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Autore: xNewYorker__    29/08/2011    1 recensioni
Continuo a salire quelle scale ripide, sono a metà. Un attimo, accelero. Accelero e sento il cuore fare ancora più male, si sta contraendo, sta rischiando di scoppiare, tra un po’ quella pelle sarà distrutta, me lo sento.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sono fermo, fermo su una logora sedia, logorata dal tempo e logorata dalle troppe emozioni che ci abbiamo riversato su in questi anni nonostante ci dicessero di continuo che non fossimo in grado di farlo.
Sono bloccato, non riesco a muovermi, perché sento che qualcosa mi tiene legato a questo pezzo di legno piuttosto instabile.
Dicono da vent’anni che non sono capace di formulare pensieri con un senso logico, dicono che non riuscirò mai a camminare senza traballare, dicono che non riuscirò mai ad interagire come una…hanno usato queste parole: come una persona normale
. Normalità. Che cos’è la normalità?
Credete che la normalità sia avere un fisico perfetto e una mente selettiva e calma? Credete sia l’avere tanti amici? Credete sia la bellezza esteriore?
La verità è che quella normalità di cui tutti blaterano fin troppo senza sapere, non esiste. Non esiste un canone secondo il quale viene stabilito il grado di “normalità” di una persona.
La verità è che noi tutti esistiamo, e noi tutti siamo costretti su un pianeta che ad alcuni sta pure stretto. A me, ad esempio, questo pianeta sta stretto.
Voglio volare. Una notte, oh, una notte ho sognato di volare, di librarmi nel cielo azzurro e di scappare via da questa prigione lurida.
Siamo trattati come sacchi di concime malamente gettati sul terreno e squarciati a pedate furiose di qualcuno che non capisce.
Siamo trattati così perché…beh, ecco, siamo pazzi. Pazzi, ma non pazzi al livello di quei giovincelli di oggi che credono di sapere tutto perché fumano a dodici anni. Si credono pazzi e lo scrivono sulle foto, e questo li fa sentire gratificati.
La cosa che non tollero è che loro ricevono complimenti e attenzioni per la loro presunta pazzia, ma noi rimaniamo come sacchi di letame perché siamo
diversi.
Dicono che resterò qui per sempre, ma si sbagliano.
Si sbagliano, perché un giorno mi vedranno saltare da quella finestra, staccando le assi che la tengono serrata, e volerò. Volerò via e scapperò da tutto e da tutti.
Riuscirò a parlare e riuscirò a correre, a ridere e a trovarmi dei buoni amici. Ho trent’anni e sono una persona come tante altre.
Abito qui praticamente da quando sono nato. Dicono che ho un disturbo mentale incurabile di cui però al momento non riesco a ricordare il tipo.
La mia vita ha sempre fatto schifo, ma mi piacerebbe provare a fare qualcosa di nuovo prima di andarmene. Sì, andarmene nel senso di volare dalla finestra, raggiungere le aquile, alte e fiere.

Sono semplicemente un uomo col cervello di un bambino. Vi prego, non odiatemi per questo. Non giudicatemi anche voi, sono stato già troppo male e non vorrei continuare.
Mi alzo dalla sedia in uno scatto nervoso, scoppiando poi a ridere come chissà quale pazzo omicida, ma la verità è che non voglio, né farò mai del male a nessuno. Non sono una persona violenta, per favore! Solo perché mi vedete camminare a scatti e mugugnare cose senza senso anziché parlare, questo non significa che io sia un assassino.
Se fosse per me vi racconterei tante di quelle cose, ma così tante…solo che non posso. Dicono anche che non so pensare. Si sbagliano.
Io so pensare benissimo, è solo che non sono in grado di esporre i miei pensieri.

Durante la mia vita ho amato una sola persona: lei.
Lei era l’unico raggio di sole che riusciva con tutta la forza che aveva in corpo a spaccare il vetro scuro e a venirmi a trovare nella solitudine che mi avvolgeva la mattina. Cercavamo solo un posto in cui poter essere noi stessi senza rimpianti e senza incertezze, ma ce n’è stato tolto il diritto, strappato via come un giornale inadatto dalle mani di un bambino, quasi come se fossimo solo delle marionette, dei pupazzi messi al sole e costretti a bruciare col riflesso del sole su uno specchio.
La nostra anima è costretta a prendere a pugni le pareti interne del corpo per cercare di uscire, di ribellarsi, in qualche modo.
A volte giurerei di sentirla urlare e strepitare per liberarsi. Mi fa male.
Sento un dolore lancinante allo stomaco e provo ad urlare, ma non ho abbastanza fiato per farlo, quindi nessuno mi sente, quindi sono abbandonato al mio destino, devo soffrire e basta, sono condannato.

La sua storia, la storia di quella ragazza dai capelli biondi e gli occhi verdi, è terminata da qualche settimana.
Si è spenta come una candela durante una notte di blackout invernale, completa di freddo e neve, e di vento, tanto vento. Così tanto vento da arrivare a soffiare sulla fiamma della sua vita, di carezzarla inizialmente con delicatezza, e poi di staccarla, di sbatterla qua e là, e di spegnerla. Spegnerla in un istante.
Le vorrei dire così tante cose, ma me lo impedisco da solo.
Sento che è colpa mia se sto così, se non posso parlare. Sono stato solo un danno nella vita dei miei genitori, e sono un peso per la società. O almeno questo è quello che pensano tutti di me.
Mi vedono come un inutile macigno sullo stomaco dell’universo, ma sono una persona, una persona. Nessuno mi ha mai visto come una…persona.
Solo lei mi vedeva come tale, e mi parlava, mi sorrideva.
La vedevo sorridermi con tutta quella gioia che la sua malattia non era riuscita a strapparle dal cuore.
Era una persona felice, felice come io non sono mai stato, e credo che un po’ di quella felicità lei me l’abbia trasmessa.

I miei passi si allontanano lentamente senza che io lo voglia. Si avviano verso l’uscita, verso un’altra porta, verso le scale.
Salgo queste scale, e sento il respiro farsi pian piano più pesante, il battito del cuore diminuire, come se stia prendendo la rincorsa, e ripartire come in una gara equestre. Corre, corre all’impazzata, batte forte, così forte che potrei giurare di sentirlo portandomi la mano al petto, lo sento quasi uscire, sento il petto farmi così male, come se si stia aprendo, ma osservandolo vedo solo la camicia sporca di polvere e cenere, nient’altro.
La strappo, e osservo la pelle così dannatamente intatta da farmi rabbia. Non è corretto che io provi questo dolore senza che ci sia nulla.
Sento che il braccio mi si sta spezzando, come se qualcuno me lo stia legando con forza, con una catena d’acciaio indistruttibile, al busto.
Continuo a salire quelle scale ripide, sono a metà. Un attimo, accelero. Accelero e sento il cuore fare ancora più male, si sta contraendo, sta rischiando di scoppiare, tra un po’ quella pelle sarà distrutta, me lo sento.

Eccomi, sono in cima! Sono arrivato.
Scorgo le tegole rosse fiammanti, che luccicano per via di qualche lacrima delle nuvole.
Le gocce luccicano ai fiochi raggi del sole, un po’ coperti dal grigio intenso. Il piede destro va a posarsi su una delle tegole, poi il sinistro lo segue a ruota, con qualche secondo di ritardo per prepararsi allo slancio: c’è una specie di scalino alto una ventina di centimetri, faccio sforzo per salirci su.
Ed eccomi qui, in piedi sul mondo.
Mi sento il padrone, per la prima volta. Mi sento l’unico padrone della mia dannatissima vita.
Adesso decido io se spiccare subito il volo o tornare dentro a vivere in prigione.

So solo una cosa, solo una. Voglio essere libero.
Voglio sentire il vento tra i capelli che li accarezza, non che li brucia come fanno i tizi in grigio, quelli mi fanno paura, vogliono portarmi lontano dal suo ricordo. Solo cinque passi, un mio amico li ha contati prima di tornare indietro da me.
Li ha contati, dice che mancano cinque passi alla libertà, da dove sono io. Non è grandioso? Solo cinque, posso farli!
Certo, traballo un po’, ma so dove andare, so dove andare, capite? Ce la posso fare!

Muovo il piede destro in avanti e vedo meglio le case sottostanti. Il destro gli va dietro con un po’ di titubanza, ed ecco anche il secondo passo. Solo tre. Quindici secondi al massimo, saranno quindici. Tredici e ho fatto il terzo passo col piede destro. Sinistro, dieci. Destro, sette. Prendo un respiro.
Forse è più di un respiro: altri tre secondi sono passati. Uno. Salto. Salto chiudendo gli occhi per un istante, e vedo il mio coraggio volarmi accanto, mentre sento quell’aria, quell’aria pura, quell’aria libera
.

Angolo autrice:
Volevo solo mettere i “credits”. Potrete, credo, notare,
che questa breve one-shot è ispirata alla canzone
“Ti regalerò una rosa” di Simone Cristicchi.
se avete un attimo di tempo soffermatevi a leggere
le parole, spero di essermi espressa come meglio
potevo.
   
 
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