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Autore: atlanta    29/08/2011    1 recensioni
Tra la pelle e il cuore c'è la carne. La carne viva. La carne che soffre, paga e scrive la sua storia.
Stralci di vita vissuta, quella vera. Niente romanticismi, niente montature.
Just the truth.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Patrizia lasciò cadere lo straccio e si passò rapidamente una mano sulla fronte, deviando il cammino delle goccioline di sudore che le scivolavano tra le prime, incerte, piccole rughe dell’età.
Aveva ventinove anni, ma avrebbe potuto averne quaranta o cinquanta senza problemi: gli occhi stanchi, segnati dal lavoro e dalla fatica, parlavano da soli.
Era una donna normalissima: corporatura media, capelli e occhi castani, carnagione olivastra. Un paio di jeans scoloriti e una maglietta a maniche corte, blu e gialla.
Faceva caldo. Era Luglio e la cappa di umidità che gravava su Roma sembrava avvolgersi tutta attorno a lei, scendeva inesorabile, si stringeva tra le sue gambe fasciate dai jeans pesanti e poi le scivolava sul corpo. Sudore.
Per un attimo Patrizia prese in considerazione l’idea di togliersi la maglietta e di arrotolarsi i pantaloni fino al ginocchio, ma la scartò subito. Stava lavorando ed era sul lavoro che doveva concentrarsi, mantenendo un comportamento dignitoso.
Deglutì e prese a passare i pavimenti con foga, cercando di non pensare al caldo opprimente che la soffocava.
Dopo aver finito di lavare il pianerottolo del terzo piano scese rapidamente le scale si fermò davanti al primo appartamento del secondo piano, quello vicino all’ascensore.
Arrotolò lo zerbino, lo accostò alla porta e riprese a strofinare il pavimento, non prima di aver immerso lo straccio in quel poco d’acqua grigiastra che era rimasta nel secchio che si portava appresso.
Lanciò un’occhiata esitante alla porta blindata che aveva davanti e, con l’aria di una che sta per commettere un delitto imperdonabile, si prese il lusso di ascoltare i rumori dentro la casa. Silenzio.
Sicuramente i signori Simonello erano in vacanza. Le pareva di aver sentito dire a Lucia, la ragazza che solitamente faceva le pulizie in quella scala del palazzo, che erano andati in Francia. Parigi probabilmente. O così si diceva. Non erano le uniche a mantenere in ordine quel casermone di provincia.
Sospirò pesantemente cercando di ricordare l’ultima volta che era andata in vacanza. Era stato molto tempo prima, ma poteva ancora assaporare il profumo di brioche calde del forno dell’unico panettiere del paesello di campagna dove, con i suoi nonni, passava di tanto in tanto parte delle vacanze estive.
Poi il nonno era morto e la nonna non si era più sentita di accudire da sola lei e suo fratello per un mese e mezzo, in quel posto sperduto. Da allora le vacanze per Patrizia e Alberto si erano concluse. O almeno, per Patrizia quella era stata la prima e unica esperienza fuori Roma. I treni costavano troppo e le vacanze, come diceva sempre sua madre, erano un lusso per ricchi. E Patrizia era tutto, meno che ricca.
Alberto ora era meccanico e pareva che guadagnasse anche bene. O forse era solo un’impressione: dopotutto è possibilissimo comprarsi una bella auto e affittare un lussuoso appartamentino da qualche parte a Roma non avendo una famiglia da mantenere.
O magari no.
Patrizia non si era mai interessata più di tanto di suo fratello. Non da quando era rimasta incinta perlomeno.
E soprattutto non da quando la madre era morta e il padre aveva deciso di ricominciare un’altra vita, con un’altra donna, un’altra casa – in cui una ragazza madre non era certo la benvenuta! – e altri figli.
Il cellulare le vibrò nella tasca posteriore dei jeans e la risvegliò dalle sue meditazioni. Era Lorenzo.
“Pronto?”
“Pronto, Patrizia!”
“Sì, ciao. C’è qualche problema?”.
“Sì, insomma, Marco ha vomitato di nuovo!”.
“Di nuovo? Oddio Lorenzo scusami, mi dispiace è…è un problema se rimane lì con te un altro po’? Tra un paio d’ore Serena esce dall’asilo e devo andare a prenderla, ma ora non posso proprio venire lì, sto lavorando e…”.
“Patrizia, senti, mi dispiace veramente molto, ma qui non può restare, non posso stare dietro ad un bambino tutto il giorno! Il bar non va avanti da solo!”.
“Lo so, lo so, dai, scusami, non succederà più, ma ho bisogno d’altro tempo…”.
“Mi dispiace Patty” – non era mai un buon segno quando la chiamava Patty, c’erano sempre cattive notizie all’orizzonte – “Io non ce la faccio più. Mi hai chiesto questo favore e io ho accettato volentieri, ma ormai sono quattro mesi che andiamo avanti così, io ho una vita e soprattutto tu, tu dovresti costruirti la tua. Non sono il tuo fidanzato, né tuo marito. Né tantomeno una tata per i tuoi figli o il tuo grillo parlante. Mi dispiace. Liberati il prima possibile, ti aspetto qui al bar con Marco.”.
Chiuse la comunicazione e Patrizia rimase a lungo a fissare il display del cellulare, lo rimirò per qualche minuto anche dopo che la luce si affievolì fino a spegnersi. Avrebbe dovuto cambiarlo forse, ma sicuramente non avrebbe avuto i soldi necessari, quindi tanto valeva continuare ad arrangiarsi con quello.
Il pomeriggio trascorse lentamente e fu quasi una liberazione poter uscire di lì verso le cinque, quando andò a riprendere Serena all’asilo.
La bimba aveva tre anni. Tutta una vita davanti.
E chissà quante delusioni. Così pensava mamma Patrizia mentre inseriva le chiavi nel quadro d’accensione della sua vecchia Fiat Punto grigia. Anche quella avrebbe dovuto cambiarla. Forse. E forse, se avesse avuto abbastanza denaro da permettersi una macchina nuova, avrebbe dovuto prenderla di un altro colore. La tristezza, la grigia tristezza, era già abbastanza densa e palpabile nell’aria di Roma senza che ci si mettesse anche l’automobile.
 
 
 
 
 
Mattia lanciò un’occhiata al telefono e, mentalmente, implorò che tacesse per almeno una decina di minuti. Il tempo per un caffè.  Utopia.
Come al solito le sue preghiere incontrarono un muro di fredda indifferenza e, deluso, dovette alzare la cornetta, incalzato dal suono insistente.
“Pronto, sono Mattia, posso esserle utile?” se avesse potuto riascoltare la sua voce forse non si sarebbe nemmeno accorto della sfumatura metallica e fredda che, dopo soli due mesi di lavoro, aveva cominciato ad assumere.
La signora dall’altro capo del filo gli sciorinò tutti i suoi problemi. Possibile che nessuno fosse capace di leggere le istruzioni? Era così dannatamente semplice! Forse quella chiavetta internet era stata la migliore invenzione della Tim. Insomma, quella con meno difetti.
Le spiegò, non troppo pazientemente, come attivare la connessione alla rete dell’operatore telefonico e poi la salutò, cercando di mantenere un tono cordiale, con poco successo.
La giornata era quasi finita, ma Mattia sapeva che quel telefono avrebbe squillato come un indemoniato, con un’insistenza sempre maggiore all’avvicinarsi del momento di andare a casa. Sicuramente avrebbe trovato qualche imbranato cronico che gli avrebbe fatto perdere un sacco di tempo.
Dopo due mesi tuttavia ormai aveva imparato il trucco, era molto semplice: “Pronto, sono Mattia, posso esserle utile?”, “Sì, avevo bisogno per capire come utilizzare la vostra chiavetta internet!”, “Potrebbe essere più specifica signora?”, “Sì, certo, non riesco a capire come…” tu, tu, tu. Silenzio.
Semplice. Bisognava però calcolare bene i tempi e avere un pizzico di fortuna perché i clienti, quando richiamavano, erano ancora più agguerriti. E imbranati.
Invece, pianificando bene la tempistica, sarebbe riuscito a far cadere casualmente la linea un istante esatto prima che scattasse la fine del suo turno e le grane sarebbero capitate al poveraccio che avrebbe cominciato a lavorare subito dopo di lui.
Soddisfatto, con un leggero senso di colpa, messo a tacere dallo stanco piacere del tornare a casa dopo una giornata pesante, Mattia avrebbe raccattato in fretta le sue cose e avrebbe infilato rapidamente l’uscita del call center.
Quel giorno non andò così. Un cliente lo costrinse al telefono almeno un quarto d’ora in più del normale. Con gli occhi puntati sulle lancette del grande orologio bianco si ripromise che avrebbe chiesto un aumento.
Dentro di sé sapeva inconsciamente che non l’avrebbe mai fatto. Non lo faceva mai alla fine.
Trasse un lungo sospiro quando concluse la chiamata e crollò pesantemente contro lo schienale della sedia.
I trilli dei telefoni attorno a lui improvvisamente gli instillarono un nervosismo crescente e si affrettò ad uscire, come se quegli squilli potessero inghiottirlo e prenderlo in ostaggio per tutta la serata.

L’aria della città era calda e pesante, si avviluppava tra il fumo delle automobili e delle sigarette.
Che schifo.

Mattia aveva idee molto chiare sulla sua vita.
Non era poi così scontento, sapeva che c’era chi stava peggio, ma dopo una giornata così stressante si sentiva in diritto di lamentarsi, almeno un po’. A venticinque anni, forse, si potrebbe pretendere qualcosa di più. O forse si dovrebbe.
Il lavoro di centralinista non se lo era scelto. Sapeva che però aveva poco da fare lo schizzinoso. Come amava pensare, c’era di peggio.
Questo pensiero non lo faceva stare poi tanto meglio, ma quanto meno gli impediva di lasciarsi abbattere del tutto dal malumore.
Il suo pensiero volò alla nuova casa. Si era impegnato in un mutuo trentennale, ma forse ne sarebbe valsa la pena, anche se era solo un piccolo appartamento in periferia. Quello era il prezzo della libertà.
La libertà di doversi lavare da solo i vestiti e di tornare a casa la sera e non trovare nulla di caldo nel piatto.
Sospirò, forse per l’ennesima volta quel giorno e pensò alla scatoletta di tonno che lo attendeva. Quella sera, pesce! Cercò di sorridere e di immaginarsi seduto davanti a un piatto di pasta e vongole, in qualche ristorante di lusso, ma non ci riuscì.
Non sapeva che di lì a poco sarebbe incappato in una nuova conoscenza. Patrizia tornava a casa dal bar di Lorenzo, i due bambini per mano e il volto rigato, non più di sudore, bensì di lacrime.
  
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