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Autore: Ulissae    01/09/2011    9 recensioni
[Vita, morte e miracoli di Aro. Personale interpretazione della sua vita]
"Sarai pronto a perdonarmi?"
Genere: Dark, Introspettivo, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altro personaggio, Aro, Volturi
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Precedente alla saga
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- Questa storia fa parte della serie 'L'enciclopedica visione dei Volturi'
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Sproloqui: omiodioquantotempoèpassato! L'ultima volta che ho postato la storia di Marcus ancora andavo a scuola e... oddio ;_________; MA HO UNA GIUSTIFICAZIONE! *alza le mani in segno di resa, prostrandosi ai piedi dei pochi lettori che ancora la seguono* tantissimi impegni estivi non mi hanno permesso di postare e inoltre Aro sembra... collaborare un po' troppo e un po' troppo poco: sono a quota 25 pagine e questo fanciullo ancora non si decide a farsi trasformare. Così ho deciso di postare nonostanet la storia non sia ancora conclusa. Un aggiornamento a settimana, dovrei riuscire a non farvi aspettare.
Le altre millemila note saranno in fondo alla pagina (:

Historia Apollinis

Camminava per i corridoi stretti, quasi non badando ai magnifici affreschi di Raffaello che superava; senza curarsi di niente continuava imperterrito per la sua via, stanza dopo stanza ignorava beatamente tutta la storia che si lasciava alle spalle.
Aro aveva fretta, le stanze dei vecchi Papi non gli importavano più di tanto e aveva già pagato la mazzetta al custode, quindi poteva tranquillamente proseguire. Era agitato e turbato, come ogni tanto gli accadeva, e aveva una tremenda voglia di entrare lì.
Neanche se ne era accorto, ma aveva iniziato a correre. I suoi passi riecheggiavano ovunque, nel silenzio dei Musei Vaticani, e la luce che entrava dalle finestre era così fioca che tutti gli sguardi dei protagonisti dei dipinti sembravano lontani miglia.
Si bloccò davanti alla porta e smise di respirare.
“Va tutto bene, Aro. Va tutto tremendamente bene”
La sua voce continuava a rimbombargli nella testa, la sua dolce e splendida voce che si trasformava in un rantolo. Era Daphne? O Didyme. Calmo, non stai sentendo niente. Sono i ricordi.
“Dio, aiutami” gemette nella sua testa, stringendo più forte le palpebre.
Non ce l'avrebbe fatta, non questa volta. Erano millenni che andava avanti e ora sarebbe crollato, se lo sentiva. Era esausto, stanco, distrutto.
Superò sempre correndo l'enorme vomitatoio, i mosaici e le statue, gli passò accanto come se non avessero mai fatto parte della sua vita e come se il rancore covato nel vedere, quando era umano, tanto splendore non dedicato a lui in verità non fosse mai esistito.
Superò l'immensa galleria di modernità - quella modernità che Caius non riusciva mai a capire - e si fermò, di nuovo.
Pater, adiuvate me” ripeté nella testa “Donate me spiritum
Salì i gradini del corridoio riccamente decorato senza donare loro neanche uno sguardo, poi, nuovamente, si fermò davanti alla porta e inspirando a lungo la spalancò.
Rimase immobile a fissare l'enorme sala che gli si parò davanti: la Cappella Sistina lo fissava nella sua silenziosa maestà; le scene dell'Antico Testamento lo sormontavano taciturne, come se neanche si curassero di quel piccolo esserino là in basso; il putto dietro Giulio II lo guardava con un sorriso sardonico, mostrando il suo dito insolente. Aro superò il muretto di marmo e continuò ad avanzare come un condannato a morte verso l'Opera. Lì davanti si fermò, osservando il Giudizio Universale; il suo respiro continuava a essere irregolare e il suo inspirare ed espirare era un vero e proprio bisogno fisiologico di scaricare la tensione.
Iniziò a tremare e crollò in ginocchio davanti alla mano alzata del Cristo, come se questa lo stesse spingendo verso il basso; continuò a sentire quel tremito lungo tutto il corpo e cercò di riprendere coscienza e autocontrollo su se stesso.
Domine, adiuvate spiritum meum” sembrò piagnucolare, mentre congiungeva le mani in preghiera, chiudendo gli occhi.
Aro stesso non sapeva cosa gli succedesse in quegli inverni troppo grigi, quando la pioggia scendeva e pareva stappargli brutalmente di dosso la calma e quella maschera così abilmente e minuziosamente costruitasi addosso. Era una malinconia lacerante, che sembrava venirgli trasmessa dagli occhi di Marcus; un'insostenibile tristezza che vedeva negli alberi spogli; un mondo marcio che non riusciva a sostenere.
Così era scappato e ora stava davanti a quel Dio nel quale non credeva veramente, ma che gli pareva tanto simile a lui da sentirlo veramente un fratello.
“Tu capisci, vero?” sussurrò, stendendosi e alzando gli occhi verso il cielo, fissando quelle due mani che si congiungevano.
“Tu capisci cosa voglia dire essere accusati di tutto, no? Tu capisci questo sentimento...” smise per un attimo, non riuscendo a continuare. Prese un altro profondo respiro e continuò “insostenibile. Tu comprendi quanto sia pesante e soffocante”
Tacque e continuò a fissare una storia. Mormorò: “Perché hai fatto scrivere la Bibbia? Perché hai narrato a tutti le tue nefandezze? Cosa ti ha spinto a farlo?”.
Nella stanza rimase il silenzio e il leggero rimbombo della sua voce. Aro sorrise e scosse la testa, come sempre il parlare con quei dipinti non gli dava soddisfazione; non sarebbe mai riuscito a capire Didyme, capace di passare intere notti davanti a un'icona, pronta a raccontare tutto al volto di una Madonna triste.
Il vampiro non si mosse e rimase a fissare il soffitto, captando, anche nell'oscurità, i pigmenti vivi e nitidi. Sospirò stancamente e si mise in posizione fetale, come se fosse un ragazzino pronto a cadere tra le braccia di Morfeo. Sorrise triste tra sé e pensò a quanto gli mancasse il poter dormire, poi mormorò alla sala vuota: “Io la tua storia la conosco perfettamente” lanciò un'occhiata al muscoloso Gesù che guardava i dannati con fare quasi furioso “e tu, la mia, vuoi ascoltarla?”
La sua domanda echeggiò nel vuoto, ritornando a lui in un sussurro flebile, scosse la testa e sussurrò: “perfetto. Sarai pronto a perdonarmi?” rise amaro tra sé e sé, fissando il Giudizio, soffermandosi sulle espressioni di dolore dei dannati dell'Inferno.
Si strinse nelle spalle e tornando supino, a guardare i vari riquadri dell'Antico Testamento poi, come se fosse stato veramente in presenza di qualcuno, iniziò a parlare.

“Sono nato nell'anno 110 d. C. Mio padre era un triste e vile uomo capace solo di vendersi tutto per ubriacarsi e ben presto si trovò talmente indebitato da diventare uno schiavo. Da quanto mi raccontò, in uno dei suoi momenti di furente rabbia, sua moglie lo lasciò all'istante e ritrovandosi a lavorare nei campi dovette ripiegare su una serva da niente.
Sì, ricordo perfettamente come chiamava mia madre: serva da niente. Io e mia sorella, Didyme, eravamo anche noi servi, ma non da niente. Credo che tale umiliazione ci fosse evitata solo perché eravamo figli suoi. Mentre di lui ricordo ogni singolo particolare, ogni sua espressione, di mia madre conservo solo memorie sfuocate e molto spesso così idealizzate che mi viene da credere che in verità fossi orfano e che lei sia tutta una mia fantasia.
Fino ai miei dieci anni non vidi altro mondo se non quello delle mura della domus dove ero servo; il padrone, odiando mio padre dal profondo - dato che l'aveva quasi mandato in bancarotta, a forza di non ripagare i propri debiti - sembrava provare un maligno e alquanto insano piacere nello sfogare la propria rabbia su di me. Credo che ciò fosse dovuto al mio stare molto spesso in silenzio e al mio assomigliare fisicamente a quell'inetto del mio genitore. Poco importa, la mia infanzia fu segnata dal lavoro e dallo splendore della casa nella quale vivevo. Pur essendo piuttosto taciturno con i padroni, imparai presto a riconoscere la gente utile e quella inutile.
Può sembrare tremendamente cinico che un bambino pensi al mondo che lo circonda in questi termini, ma l'opportunismo è parte integrante del mio carattere e credo che, se sono sopravvissuto fino a ora sia anche grazie a questo mio spirito, capace di vagliare le persone e le situazioni, scegliendo solo quelle capaci di portarmi un vantaggio. Come dicevo, capii che era una gran cosa farsi amici i servi più nerboruti, dediti alle campagne, e il mio fare amichevole risultò utile quando mi aiutarono nei compiti più pesanti e faticosi; allo stesso tempo feci amicizia con l'istruttore dei figli del padrone. Non mi servì mai più di tanto, visto che non avevo poi molto tempo per dedicarmi alla scrittura o alla lettura, e la famiglia di cui ero servo sembrava tenere poco ai libri, conservandone pochissimi in casa.
Anatolios era un uomo di mezz'età, che passava le sue serate cercando di “civilizzarci”, come diceva lui. Era l'unico greco in tutta la servitù e si sentiva un eletto, credo, probabilmente designato da Atena stessa, sentendo le sue parole, che doveva portare la luce dell'intelletto in quel branco di ignoranti che eravamo noi Romani.
Crebbi, così, tra mio padre che continuava a chiamare me e mia sorella schiavi e Anatolios che ci chiamava balbuzienti barbari, ma mentre il primo era così insopportabile che più volte ebbi la tentazione di tagliargli la gola nel sonno, l'altro, dopo un anno, iniziò a dirlo così scherzosamente che era da stupidi prenderlo come un insulto. E per di più, alcune volte, riusciva perfino a regalare dei dolci a me e Didyme, e la cosa non ci dispiaceva affatto.
Didyme. Oh, Didyme! sto facendo uno sforzo tremendo nel dire il suo nome” si fermò e guardò nuovamente Dio dritto negli occhi, ma questi sembrava troppo preso dal suo appena creato Adamo per prestargli la minima attenzione. Aro sorrise amaro e sbuffò: “noi dannati non saremo mai di tuo interesse, vero?” poi, come se niente fosse, riprese a parlare adagio, nel suo tono pacato.
“Dal momento in cui imparò a camminare, io e Didyme vivemmo in simbiosi, i suoi riccioli neri li tenne corti da infante, ma appena fu bambina li lasciò crescere lunghi e ogni volta che si muoveva sembrava che si stesse avvicinando un corvo arruffato, con un sorriso sempre presente sul volto. Avevo nove anni quando nacque e dodici quando finalmente potei portarla ovunque. A quell'età iniziai anche ad avere la possibilità di uscire dalla domus e avventurarmi per le vie dell'affollata Roma. Prediligevo i mercati e i fori, dove avevo la possibilità di conoscere molte persone e farmi conoscere a mia volta. Nel mio cuore speravo che qualcuno decidesse di rendermi libero. Che sogno folle, a pensarci ora! Nessun essere del giorno, così attaccato alla sua inutile e fragile vita, avrebbe accettato di accudirmi e salvarmi dal mio destino. La mia vita sembrò migliorare quando Didyme, con il suo adorabile carattere, divenne l'ancella della figlia maggiore: all'età di otto anni era già immersa nel mondo degli adulti, e osservava affascinata tutti i rituali di quella ricca femminilità alla quale lei non avrebbe mai avuto l'occasione di partecipare.
Ma non era invidiosa né infastidita da ciò, viveva tutto come un enorme gioco e la sola opportunità di poter pettinare i morbidi capelli della padrona la rendeva felice; era come se si rendesse conto di essere arrivata al massimo ottenibile, di essere diventata una sorta di intoccabile. Per quanto riguarda me, invece, i suoi modi gentili fecero sì che anche io venni visto con occhi diversi dai padroni, che mi spostarono dalla campagna alla casa, permettendomi di non morire di fatica ogni giorno, sotto il sole cocente dei campi intorno alla città.
Muovendomi tra le cucine e le varie stanze, iniziai a conoscere meglio anche la famiglia che mi possedeva, cominciai a studiare i loro modi d'essere e, alcune volte, quando i banchetti si concludevano e loro tornavano nelle sfarzose stanze, mi concedevo di sdraiarmi su un triclino e lì, così riverso, sognare. Pensavo che se fossi stato abbastanza furbo sarei riuscito a ottenere la libertà, che l'avrei regalata a mia sorella. Che sarei corso come un folle al tempio dell'alato Mercurio e lì mi sarei rasato, donando a lui i miei capelli. Ricordo ancora che in quei momenti, mentre affondavo il viso nel morbido tessuto che rivestiva i mobili, mi sembrava di sentire la nuca liscia.
Sognavo un inizio. Un inizio mio. Che non fosse dipeso da nessuno se non da me.
Continuai a vivere in questo modo per circa un anno, finché non feci l'unica grande idiozia della mia vita: rubai un gioiello alla padrona.”
Aro si fermò, guardandosi intorno. Sul suo viso era dipinta un'espressione schifata, come se il solo ricordo lo facesse vergognare. Era stato così stupido e avventato, che la sola idea di quell'azione lo faceva imbarazzare.
“Tutti sbagliano” riprese, cercando di ricomporsi “io sbagliai totalmente. Pensavo che sarei riuscito a venderla subito e a nascondere i soldi in tempo. Avevo ormai sedici anni, pensavo che se fossi riuscito a ottenere anche solo i soldi per comprarmi la libertà. Invece... invece fu un disastro. Non appena sfilai la collana dal cofanetto che la conteneva sentii i passi pesanti di un altro servo. Provai a sistemare tutto, ma l'avevo già infilata tra le pieghe della tunica e questa si era impigliata; quando questi entrò vide soltanto me, che con fare disperato, cercavo di rimetterla al suo posto.
Non so cosa lo spinse a urlare “al ladro”, suppongo il mio sguardo da bestia braccata o i miei gesti ansiosi. Lanciò un urlo e in un attimo mi ritrovai stretto da due uomini, con il padrone che mi fissava furioso.
Nella domus c'erano molte regole: non disturbare il padrone, servire bene, non umiliare il padrone e non rubare al padrone. Gli schiavi non rubano, perché gli oggetti non rubano.
Non ricordo bene tutto quello che successe, ma ero abbastanza sicuro che sarei stato ammazzato o una cosa del genere; ci andai vicino, perché il dolore che provai in quelle ore mi è rimasto in testa come un chiodo. Non ricordo le facce, le azioni, i gesti che mi procurarono quel dolore insopportabile. Ma ricordo che quando, anni dopo, ricevetti il Dolce Morso da parte di Marcus, nei tre Giorni di Fuoco, ricordai comunque quel dolore.
Avevo la schiena squarciata, grondavo sangue, e quasi nessuna parte del mio corpo non era percorsa da una ferita o livida per i colpi che ricevetti. Respiravo a fatica, stando sdraiato sulla nuda terra battuta, che era il pavimento delle cantine, e ogni tanto qualcuno mi dava un calcio.
Erano i miei compagni, quelli. Non avevo fatto niente a nessuno di loro, ma avevano tutti una rabbia in corpo che avevano deciso di sfogare contro di me. Dopo non so quanto, vidi lo spiraglio di luce entrare dentro la stanza e i passi delicati e leggeri di Didyme raggiungermi.
Le sue lacrime caddero sulle mie ferite procurandomi un piacere rapido, rantolai e la guardai negli occhi; i suoi erano offuscati e la sua bocca tremava. Era tutta scossa dai singhiozzi e ci mise molto prima di riuscire a parlare. Allungai una mano per accarezzarle il viso, ma vedendo le impronte insanguinate che lasciai sulle sue guance olivastre, la ritrassi subito, impaurito alla sola idea di poter deturpare la sua innocenza.
Ero stato un folle, uno stupido.
«Aro... vieni, ti aiuto a tirarti su»
«Ho sete, Didyme... tanta sete» rantolai, la gola così secca che ogni parola che avevo pronunciato mi era sembrata una coltellata.
La vidi annuire e immediatamente portarmi alla bocca una ciotola con dell'acqua, la bevvi così velocemente che quasi mi strozzai, iniziai a tossire disperatamente, e ogni volta sentivo che stavo per morire.
Mi aiutò ad alzarmi e a trascinarmi fino alla nostra piccola e scura camera; il sentire la paglia ruvida del materasso lercio mi fece lanciare un urlo di puro panico. Mi girai, cercando conforto, ma ero come un tizzone ardente. Mio padre non c'era, mi aveva praticamente disconosciuto, temendo che il padrone se la prendesse anche con lui; Didyme, invece, tremava tutta e mi stringeva a sé. Sentivo i suoi seni, che stavano crescendo e ci affondai il viso, immaginando che fosse mia madre.
Ero così debole, in quel momento, e rimasi tale per una lunga settimana. Non appena riuscii a camminare, fui trascinato dal padrone.
Decimo era un uomo non troppo alto, dai capelli ricci e brizzolati, con delle dita tozze, sempre piene di anelli; era chinato su numerose carte e quando entrai storse il naso, evidentemente puzzavo molto.
«Sai cosa dovrei fare, ora?» domandò, con aria di sufficienza, senza neanche alzare lo sguardo.
Rimasi in silenzio e non risposi.
«Allora, non rispondi? Dove sta la tua lingua lunga, servo?» rise, sprezzante.
«Dovrebbe uccidermi. Potrebbe uccidermi » sussurrai, tenendo gli occhi bassi.
L'avrebbe fatto, ne ero sicuro, certo. Perché doveva tenere un cane che lo mordeva?
«Esatto, sei più sveglio di quanto pensassi... Sai... tra tutta la feccia che mi serve eri l'ultimo di cui avrei sospettato...» commentò, alzandosi.
Ero giovane, avevo appena sedici anni, il mio viso era glabro e magro, ero di sicuro un essere scheletrico e morente. Nella mia testa avevo in mente solo mia sorella, se fossi morto cosa ne sarebbe stato di lei? Di me... di me, per la prima volta, non mi importò niente. Se avessi dovuto continuare a vivere così, una vita non mia, schiavizzato e costretto a vivere come feccia... la morte, la morte sembrava una soluzione migliore.
«Ma non ho intenzione di ucciderti » mormorò infine, storcendo il naso e ritornando a giocare con i suoi fogli e le sue pergamene.
«E perché?» esclamai, sconvolto. Immediatamente mi morsi il labbro, maledicendomi. «Se è permesso sapere, mio signore» aggiunsi subito, umilmente.
«Perché quella piccola ninfa di tua sorella mi ha pregato e se non sentissi le sue preghiere mia figlia mi odierebbe» sbuffò lui, poi sorrise, in un modo maligno.
«Vi ringrazio infinitamente, padrone» sussurrai, inchinandomi. L'azione mi procurò un dolore insopportabile alla schiena ferita, ma non emisi suono, ritornando in posizione eretta e non guardandolo negli occhi.
«Ti ho venduto»
Mi paralizzai, fissandolo. La malignità nella sua espressione mi fece tremare dentro, preoccupato per il mio futuro.
«Lavorerai per il nostro Impero, ladro»



Angolo Autrice:
*coff coff coff*
Okay, we're in. Per me questa è stata una vera e propria avventura - e tutttora lo è. Ho iniziato a scrivere sui Volturi nel febbraio del 2009. La prima storia che si trova cercando sotto i personaggi "Volturi". Era nata per una sfida personale: poco tempo prima avevo ricevuto la mia prima recensione negativa dove mi facevano notare la scarsità di originalità. Così, non appena ne ebbi l'occasione, decisi di redimermi.
Iniziai a scrivere la storia ispirata dall'affascinante fratricidio perpetrato da Aro, usando la sua voce, e da quel momento non mi sono più fermata.
Mentre scrivevo questa storia sono stata assalita da dubbi che ancora mi rodono: sono brava? Sono capace? Quello che scrivo piace alla gente? Ho lasciato una minima traccia nel fandom?
non lo so, ma so soltanto che scrivere questa storia è una sorta di catarsi, un modo per buttare fuori tutte quelle idee che per anni si sono accumulate nel mio cervello. La storia è all'inizio, e il titolo, Storia di Apollo, si capirà più avanti; per ora può essere interpretato Aro come l'Apollo capace di risvegliare l'orscuro mondo vampirico.
Non ci sono info storiche *si gratta il mento* non per ora *sogghigna*
Ringrazio Irene e Giò, che mi hanno sopportato e... buon viaggio, gente, Aro vi dà il benvenuto nella sua vita :D

Vi lascio anche la solita linea temporale (: qui.
La storia fa parte della raccolta L'Enciclopedica visione dei Volturi.
   
 
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