cominciato ad apparecchiare il tavolo nella stanza suddetta, visto che era più spazioso, adatto ad ospitare più d’una persona.

[UsUk - scritta per la community 12_teas]
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: America/Alfred F. Jones, Inghilterra/Arthur Kirkland
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nostalgic flavor of black tea Per Inghilterra non c’era niente di meglio per cominciare la giornata di un buon thé nero dall’aroma intenso - il Kenilworth era il suo preferito, anche se spesso beveva il Nuwara Eliya o altri ancora.
Andare in cucina e mettere il bollitore sul fuoco era la prima cosa che faceva ogni mattina appena si alzava dal letto.
Mentre l’infuso era sul fornello, il suo aroma si spandeva nella stanza ed oltre, invadendo completamente la casa, mettendo il padrone piuttosto di buon umore.
Il thé era l’unica cosa che era in grado di preparare senza rischiare l’avvelenamento: quando si trattava di cucinare non era capace di fare nient’altro che schifezze immangiabili.
Per questo faceva sempre colazione solo ed esclusivamente con la sua amata bevanda.

Da quando America era diventato il suo fratellino, Inghilterra aveva preso l’abitudine di iniziare la giornata assieme a lui: aveva smesso di preparare il servizio da thé sul tavolino della veranda adiacente la cucina ed aveva cominciato ad apparecchiare il tavolo nella stanza suddetta, visto che era più spazioso, adatto ad ospitare più d’una persona.
In realtà alla giovane colonia non piaceva affatto la bevanda e a stento riusciva a patirne perfino l’odore; tuttavia, si sedeva comunque a tavola col più grande a far colazione - provando a mangiare ciò che Inghilterra si offriva di cucinargli con tutto l’impegno e la caparbietà che aveva.
Incredibilmente apprezzava anche ciò che per l’inglese non era etichettabile nemmeno col termine di “mangiabile” - anzi, sembrava addirittura entusiasta di mangiare cosa gli preparava il maggiore, per cui quest’ultimo non vedeva motivo di privarlo di ciò.
Da un momento di solitaria tranquillità in compagnia di una tazza di thé, la colazione si era trasformata in un momento di pace e serenità “familiare” durante il quale i due fratelli discutevano di un po’ tutto con amorevole comprensione e affetto.
Col passare del tempo, però, cominciarono ad arrivare i primi attriti, che via via divenivano sempre più assidui.
Le discussioni tra i due si accendevano sempre più di frequente ed ogni argomento diventava pian piano una polveriera pronta ad esplodere non appena gli si fosse presentata a cospetto una miccia accesa.
La colazione si trasformò gradualmente in una specie di battaglia volta a far prevalere le proprie idee su quelle dell’altro.
La situazione degenerò sempre più finché non giunsero al cosiddetto “punto di rottura”.
La Guerra d’Indipendenza Americana.

Da quando Alfred si era dichiarato indipendente - fatto accaduto circa cinque mesi prima - al mattino in casa di Inghilterra regnava un silenzio piuttosto strano, quasi surreale. Il padrone non si era ancora abituato al non veder più l’americano gironzolare per casa durante la sera o sentire la sua voce mentre giocava in giardino.
Arthur, comodamente ed elegantemente seduto al tavolino nella veranda - al quale aveva fatto ritorno dopo la separazione dal “fratello” - osservava la cucina sovrappensiero, sorseggiando il suo thé mattutino - stavolta era un Panyong, una varietà dal sapore decisamente dolce che però non gli dispiaceva affatto.
Quel particolare thé gli rievocava alla mente reminiscenze che in quel periodo avrebbe desiderato lasciare sepolte nei recessi più remoti e profondi della sua memoria: il Panyong era il thé che aveva bevuto più spesso quando con lui c’era ancora la giovane colonia.
Se si concentrava abbastanza riusciva ancora a udire il rumore dei passi strascicati di Alfred che si presentava a colazione mezzo rintontito dal sonno, con i capelli arruffati e lo scollo della camicia del pigiama storto, spostato verso una spalla.
Inghilterra bevve un altro sorso mentre seguiva con lo sguardo l'ombra di un America assonnato che, sbadigliando, prendeva posto a tavola per mangiare un piatto di uova e pancetta che solo lui osava definire “squisite”.
Kirkland scosse la testa.
«Appartiene ad un passato ormai lontano. Smettila di rivangare queste cose!» si rimproverò, mentre beveva un altro sorso di thé.
Osservandone il colore intenso, gli riapparve alla mente la volta in cui Alfred provò ad assaggiare il Panyong.
Quand’era più giovane l’americano era solito assaggiare i nuovi tipi di thé che vedeva bere al suo fratellone, ma poi crescendo aveva perso l’abitudine anche a causa del divario di gusti che si era aperto tra loro.
A lui il thé non piaceva, men che meno quelli dal sapore deciso e l'aroma forte come i thé neri. Arthur alla fine aveva dovuto farsene una ragione.
La volta del Panyong l’inglese la ricordava bene: il giovane Jones aveva assunto un'espressione disgustata e aveva storto la bocca in una buffa smorfia.
«Bleah, è troppo dolce...!» aveva esclamato con gran disappunto.
Inghilterra sorseggiò altro thé, spostando lo sguardo dalla cucina al giardino dietro di sé nel tentativo di volgere ad altro l'attenzione dei suoi pensieri, senza successo: anche in quel giardino conservava ricordi di America.
«Devo smetterla di pensare a lui» si disse, scuotendo la testa «Non ho motivo di torturarmi così! Ormai non è più qui!».
Si domandò perché continuasse a pensarlo, nonostante i mesi che erano trascorsi dalla loro separazione. Non erano più vincolati dal rapporto “madrepatria-colonia”, eppure per qualche motivo non riusciva a dimenticarlo.
Quella volta era stato il thé a ricordarglielo, ma gli succedeva anche con altre cose, come una stanza, l’assenza di un oggetto.
L’inglese bevve ancora qualche sorso, gli ultimi rimasti nella tazzina, sforzandosi di cancellare qualsiasi pensiero dalla sua testa, miracolosamente riuscendoci.
In quello stesso momento sentì picchiare vigorosamente sulla porta, come se chiunque ci fosse dall'altra parte stesse cercando di sfondarla a mani nude - un compito alquanto arduo, considerato che era piuttosto spessa e di quercia.
Con uno scarto di qualche secondo udì una voce familiare gridare: «Inghilterra! Inghilterra!».
Poco mancò che l’interessato soffocasse sentendosi chiamare.
«America...?!» esclamò tra sé e sé, stupito: cosa era venuto a cercare?
Era davvero giornata: prima non riusciva a distogliersi dai ricordi che conservava di lui, poi quest’ultimo veniva di persona a cercarlo - a casa, per di più: non si era più fatto vivo da quando si era dichiarato indipendente, per cui era ancor più sorprendente quel suo ritorno.
Chissà, magari era tutta colpa del Destino che, malvagio, si divertiva a giocare con lui.
L’inglese tossicchiò, alzandosi e tornando dentro la cucina, posando la chicchera ed il correlato piattino su un ripiano.
Prese fiato e coraggio e si diresse verso il soggiorno, mentre la voce di Alfred ancora risuonava al di sopra dei suoi poderosi colpi sull'uscio.
«Okay, ho capito! Arrivo!».
Quando andò ad aprire e si trovò di fronte America, Inghilterra rimase senza parole. Non per la sorpresa - anche se era tanta - bensì perché non sapeva proprio cosa dire.
Le loro abitudini e il loro modo di pensare era completamente differente, in aggiunta al fatto che erano cinque mesi che non si vedevano.
In quel periodo - constatò Inghilterra con una punta d’astioso risentimento - sembrava che Alfred fosse cresciuto ancora, superandolo di netto in altezza.
L’americano gli sorrideva dall’alto in basso in un modo che l’inglese non avrebbe esitato a definire idiota, però sembrava che anche la sua loquacità fosse stata superata e messa a tacere dalla tensione del momento.
Nessuno dei due si aspettava un rincontro così presto - se cinque mesi potevano essere definiti un tempo “breve”.
Dopo qualche secondo di tombale silenzio, Inghilterra si ricordò d’essere impalato sulla porta di casa, così si decise a parlare.
«Che vuoi?» esordì, scorbutico come al solito, deviando altrove lo sguardo: proprio non riusciva a tollerare di dover alzare gli occhi per guardarlo in faccia.
America fece per replicare, ma l’altro lo interruppe: «Se è una cosa lunga, vieni dentro».
E gli voltò le spalle senza attendere risposta, avviandosi verso il soggiorno.
Alfred fece capolino all’interno, poi oltrepassò la soglia e seguì il padrone di casa.
Era passato del tempo dall’ultima volta che era stato lì, eppure non era cambiato proprio niente: l’arredo era tale e quale a quello dei suoi ricordi.
Non appena giunse nel soggiorno, un odore che riconosceva distintamente gli giunse al naso.
«Questo è Panyong» constatò senza pensare, collegando immediatamente l’aroma a quello percepito innumerevoli volte tempo addietro.
Quell’odore risvegliò in lui una profonda sensazione di nostalgia per la sua infanzia che fino ad allora non aveva mai provato. Era strano trovarsi nel luogo dov’era stato cresciuto e desiderare di ritornare indietro ai tempi di quand’era piccolo, prima della sua dichiarazione d’indipendenza.
Inghilterra si sorprese che se ne ricordasse ancora, visto il suo astio manifesto per la bevanda.
«Sì, lo stavo bevendo prima» lo liquidò in fretta, senza tante cerimonie, mettendosi a sedere ad un’estremità del divano.
Alfred prese disinvoltamente posto al capo opposto, piegandosi poi in avanti per appoggiare i gomiti sulle ginocchia.
Cadde un altro imbarazzante silenzio, che stavolta fu l’ospite a spezzare.
«Inghilterra, devo dirti una cosa».
Parlò rapidamente e con il brio che Arthur aveva imparato a riconoscere come caratteristico della sua voce.
«Ti ascolto» replicò con tono indifferente e annoiato, una leggera sfumatura irritata di sottofondo.
Jones si volse a guardarlo senza essere ricambiato.
Gli dava fastidio non essere degnato d’attenzioni, ma sapeva che ben presto lo sarebbe stato - eccome se lo sarebbe!
«Inghilterra... mipiaci».
Esitò un attimo prima di pronunciare le ultime due parole, ma queste poi gli scivolarono tra le labbra con una rapidità impressionante, tanto che all’inglese occorse qualche momento per analizzarle, separarle e - infine - comprenderle.
Quando l’ebbe fatto, però, la sua espressione cambiò radicalmente.
«EEEEEH?!?!».
Sobbalzò, ritraendosi verso il bracciolo del divano a lui più vicino, nel tentativo di mettere quanta più distanza possibile tra sé e l’americano.
«Cosa stai dicendo?! Siamo due maschi!» esclamò, allucinato, paonazzo per la vergogna e la rabbia.
Avrebbe voluto inveirgli contro con più forza, ma non riusciva a trovare nient’altro da dirgli. Il tumulto d’emozioni che s’era alzato all’improvviso dentro di lui non aveva altro modo d’esprimersi se non attraverso quelle poche parole.
America si alzò in piedi, guardandolo dritto negli occhi con una determinazione che l’ex madrepatria gli aveva visto in volto ben poche volte - forse solo durante la guerra.
«Non m’importa» sentenziò, facendo un passo verso di lui.
Altri seguirono subito quel primo.
Arthur sentì il cuore palpitare ad un ritmo sempre più forsennato man mano che la distanza tra loro si accorciava.
«Sono indipendente e posso fare quello che voglio» continuò l’ex colonia «E a me... piaci, Inghilterra».
Stavolta non esitò più di tanto a pronunciare quel fatidico “piaci”, ribadendo quanto aveva asserito poco prima.
Ormai non c’era che un’esigua distanza a separarli.
L’inglese scosse la testa come se con ciò potesse allontanare fisicamente l’americano, ma non oppose la minima resistenza effettiva al suo inesorabile avvicendamento.
America si piegò su di lui, imprigionandolo nell’angolo del divano che il più grande si era scelto volutamente come rifugio e lo afferrò per il colletto della camicia, attirandolo a sé.
«C-cosa diavolo...?!» cominciò Arthur, vedendo il suo viso avvicinarsi.
Il suo cervello ronzava senza fornirgli nessuna idea, mentre il cuore in petto era in procinto di squarciargli il torace tanto forte batteva.
Senza riuscire ad impartire alcun comando al proprio corpo, si limitò semplicemente a chiudere gli occhi, come se tutto ciò fosse un brutto sogno che sarebbe scomparso se avesse cessato di seguirlo.
Però non sparì niente: le labbra di America sfiorarono dolcemente le sue, ricercando una sua reazione con una certa decisione.
Alfred captò sulla bocca dell’inglese un forte sentore di quel disgustoso thé dolce il cui odore impregnava l’aria della casa, però fece del suo meglio per cercare d’ignorarlo.
Arthur oppose resistenza in un primo momento, ma poi si abbandonò a lui, rispondendo timidamente al bacio.
In un fugace flash l’ex madrepatria comprese che forse quel continuo pensare alla sua ormai ex colonia era dovuto ad un sentimento che non sapeva di provare nei suoi confronti - o, più probabile, che si era inconsciamente reso conto di provare ma aveva tentato in ogni modo di nascondere a sé stesso.
Ciò non voleva dire che amava incondizionatamente e devotamente America, ma solamente che prendeva atto di provare ancora affetto verso di lui - anche se era un affetto differente da quello che lo legava a lui come fratello e molto più forte.
Kirkland si rilassò nel suo angolino, sporgendosi verso l’altro, impedendogli di cadergli addosso: America stava esercitando una certa pressione su di lui.
Quando si separarono, Inghilterra si rannicchiò nel suo “rifugio” sul divano, come se desiderasse ardentemente di sparirci dentro.
Le sue guance erano color porpora e i suoi occhi esprimevano un imbarazzo profondo. Sembrava vergognarsi di quel che aveva appena fatto, oppure si sentiva solamente confuso.
Alfred gli sorrise e, con tutta la naturalezza del mondo, ribadì: «Mi piaci».
«Ho capito!» borbottò Arthur, stufo di sentirselo ripetere, guardando altrove «Non sono sordo».
«Forse... anche tu mi piaci» sussurrò a voce ancor più bassa, ostinandosi a non guardarlo.
Forse era qualcosa di ignoto ai due, o forse era proprio il profumo di quel particolare tipo di thé nero, ciononostante ambedue, in quel momento, sentirono sbocciare in cuor loro il desiderio che tutto potesse aggiustarsi, che il loro rapporto potesse tornare ad essere come un tempo.
E che quello strano amore potesse aiutarli almeno un po’ in tal senso.
   
 
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