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Autore: Kokato    30/08/2011    3 recensioni
Scritta per il "One hundred prompt project".
”Voglio insegnarti il divertimento dell’essere completamente pazzi, ragazzino.
A ridere del terrore, a vivere la vita senza sentirne il valore, a dominarla tramite il terrore degli altri.
A vivere nell’ombra come uno spettro che si nutra di paura e sconcerto… t’insegnerò ad essere un maniaco di classe”.

Hisoka x AdultKillua x AdultGon
Genere: Commedia, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Gon Freecss, Hisoka, Killua Zaoldyeck
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Note dell'autore: Inizialmente doveva essere una fic molto grottesca, strana e assolutamente folle, ma alla fine mi è venuta una specie di commediola sentimentale neanche troppo ben fatta. Non ho neanche rispettato il titolo, dilungandomi su sciocchezze e senza la minima idea di dove andare a parare… ma, alla fine, questo è il risultato. Molto diverso da come me l’aspettavo, comunque.
 
 
“Killua, pensi davvero che io sia strano?”.
L’impressione che aveva di lui, fin da quando lo aveva visto, non era mai cambiata. Un albero, placido e verde, imperturbabile a qualunque provocazione degli umani. Il ragazzo dagli strani capelli bianchi che sostava nella sua sala da pranzo scosse la testa: “Io vorrei sapere perché continui a chiedermelo”.
I libri erano sparsi ovunque, in ogni stanza. Più tardi lo avrebbe semplicemente ignorato, afferrandone uno e cominciando a studiare in silenzio perché, come diceva lui, lui non era certo un genio ed aveva bisogno di concentrazione. Killua e i suoi capelli bianchi avrebbero poi cominciato a punzecchiarlo, strusciandosi contro di lui. Sospirò, mentre il rumore dei piatti sotto l’acqua riempiva l’ambiente nel pomeriggio estivo, pensando a ciò che doveva dire e che non aveva ancora detto. “Mai quanto me… in ogni caso…”, borbottò, infine, senza l’intenzione di farsi sentire -cosa che comunque, successe-. “Che vuol dire: ‘Lezioni per maniaci di classe’?”.
Killua cadde giù dalla sedia, atterrando in maniera poco confortevole sul pavimento: “Me lo chiedi per farmi notare che sono più strano di te, Gon?”. Il ragazzo verde si era chinato sopra di lui, sorridendo. “No, te lo chiedo per curiosità”.
E talvolta, la curiosità di Gon, poteva uccidere.
 
 
 
Killua Zaoldieck era sostanzialmente destinato ad essere una cattiva persona. Era nato in mezzo alla strada, dove la bontà era una favola. E anche se non sei cattivo, comunque, dovrai sembrare tale. Incontrò quel tale sotto il ponte della stazione, intento a riscaldarsi le mani su un fuoco condiviso tra più barboni. Aveva la faccia più assurda che avesse mai visto, tirata e rigida come una maschera, con gli occhi allucinati… cattiva, appunto.
Le persone attorno a lui cercavano di stargli il più lontano possibile, talvolta rinunciando al benefico calore. Lui che aveva avuto la fortuna di arrivare ai venti anni senza essere beccato nemmeno una volta e, soprattutto, senza finire con la gola tagliata, avrebbe dovuto evitare di avvicinare un tipo simile. Quando alla fine lo aveva fatto quello lo aveva guardato, sorridendo in un modo inquietante.
“Non hai paura di me”.
“Perché dovrei?”.
Ridendo osservò dileguarsi l’ultimo vagabondo, bisbigliando a proposito di uno spacciatore taglia gole senza pietà. “Io uccido senza ragione, o almeno così dicono in giro”.
“Anche io”. Non era vero, ma tanto valeva lasciarglielo credere.
“Oh, davvero? Dovremmo allearci qualche volta. Ridurremo i dintorni ad un cimitero”, Killua ebbe l’istinto di allontanarsi trotterellando in modo ridicolo, ma si trattenne, perplesso.
“Sei un tipo assurdo tu, eh?”.
“Non quanto te, ragazzino. Come ti chiami?”.
“Killua”.
“E cosa vuoi da me, Killua?”.
“Sembra che tu ti diverta. Sei sempre divertito… vorrei sapere cosa ti rende così (divertito)”. Lo strano uomo produsse una risata profonda e grottesca, battendosi una mano sulle gambe come se non si trattenesse. “Questa è una domanda che non mi avevano mai fatto, e dire che il mio psichiatra me ne ha fatte tante”.
“Che domande ti fa il tuo psichiatra?”.
“Non lo ricordo, ma è arrivato solo a risposte inutili” concluse, categorico. “Ma guarda le facce della gente qui intorno… la loro inquietudine, i loro pettegolezzi, la loro cronaca nera di quartiere mal comprovata… non li trovi divertenti?”.
Killua sbuffò, pentendosi del suo gesto avventato, non meglio motivato solo se non da un certo carico di noia che si portava dietro da tutti e venti gli anni della sua vita. Fece spallucce, rassegnato al destino ingrato di essere squartato vivo e stuprato da un pazzo che aveva abbordato per pura insoddisfazione.
“Mi ammazzi se ti dico di no?”.
L’uomo parve messo alla prova, come se non si fosse aspettato quella domanda, poi e fece una risata di gola breve ed isterica, recuperando lo smarrimento insensato di poco prima. “Dovrei darti qualche lezione, ragazzino”, dichiarò, prima di chinarsi per baciargli il dorso di una mano, come uno dei quartieri alti. “Hisoka, comunque”.
“Piacere”, riuscì a balbettare. “Lezioni di cosa?”.
“Mh… potremmo chiamarle… lezioni per maniaci di classe!”. Killua lo guardo perplesso, mentre ammiccava con quella sua faccia spaventosa. “Quali risposte dava il tuo psichiatra, per curiosità?”.
“Mh, schizofrenia, bipolarismo, disturbi della sessualità non meglio identificati, traduzione in eccitazione sessuale di ogni emozione positiva del corpo o della psiche… ma andiamo! Chi se ne importa delle parole di un tizio morto, no?”. Killua fu trascinato via contro la sua volontà.
 
Per la strada camminava un ragazzo con strani capelli a punta, di circa la sua età, tenendo stretti al petto dei libri che, evidentemente, non erano entrati nella tracolla già piuttosto piena. Era pulito, composto e quasi evanescente, vestiva una giacca di un verde acceso, mentre tranquillo proseguiva ignorando gli inquietanti vuoti bui tra il fascio di luce di un lampione e l’altro. Hisoka l’osservava fisso, leccandosi le labbra, poi lo indicò dicendo:
“Voglio ucciderlo”. Killua alzò un sopracciglio, fischiando. “E in base a quale arcano motivo, di grazia?”.
Quella domanda fu per Hisoka simile ad un oltraggio indicibile. Lo capì dalla risata più stentata del solito e dall’indignazione che aveva reso rigido il suo corpo. “Non lo capisci solo guardandolo?”.
Killua scosse la testa energicamente, mentre lo studente intonava una canzoncina per bambini continuando per la sua strada come se niente fosse. Che divertimento si poteva ricavare da un tipo del genere? Cercò di nascondersi meglio dietro il lampione dietro il quale stavano entrambi, spingendosi l’un l’altro in modo ridicolo mentre uno sghignazzava come un maniaco e l’altro sbuffava rassegnato. Notò che, da misurati e quasi cavallereschi, i movimenti di Hisoka si erano fatti confusionari, tanto che rischiò di farsi scoprire cadendo e urlando più volte. “No non lo capisco”, rispose, infine. “Cosa vuoi insegnarmi?”.
”Voglio insegnarti il divertimento dell’essere completamente pazzi, ragazzino. A ridere del terrore, a vivere la vita senza sentirne il valore, a dominarla tramite il terrore degli altri. A vivere nell’ombra come uno spettro che si nutra di paura e sconcerto… t’insegnerò ad essere un maniaco di classe”. Killua si chiese perché proprio lui avesse avuto la fortuna (o sfortuna?) di essere reclutato come allievo di un personaggio tanto eccentrico. Chi altro nel mondo avrebbe potuto definirsi un ‘maniaco di classe’? “Ma non come qualche ricco uomo d’affari che ama palpare i posteriori delle cameriere, no”, aggiunse, con strano tempismo.
“Ah no?”.
“No… ma imparerai meglio sul campo, non credi?”. Non ebbe il tempo di ribattere che venne spinto in mezzo alla strada deserta, finendo proprio davanti allo studente, che si fermò davanti a lui. Questo lo fissò, sbattendo gli occhi, cessando lo strano motivetto senza scomporsi. L’impressione che si aveva di lui di primo acchito era… verde. Verde la giacca, verde il riflesso degli occhi castani e dei capelli neri, sembrava una pianta che cammina, come se l’albero di un giardino avesse improvvisamente acquisito forma umana e avesse cominciato ad andare a scuola. “Che ti è successo?”, chiese.
Ti vedi spuntare davanti un barbone di punto in bianco e tutto quello che ti viene di chiedergli è che gli è successo? “Dammi il portafoglio”, improvvisò, mentre sentiva Hisoka sghignazzare come se trovasse esilarante tutta l’intera situazione
“Non posso, il portafoglio è mio”.
“Infatti te lo voglio rubare, idiota”. Lo studente fece un ‘oh’, sorpreso, come se fosse arrivato solo in quel momento a quella brillante interpretazione dei fatti. “E perché?”.
“Perché cosa?”.
“Perché vuoi rubare il mio portafoglio?”.
“Perché voglio i tuoi soldi!”.
“E perché vuoi i miei soldi?”.
“Per poterli spendere! Che diavolo di domande fai?! Sei ritardato per caso?”. Lo studente non si scompose, piegando la testa mentre sorrideva. “Rubare è sbagliato”.
Si girò per incidere il suo sguardo su un Hisoka in preda alle convulsioni, per interrogarlo silenziosamente e chiedergli ’Che cosa ti diverte tanto di questo emerito deficiente? Si può sapere per l’amor del cielo?!’.  Quello aveva fatto il gesto della vittoria, come se la risposta alla sua domanda fosse stata ben scontata. “Così dicono, sì. Ora dammi il tuo dannato portafoglio o ti taglio la gola e giuro che ti lascio a dissanguarti come un maiale”.
“Ma io non ti ho fatto niente! Non ti sentirai in colpa dopo? Io mi sentirei in colpa”.
“Non m’interessa come ti sentiresti tu, io non ho sentimenti. Quindi fa come ti dico”. Lo studente mugolò, poi si tenne una mano con il mento come se stesse pensando a qualcosa di molto difficile. Poi, con visibile sforzo mentale, concluse: “Non è possibile! Tutti hanno sentimenti!”.
“Tu dici?”, chiese, sarcastico e vagamente esausto.
“Certo!”, ribadì con veemenza. “Devi essere un soggetto affettivo ed apatico”.
“Un cosa?”.
“Ma puoi essere curato!”.
“Dio, ma perché mi sono lasciato convincere?”, interrogò sé stesso, ormai completamente stressato. L’albero parlante prese ad un tratto a tirargli la maglia, reclamando la sua attenzione e ripetendo in continuazione ‘Anaffettivo! Anaffettivo!’, con una vocetta stridula. Se Hisoka lo voleva morto ci avrebbe potuto pensare tranquillamente lui, in quel momento. Hisoka aveva smesso di ridere, ma in compenso stava osservando con un’espressione che poteva significare qualunque cosa. Colpiscilo? Calcialo? Grattugialo? Balla la macarena? Come si può terrorizzare un idiota del genere?
“Come ti chiami?”, domandò l’idiota, così di punto in bianco.
“Killua”.
“Piacere, Killua, io sono Gon!”. Sembravano due dannati bambini che s’incontravano per la prima volta all’asilo. “Cosa fai nella vita?”.
“Hai preso una botta da piccolo o sei idiota di tuo?”. Chiese, indicando i vestiti pietosi che indossava da almeno quattro mesi senza cambiarli.
“Zia Mito dice che da piccolo una volta sono caduto dalla lavatrice”. Killua cominciò a capire perché Hisoka lo volesse morto, e altrettanto non riuscì a capire perché, allora, fosse ancora lì in piedi davanti a lui a sparare cazzate da psicologo hippy del cazzo.
“Io sono un criminale, un barbone, un borseggiatore… lo vuoi capire?”. Quel tale, da parte sua, aveva sbattuto le palpebre per qualche secondo, poi aveva sorriso, per nulla terrorizzato.
“Beh, possiamo essere lo stesso amici, no?”.
 
 
“Tu sei pazzo”.
“Mh, questa sì che è una critica originale”.
Una specie di pagliaccio con un cilindro bucato e consunto in testa spiava l’entrata del campus universitario, in modo nient’affatto discreto. Potevano passare per dei fenomeni da circo, buffoni da strada… ma in realtà sembravano solo quello che erano: dei maniaci. E neanche troppo di classe, a dire il vero. Il fatto era che Hisoka, quando si trattava di quel Gon, perdeva la testa come un adolescente innamorato. Rimaneva in ogni caso terrorizzante come sempre, specie quando rideva o quando si eccitava. Killua non sapeva neanche perché continuasse a dargli retta -o forse era semplicemente perché Gon li invitava spesso a casa sua a mangiare quando si accorgeva della loro presenza-.
Ciononostante Hisoka era ancora fermamente convinto del suo proposito, nonché di desiderare il losco aiuto di Killua. “Cosa vuoi che faccia stavolta?”, chiese, ormai rassegnato.
“Voglio che tu rapisca Gon”.
“Fallo da solo, non sono mica il tuo schiavo”.
Hisoka si limitò soltanto ad avvicinare il volto al suo e a sorridere, mentre gli angoli della bocca si scavavano ed un ombra scura da film dell’orrore s’impadroniva dei suoi lineamenti. “No, ma sei il mio allievo”. Nessuno aveva detto una cosa simile, ma Killua annuì perché Hisoka era stato stranamente convincente, e si avviò sbuffando ed imprecando tra sé e sé.
Gon uscì dal cancello in quel momento, saltellando e canticchiando come al solito. Lo salutò appena lo vide, e per un attimo Killua fu tentato di ricambiare, ma ritirò appena in tempo l’incauto gesto. “Hai le guancie rosse”, lo informò Gon, indicandolo.
“Potresti venire un attimo con me dietro quel vicolo buio, sudicio e maleodorante? Devo dirti una cosa importante”.
“Non puoi dirmela qui?”.
“No”. Cominciò a strattonarlo, attirando l’attenzione dei passanti dato che Gon mugolava e obbiettava ad alta voce sulla sua richiesta. “Cosa mi vuoi dire Killua? Smettila di tirarmi, dimmelo”. Il tira e molla durò qualche minuto, perché Gon si ostinava a chiedergli cosa volesse dirgli senza muoversi, e la gente cominciò ben presto ad allarmarsi visto anche l’uomo in cilindro che si sbellicava dalle risate dietro un lampione guardando la scena che era, evidentemente, un suo complice. Killua, spazientito, ma anche stranamente disturbato da presenze che trovava invadenti tra lui e Gon -perché non lo era stato quest’ultimo più di tutti?-, afferrò la sua vittima, caricandosela sulle spalle, cominciando poi a correre. Anche quel logorroico albero parlante ammutolì, mentre veniva sballottato sulla sua spalla durante l’imprevista fuga. Poi riprendendosi, giustamente, urlò. “KILLUAAAAA!”.
Killua non rispose, perché troppo impegnato a chiedersi cosa diavolo gli fosse venuto in mente di fare. Il corpo di Gon, tutt’al più, era un ben piccolo peso, specie per un fuggiasco che ben presto avrebbe dovuto avere a che fare con volanti, poliziotti e testimoni scomodi.
“Killua? Killua? Killuaaaaa?!”.
Corse per il quartiere dello shopping, davanti alle vetrine di vestiti da donna, sopportando il fiato di Gon che s’insinuava fastidiosamente nell’incavo destro del suo collo facendogli venire i brividi, e le gambe avvinghiate a lui che ogni tanto scalciavano, provocandogli un calore inspiegabile alle guancie.
“Se volevi venire a pranzo da me avresti potuto semplicemente dirlo!”. Ma come poteva essere così ottuso? Giunse sul ciglio del fiume, gettando il corpo di Gon sotto un albero che li avrebbe celati agli occhi dei passanti sulla strada di sopra. I capelli solitamente dritti di Gon erano collassati finendogli sugli occhi, cosa che sconvolgeva il suo proprietario in maniera persino esagerata.
Si alzò in piedi, cercando di ricomporre l’acconciatura senza successo, fissandolo negli occhi. Killua stette a ricambiare l’occhiata, riprendendo fiato, ancora sentendosi le guancie in fiamme. Anche quelle di Gon lo erano, lo capiva dal rossore che le pervadeva.
Fu davanti a lui in due passi, con i grossi ciuffi che coprivano la fronte. Raccolse un grosso respiro… prima di scagliargli un pugno colossale sulla faccia. Rotolò giù lungo la riva, con la testa che perdeva sensibilità per un secondo, e quando Killua poté di nuovo focalizzare la faccia di Gon quella era sorridente.
“Che diavolo ti salta in mente?!”, urlò.
Gon rise, rimettendosi a sedere senza dire niente.
“Tu sei matto, sai?”, disse Killua, facendosi sfiorare dal pensiero che, in effetti, neanche lui ed il suo compare erano molto normali.
“Sono molto stressato per un esame difficile… è la stessa cosa?”.
“Cosa diavolo ne so io?”, gli si sedette accanto, sospirando. “Perché sei così buono con noi?”.
“Non dovrei?”.
“Siamo barboni, borseggiatori, dei maniaci… Hisoka ha anche ucciso il suo psichiatra”, ricordandolo cominciò a sudare, prima di e a sentirsi molto stupido ad essere l’allievo di un personaggio del genere. Allievo in che senso, poi?
“Avrà avuto le sue ragioni”, concluse, facendo spallucce.
“Ripeto… lo sai che sei matto?”. Gon si voltò verso di lui, senza mutare espressione. A Killua sembrò che non l’avesse mai cambiata sin dalla prima volta in cui lo aveva visto. “Killua, ti ricordi la prima volta che ci siamo conosciuti?”.
 
“Amici?”.
Lo studente gli aveva preso la mano, attirandola senza forzare verso di sé. “Sì, non è quello che vuoi?”.
“Dio, io ti ammazzo”.
“Vuoi venire a cena da me?”, chiese, provocando immediatamente un gorgoglio fastidioso nel suo stomaco. “Può venire anche il tuo amico lì dietro”. A quelle parole Hisoka spuntò istantaneamente, saltellando verso di loro. “Ciao!”, lo salutò l’idiota, ignorando completamente la sua espressione da maniaco.
Hisoka s’inchinò togliendosi il cappello e baciandogli il dorso della mano, soffermandosi molto più a lungo di quanto avesse fatto con Killua. Era così rimbambito da quella arborea presenza che non sarebbe riuscito neanche a schiacciare una mosca, figuriamoci compiere un omicidio. Non notando nulla di strano Gon si presentò, facendo poi strada verso casa sua come se niente fosse. Killua sentì la voce di Hisoka vicino al suo orecchio mentre camminavano: “Fagli una domanda da maniaco!”, disse, sghignazzando.
“E cosa diavolo dovrei chiedergli?”, Hisoka fece spallucce. “L’arte è nell’improvvisazione”, dichiarò, come se l’essere maniaci fosse un’arte. Non c’era niente che gl’interessasse poi molto di quello strano personaggio, e se gli avesse offerto del cibo, in particolare, avrebbe decisamente preferito riempirsi la bocca e starsene zitto. Ma Hisoka, come al solito, era molto persuasivo, specie grazie alle sue risate diaboliche con sottofondo di lampi, tenebre inquietanti ed ululare di lupi. Perciò si avvicinò, schiarendosi la voce mentre pensava a tutto ciò che di morboso, folle e maniacale avrebbe potuto pervenirgli alla mente. Il suo mentore, in preda ad un’insolita calma oscura, l’osservava in attesa. Alla fine, borbottò: “Di che colore hai le mutande?”.
Gon, senza neanche voltarsi, continuò a saltellare senza dare segno di aver sentito la sua domanda. Forse perché, evidentemente, il suo viso era diventato così incandescente da impedirgli di tenere un tono di voce udibile dall’orecchio umano. Dannazione, era così assurda tutta quella situazione. Hisoka fu dietro di lui, punzecchiandolo affinché alzasse la voce.
Quando ebbe il coraggio di porre la domanda in modo chiaro erano già arrivati davanti ad un condominio piuttosto malandato. “DI CHE COLORE HAI LE MUTANDE?!”. Una signora in carne di mezza età lo fissò con l’indignazione negli occhi, reggendo a malapena la busta della spesa nella mano. Poi, guardando meglio, notò che simultaneamente in tutte le finestre si era aperto uno spiraglio, che il rumore delle stoviglie e delle chiacchiere serali che veniva dalle case si era tutt’ad un tratto interrotto rendendo udibile soltanto il suo imbarazzante strillare. Gon si voltò verso di lui, assolutamente tranquillo, proprio mentre stava per infilare la chiave nella toppa del portone. Si prese il mento tra le pollice ed indice, come se stesse cercando di ricordare qualcosa che gli sfuggiva. “Non me lo ricordo, quando arriviamo su controllo”.
 
 
Dopo aver ricordato Killua scosse la testa e ribadì: “Te l’ho detto. Tu sei completamente fuori di testa”. Gon fece spallucce, comunicandogli che non gliene importava. “Ed io ti ho detto che hai le guancie rosse, ma tu non mi ascolti”. Killua le toccò, sentendole calde.
“Sì d’accordo, ma il tuo è un problema più grave”.
“Vuoi venire a vivere da me, Killua?”.
 
 
“La tua curiosità è soddisfatta?”.
Gon bevve tè freddo da un bicchiere, facendogli venire la gola secca tutt’ad un tratto. “Così Zio Hisoka ti ha dato delle lezioni”, puntualizzò, tra un sorso e l’altro.
“Non chiedermi di cosa”.
“E ti sono state utili?”. Killua deglutì davanti ai grandi occhi castani che davano al suo volto un’aura incantata. C’era ancora quella cosa che doveva dire, e che le lezioni succitate non gli avevano mai insegnato a comporre in parole di senso compiuto. “No. Ho solo imparato che è assolutamente impossibile pedinarti”.
“Pensavo che fossi solo molto timido”. Ecco, appunto. Ci volevano un centinaio di lezioni già solo per affrontare un ipotesi del genere. Killua si scompigliò i capelli, evitando di fissarlo mentre Gon stava chinato sopra di lui. “Chiederò a Zio Hisoka, visto che tu sei tanto misterioso”.
“Quando uscirà di prigione, intendi?”. Hisoka avrebbe finito di scontare la sua pena -per aggressione aggravata contro il suo psichiatra, ancora una volta miracolosamente sopravvissuto- a pochi giorni dalla laurea di Gon. “Che? No figurati, non ti dirà niente!”, gli avrebbe detto tutto, per filo e per segno, rovinando completamente la sua intera esistenza, costringendolo a cambiare identità e a fuggire per sempre in ogni parte del mondo. “Io ci proverò comunque. Comunque, Killua, come va il tuo lavoro al McDonald della stazione?”, chiese Gon, recuperando un biscotto dal piattino sul tavolo e porgendoglielo, senza che lui glielo avesse chiesto. “Come vuoi che vada? Rubare portafogli era sicuramente più remunerativo”, Gon lo colpì con uno schiaffo dietro la nuca, sentendosi comunque soddisfatto dentro di sé per il fatto che avesse imparato cosa significasse ‘remunerativo’, tornandosene poi in cucina.
Killua sospirò, adagiandosi sullo schienale della poltrona. Un ragazzo del genere, che si prende in casa un ragazzo come lui da un giorno all’altro, era decisamente la vittima predestinata di ogni pazzo, di ogni maniaco, di ogni persona come il suo maestro. Adocchiò Hisoka dietro un lampione, ben visibile dalla finestra aperta. Sorrise, vittorioso, pensando a quello che avrebbe detto due mesi dopo quel momento e alle labbra di Gon, e al fatto che chiamare Hisoka ‘Zio’, era la più grossa follia che Gon fosse riuscito a fargli fare dall’inizio della sua intera esistenza. Uploaded with ImageShack.us
   
 
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