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Autore: avalon9    03/09/2011    7 recensioni
“Ti fermi a cena?” “No. Sarà per un’altra volta.” Peter sogghignò, arricciando la bocca in quel tic tutto suo. Lo faceva sempre quando era certo di aver intuito qualcosa; qualcosa di particolare che riguardasse Neal. “Hai un appuntamento?”
Una serata abituale; qualche bicchiere di troppo; una scelta da prendere e un'infrazione che pesa come mai prima.
[Spoiler della terza serie]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Elizabeth Burke, Neal Caffrey, Peter Burke
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
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Autore: Avalon9

Autore: Avalon9

Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life

Personaggi Principali: Neal Caffrey; Peter Burke; Elizabeth Burke

Rating: Giallo

In proposito: “Ti fermi a cena?” “No. Sarà per un’altra volta.” Peter sogghignò, arricciando la bocca in quel tic tutto suo. Lo faceva sempre quando era certo di aver intuito qualcosa; qualcosa di particolare che riguardasse Neal. “Hai un appuntamento?”

Disclaimer: i personaggi appartengono a Jeff Eastin, creatore di White Collar

Note: one shot; missing moments

Cose: Perché ho amato la puntata; perché ho amato vedere Neal distrutto su quel letto mentre riceveva la chiamata di Peter; perché adoro il rapporto che hanno; perché mi piace Elizabeth e il suo modo di essere moglie; perché amo l’arte. Perché avevo voglio di scrivere e la prima fanfic che ho finito è su questo nuovo fandom

 

 

 

 

Per una telefonata

 

 

 

 

 

“Ti fermi a cena?”

“No. Sarà per un’altra volta.”

Peter sogghignò, arricciando la bocca in quel tic tutto suo. Lo faceva sempre quando era certo di aver intuito qualcosa; qualcosa di particolare che riguardasse Neal.

“Hai un appuntamento?” domandò, con una leggera punta di compiacimento nella voce. Neal era fatto così: tanti flirt, tanti primi appuntamenti e niente di concreto. Un modo di ragionare che Peter, sposato felicemente da dodici anni, non riusciva a comprendere. Metti la testa a posto gli avrebbe detto. Per una volta, però, gli andava bene.

Neal ci aveva provato.

Prima con Kate, ed era finita come era finita. Anche se Peter credeva fosse meglio così. Forse era solo quello il modo perché Neal la dimenticasse. Anche se, in verità, Peter non era ancora riuscito a capire se Neal di Kate amasse la donna o l’ossessione.

Poi c’era stata Sara.

Anche con Sara non aveva funzionato, benché avesse la certezza che ci fosse qualcosa di più dietro alle stringate spiegazioni che gli erano state fornite. Qualcosa che Neal non voleva condividere. Come non aveva voluto condividere il dolore per la morte di Kate.

É fatto così.

Però ci aveva provato. E tornare ai primi appuntamenti, per una volta, non poteva essere un male.

“Un libro e un buon vino” gli confermò invece Neal con un cenno leggero della testa e una piccola smorfia che ricordava un sorriso. “Non c’è appuntamento migliore” aggiunse, quasi per giustificarsi di quel programma insolito per la serata di un ragazzo. Di un ragazzo come Neal.

C’era la cavigliera, certo. Ma da quando è stata un vero problema?

“E Moz? O June?”

Neal sollevò le spalle, come se quel gesto spiegasse tutto. Circolo di lettura; una riedizione particolare di un vecchio film; serata a teatro. Qualcosa, insomma. Qualcosa che non lo riguardava.

“El voleva preparare una quiche. E poi un vitel tonnée” buttò lì Peter, occhieggiando verso la finestra. L’ombra di Elizabeth si intravvedeva di sfuggita fra le tende, mentre si muoveva fra salotto e cucina.

“Mh. Sembra un menu delizioso.”

Preso. Peter si congratulò con se stesso: la gola era uno dei punti deboli di Neal, e la buona cucina in particolare.

“Domani mi farai sapere” gli sorrise invece, infilandosi i guanti di pelle e salutandolo in quel modo teatrale e assieme sfuggente che era solo suo. Peter lo vide muovere un passo indietro, come intimorito. Neal sorrideva, eppure lui aveva pensato: impaurito. Come lo aveva visto troppo di rado per non riconoscere quell’espressione quando appariva a rompere il suo egocentrico autocontrollo.

“É per il vino?” gli chiese, cercando una scusa. Una scusa qualunque per trattenerlo e capire. Capire cosa fosse cambiato in Neal. Perché in certi momenti riusciva a comprenderlo in modo chiaro, quasi come se fosse un bambino. Però c’erano altri momenti. Momenti in cui Neal gli sorrideva e lo buttava fuori. Dal suo mondo, dalla sua testa, dalla sua vita.

In quei momenti, Neal sorrideva sempre e Peter aveva imparato sulla pelle che quel sorriso diventava un muro invalicabile.

E, andandosene, Neal aveva sorriso in quel modo. In quel modo che Peter odiava e non capiva. Sto bene sembrava volergli dire. Aiutami era sicuro di sentire lui. Un aiutami che Neal non gli avrebbe mai chiesto; non gli aveva mai chiesto.

Oh, di favori gliene aveva fatti tanti per tirarlo fuori dai guai in cui andava a cacciarsi. Era arrivato a rubare un filmato di sorveglianza per lui – Peter Burke, integerrimo agente dell’FBI, aveva rubato.

Ma quei favori non contavano. Peter non gli aveva mai sentiti come personali. Perché Neal quei favori gli chiedeva per gli altri, e non per se stesso.

Trovami Kate avrebbe potuto dirgli. Lo sapeva che ci sarebbe riuscito, come lo aveva già fatto. Lo sapeva e non glielo aveva mai chiesto. Peter era stato tentato, invece. Era stato tentato di dirgli perché non me lo chiedi? Ma sarebbe stato inutile. Aveva passato tre anni a cercarlo, rincorrendolo in giro per il mondo; e da due lavorava con lui a stretto contatto. Peter lo conosceva bene Neal. Per certe cose, lo conosceva più di quanto Neal, forse, conoscesse se stesso. E una cosa che Peter aveva imparato era che Neal non si fidava. Non si fidava davvero di nessuno. Nemmeno di se stesso.

“É per il vino?” gli ripeté.

“Come?”

“É perché di solito ti offro birra e non vino che non ti fermi a cena?”

“Peter.”

“Non ho un Château Pétrus, ma un Pinot me lo posso permettere anch’io”.

“Peter. Non è per il vino.”

“No?”

“No” gli sorrise Neal, e Peter seppe che non mentiva. Posso averti lasciato trarre conclusioni sbagliate, ma non ti ho mai mentito. Vero. Neal non gli aveva mai mentito. Lo aveva raggirato, ingannato; gli aveva tenuto nascosti sospetti e decisioni, ma quando lo metteva spalle al muro Neal non mentiva. Al massimo nicchia.

“E allora perché?”

“Ma te l’ho detto” rise Neal. Una risata piena, quelle in cui apriva la bocca e sembrava un bambino ingenuo. “Ho il mio appuntamento.

Balle pensò Peter. Certo, il suo appuntamento con un libro e una bottiglia di vino Neal ce lo aveva. Su quel punto Peter non aveva dubbi. Era il resto a non convincerlo. Ed era quel resto a dargli fastidio. Come quando è morta Kate.

Pensava che non lo sapesse? Pensava che non si fosse accorto dei tremori che lo avevano preso e che ancora non riusciva a sopportare il suono di un’esplosione? Penava che non si avvedesse del modo in cui sussultava quando, per strada, qualcosa ricordava l’eco di una deflagrazione?

Non era uno stupido, e Neal lo sapeva bene. Lo sapeva troppo bene per cercare di ingannarlo. Semplicemente, quindi, fingeva di non sapere. Fingeva di stare bene. Di stare davvero bene. Come dopo la morte di Kate. Come adesso che si era separato da Sara senza un perché degno di rispetto. Neal stava continuando a scappare.

E la cosa che, Peter si accorse, gli faceva più male era che stava scappando anche da lui. Da quando, quella sera dell’appostamento, lo aveva chiamato e gli aveva detto io sono qui.

Era stato da quel momento: Neal era cambiato.

Nulla di evidente; piccoli particolari che all’inizio non aveva nemmeno notato.

Un appostamento saltato in ogni modo – Neal odia il furgone.

Una missione sotto copertura in cui agire da solo – Neal adora esibirsi.

Un caffè glissato con una scusa – Neal odia la miscela economica.

Lo stava evitando, eccola la verità. Lo stava evitando con un atteggiamento che Peter non gli conosceva e lo preoccupava. Neal non si permette certi errori grossolani come aspettarlo in ufficio per poi trovare una scusa e defilarsi. Neal è intelligente e certi errori non li fa. Eppure. Eppure negli ultimi giorni il suo atteggiamento era stato un miscuglio elegante di vicinanza e allontanamento. Come un graduale distacco.

“Neal.”

“Mmh?”

“Lo sai vero?” lo provocò, cercando di decifrare un moto, un’insicurezza diversa dal disorientamento in cui, per la prima volta, lo vedeva davvero annaspare. “Lo sai che mi puoi parlare. Parlare davvero.”

“Parlare?”

“Sì, parlare” gli confermò, avvicinandosi di un passo. “Di Sara; di Kate. Parlare di quello che vuoi. Davvero: di tutto quello che vuoi.”

Di quello di cui hai bisogno.

“Sì, me l’hai detto” gli confermò Neal, e gli occhi sfuggirono in un movimento pigro e insignificante. Tanto insignificante che Peter non riuscì a ignorarlo: non lo stava guardando. Non lo stava guardando davvero.

“Me lo ricorderò, nel caso combinassi qualcosa” lo canzonò strizzando l’occhio con la disinvoltura che gli era abituale. “Ci vediamo domani, va bene?”

No.

“Sì.”

Non andava bene. Peter – non sapeva perché – non lo sopportava. Non riusciva a digerire l’immagine di Neal da solo nel suo appartamento. Gli restava sullo stomaco, ecco. Ma insistere ancora significava insospettirlo; e quindi allontanarlo di più.

“Sì. Va bene. A domani allora.”

Bien. Bonne nuit” gli augurò con un cenno elegante della mano, toccandosi di sfuggita la tesa del cappello.

Fermalo.

Peter strinse i punti.

Fermalo.

Non aveva senso. Non stava andando da nessuna parte. In nessun posto che lui non potesse controllare e monitorare.

Fermalo.

La casa di June era vicina. Dannatamente vicina. Non stava scappando. Non ne avrebbe motivo – non ancora.

Fermalo. Fermalo. Fermalo.

 

“Ehi. Ragazzi.”

Elizabeth si affacciò alla porta, il grembiule in mano e un calice di vino nell’altra. E quel sorriso. Dio, quel sorriso che per Peter era la tranquillità.

“Stavate discutendo di un caso e vi siete dimenticati di entrare?” li provocò, spezzando quella strana tesa atmosfera che Peter aveva avvertito e gli aveva stretto lo stomaco.

“Sbrigatevi o la cena si raffredderà e io avrò lavorato per niente.”

“Neal non si ferma” le scandì Peter, mentre saliva lento i gradini. Sapeva che El non avrebbe capito il perché del suo tono; ma sapeva che lo avrebbe notato. El è più brava di lui con le parole e le situazioni. El forse avrebbe saputo fermare Neal.

“Davvero non puoi?” gli chiese infatti, fissandolo con una leggera smorfia dispiaciuta. “Hai qualche impegno importante?”

“No. Nulla di importante.”

“Allora devi restare” asserì Elizabeth, scendendo i pochi gradini per prenderlo a braccetto e sospingerlo in casa. “Ho bisogno del tuo consiglio” continuava intanto. “Lo sai com’è Peter, no? Non vorrai che il buffet che sto organizzando sia un disastro. Vero?”

Peter gli lasciò passare e non poté evitare un sorrisino storto nel constatare come Elizabeth riuscisse a raggirare anche Neal Caffrey.

 

 

 

*****

 

 

 

“Una cena eccellente, Elizabeth. Mes compliments” sorrise Neal, alzando il bicchiere in un brindisi.

Elizabeth una volta aveva detto che Neal aveva un modo di fare particolare: riusciva ad affascinare la gente senza bisogno di gesti eclatanti. Anche un semplice complimento e un gesto abituale con lui diventavano qualcosa di raffinato. Sapeva valorizzare una persona senza mostrarsi falso e sapeva umiliarla senza mai essere triviale e abbandonare la sua particolare eloquenza. Neal era una di quelle persone che potevano farti sentire una nullità senza offenderti realmente. E porti al centro del suo mondo fino a stordirti.

Peter ormai aveva imparato a riconoscere ogni segnale, ogni atteggiamento. E più li padroneggiava più gli risultavano complessi e sfuggenti. Neal prima si era negato in ogni modo; poi, quando El lo aveva convinto a restare, si era trasformato in un ospite perfetto. Conversazione abile e brillante, senza mai cadere nel pedante. Premuroso e attento nei riguardi suoi e di sua moglie; diretto nei suoi giudizi senza essere offensivo; capace di condurre il gioco senza soffocare gli altri presenti.

Aveva parlato molto; e molto aveva lascito parlare. Il viso nella mano e gli occhi attenti, aveva ascoltato con piacere aneddoti e vecchie storie di dieci anni di matrimonio. Aveva provocato, stuzzicato, canzonato lui e flirtato con Elizabeth senza mai eccedere, sempre su quel limite sottile che lo rendeva misterioso e intrigante.

Non si era scoperto sul personale, ma non sembrava nemmeno risentito o annoiato della serata.

Aveva insistito per sparecchiare e riordinare, come ringraziamento. Ne era sorta una discussione con Elizabeth da cui lui si era estromesso e che si era risolta con un compromesso: Neal avrebbe sparecchiato e per una volta la lavastoviglie non sarebbe stata un inutile elettrodomestico incassato accanto al lavello.

Ed eccolo lì Neal: seduto sul divano accanto a El a sfogliare gli album di fotografie più disparate, nel riverbero delle candele, delle luci soffuse e del caminetto che avevano acceso. Peter si concesse un sorso lento di birra. Il Pinot lo aveva stappato a cena, ma non era andato oltre il secondo bicchiere. Neal e El, invece, se lo erano divisi di comune accordo.

“Da qualche parte dovrebbero esserci delle foto di Peter all’asilo” stava dicendo El in quel momento, rovistando in una vecchia scatola che lui nemmeno ricordava più di avere.

“No. El: ti prego” la supplicò senza molta convinzione. Tanto alla fine fa di testa sua. “Devi proprio fargliele vedere? A Neal non interessano.” Si girò, cercando una complicità che sapeva inesistente quando c’era di mezzo sua moglie. “Vero?”

“Vorresti privarmi di una simile occasione, Peter? Sei crudele.”

Appunto.

“Peter, avanti: lascialo stare” lo zittì El, recuperando dal fondo della scatola una vecchia busta. “Ecco, Neal: guarda.”

Che espressione può avere un ragazzino cui mostri vecchie fotografie di genitori-bambini? Peter non aveva figli, ma era certo che, in quel momento, avrebbe avuto lo stesso sguardo di Neal. Uno sguardo dolce e brillante, con una punta di malizia e di curiosità che lo rendeva assieme infantile e malinconico.

Peter lo aveva visto tenere in mano opere d’arte di grande valore: tele vecchie di secoli e gioielli di squisita fattura. Neal le trattava con l’attenzione e la delicatezza di un amante, sfiorandoli appena e ripassandoseli fra le dita in una carezza discreta. Ma lo aveva anche visto, con sua sorpresa, impugnare con estrema abilità un sovrapposto senza risentire minimamente del rinculo.

In quel momento, però, Neal aveva in mano delle semplici fotografie, scattate con una macchina fotografica dozzinale su carta comune. Fotografie un po’ ingiallite, alcune sfuocate alcune sovraesposte altre sottoesposte. Banali fotografie amatoriali, come se ne trovano tante negli angoli delle case. Eppure Neal le osservava e rigirava con la stessa attenzione che avrebbe prestato a un Matisse, a un Degas o a una qualunque altra opera d’arte. E Peter si ricordò come, effettivamente, a casa di Neal non ci fossero fotografie, solo quadri; e di quanto fosse stato complicato, ai tempi dell’inchiesta su di lui, recuperate un’istantanea di un Neal di diciotto anni. Di prima della sua maggiore età non aveva che stringate informazioni incomplete e la confessione di Neal stesso di esser figlio di un agente corrotto.

Sempre se è vera.

Neal non ama parlare di sé. O meglio: Neal ama parlare di sé, del suo fascino, del suo carisma, di quel sorrisetto malizioso che è l’arma migliore che possiede e della sua furbizia. É egocentrico, quasi narcisista, Neal.

Eppure. Eppure bastava un accenno, una domanda sul suo passato e tutta la sua parlantina si concentra in abili elusioni. Come in quel momento: El sta parlando,e Neal lascia che parli. La invita, la conduce, la stuzzica. Era El a raccontare, a svelare. Neal non svela mai nulla. Neal ti ubriaca di parole, ma alla fine quello che ti resta è la bottiglia vuota e la testa troppo piena per capirci veramente qualcosa. Seduto sulla sua poltrona preferita, con una birra in mano e Satchmo a strusciarsi contro la sua gamba, Peter si accorse per la prima volta di non conoscere Neal.

Conosceva il truffatore, il falsario, il ladro d’arte. Conosceva il Neal tanto innamorato di Kate Moreau da farne un’ossessione. Ne conosceva il carattere giocoso e un po’ infantile, la passione violenta. Conosceva persino la rabbia di Neal: l’espressione dura che lo trasfigura nella mascella che si irrigidisce senza più un’ombra di sorriso. Peter ha visto Neal furioso una sola volta, e ne ha avuto paura: perché si è accorto che nemmeno lui sarebbe riuscito a fermarlo senza fargli del male. E più di ogni cosa gli aveva fatto paura la freddezza lucida di quella rabbia. Perché Neal è di classe anche in quello.

In definitiva, Peter di Neal conosce molteplici sfaccettature. Ma non conosco Neal. Non sa nemmeno realmente quanti anni abbia. Lo ammira a modo suo; gli si è legato in un sentimento contorto di affetto, rispetto e protezione che a volte lo fa essere troppo indulgente a volte troppo severo.

“Ecco: questo è Peter il giorno della laurea” stava continuando Elizabeth.

“Ti stava bene il tocco” lo canzonò, alzandogli in faccia la fotografia. E Peter avvertì quel pizzicorio nelle mani che ben conosceva. Lo prova ogni volta che sta per entrare in sala interrogatori. Lo aveva provato ogni volta che Neal Caffrey lasciava una traccia e lo risentì in quel preciso frangente.

“Anche tu dovevi star bene con il tocco” buttò lì, senza sapere nemmeno lui perché. Forse per confermare un sospetto di parole sfuggite e mai approfondite; forse per cercare assicurazioni che non serviranno a niente.

“Davvero?” incalzò Elizabeth. “Mi piacerebbe vederti. Hai delle foto, vero?”

Touchè.

Ora era lui il centro dell’attenzione; ora era lui a dover raccontare e Peter era impaziente di scoprire come si sarebbe giostrato. Poteva ignorare lui, poteva bluffare e fare il prezioso con Peter Burke, ma con Elizabeth non ci sarebbe mai riuscito. Sua moglie – Peter lo sapeva - aveva un’ascendenza particolare su Neal. Un misto di ammirazione, affetto ed empatia materna che impedivano a Neal di sottrarsi. In un modo o nell’altro Elizabeth otteneva quello che voleva e nemmeno Neal Caffrey poteva salvarsi.

“Mi dispiace” si schernì Neal, alzando appena le spalle e nascondendo il viso nel bicchiere. “Non ho fotografie del college”.

Cos’era quello sguardo? Cos’era quella malinconia che Peter aveva visto, era sicuro di aver visto in quel sorriso dalla piega troppo aperta per non essere falsa? Neal poteva inventare una scusa; una scusa qualsiasi o una bugia. Era stata solo una domanda senza importanza, eppure sembrava averlo come gettato nel panico. Un panico lucido e razionale, quello di chi, messo con le spalle al muro, è abituato a valutare ogni possibile via di fuga.

Sta prendendo tempo aveva realizzato Peter, inghiottendo a fatica un grumo di birra e saliva. Stava parlando del college, stava cercando di far dimenticare l’argomento fotografie. Raccontava di corsi su pittori italiani rinascimentali, affascinava Elizabeth con un confronto artistico di altissimo livello. Ma in quella marea di parole non c’era nulla di personale, nulla che ricordasse un aneddoto scolastico, il nome di un professore o di un compagno.

Neal amava l’arte, lo si capiva da come sorrideva quando ne parlava, da come gesticolava, lui di solito così controllato e teatrale nelle pose. Lo si capiva dalla risata che gli si sentiva in gola o dal modo in cui restava fermo davanti ad un’opera d’arte, la testa inclinata e l’assoluta perdita di ogni altra coscienza.

Non stava mentendo, ma non stava rispondendo alle domande di El. Alle sue domande. Peter, per quella volta, vorrebbe non conoscerlo così bene. Vorrebbe non esser in grado di capire l’occhiata disperata che sembra lanciargli. La supplica di non costringerlo di nuovo a mentire.

Mentire su cosa?

Neal ha due master e tre dottorati, un curriculum accademico di prim’ordine e una competenza che, se non avesse intrapreso la carriera di truffatore, lo avrebbe portato ai vertici del mondo dell’arte. Ma c’era qualcosa. C’era qualcosa si sbagliato nella voce di Neal. C’era ansia.

Peter se ne accorse osservandolo: non era il solito Neal. Non era il Neal disinvolto che siede sul suo divano e flirta con sua moglie; non era il ragazzo irriverente dell’ufficio e intraprendente nei piani.

Assomigliava a un cucciolo sperduto e impaurito. Assomigliava a un bambino che vorrebbe fare l’uomo e si sforza per riuscirci e non deludere qualcuno o forse se stesso. Era diversa dalla disperazione che gli aveva letto in faccia mentre lo stava salutando per salire sull’aereo che lo avrebbe portato lontano; non era la disperazione che lo aveva sconvolto quando Kate era morta sotto i suoi occhi.

Era qualcosa di più profondo; e di molto più complesso. E Neal continuava a sorridere; con quel sorriso troppo tranquillo per essere vero.

 

 

 

*****

 

 

 

“É stata una bella serata.”

“Aha. Sì. Molto bella.”

“El vuole replicare: vorrebbe assaggiare il tuo famoso risotto.”

“Si può fare” gli sorrise Neal, stringendosi nel cappotto a causa dell’aria fredda dell’inverno. “Ma con il mio risotto la birra non è concessa.”

“Mi posso adattare per una volta. Rosso o bianco?”

“Bianco. Un ottimo bianco secco morbido. Non più di due anni” recitò Neal, sogghignando all’espressione di Peter. “Se preferisci il rosso, posso provvedere lo stesso.”

“Lo procuri tu?”

“É il minimo.”

“Allora ti lascio scegliere.”

La villa di June era silenziosa e spenta. Moz doveva averlo aspettato per un po’, e June doveva essere andata a riposare già da alcune ore. Peter si fermò al cancello, gettando un’occhiata distratta all’edificio. Non era un esperto, non sarebbe riuscito a definire lo stile. Se glielo avesse chiesto Neal si sarebbe lanciato in una compita dettagliata illustrazione tecnica, ma a lui non interessava molto.

Era già incredibile che con i settecento dollari che il Bureau gli passava al mese Neal riuscisse non solo a vivere in quella villa nel centro di Manhattan, ma a permettersi il suo tenore di vita. Avrebbe dovuto indagare. Sui fondi nascosti che doveva avere, da qualche parte; sul tesoro nazista forse bruciato forse rubato. E proprio da Neal.

Aveva molto cui pensare, ma quella sera era stata davvero piacevole. Lo aveva invitato solo per metterlo alla prova, per cercare di controllarlo. Per capire perché lo stesse, di nuovo, sbattendo fuori. Perché all’improvviso fosse ridiventato diffidente – Neal è sempre diffidente anche se non lo mostra apertamente. Ma con lui, con Peter Burke, il rapporto è più complesso, più elaborato. Di lui Neal si fida.

E poi sembrava non fidarsi più.

Era iniziato così, con quella domanda che suonava come abituale. E quando Neal aveva detto no la sua deformazione professionale aveva preso il sopravvento, assieme a quel qualcosa che gli si rimestava nello stomaco.

“Ce la fai ad arrivare al letto?” lo canzonò per dimenticare i suoi stessi pensieri.

“Ce la faccio; ce la faccio” replicò Neal, mentre infilava con una leggerissima esitazione la chiave nella toppa d’ingresso. Neal reggeva bene il vino, ma quella sera con Elizabeth avevano brindato forse qualche volta di troppo. “Non era nemmeno necessario che mi riaccompagnassi. Non sono un bambino e mi so difendere.”

No. Non sei un bambino. Ma non sei nemmeno un uomo. Ancora.

“Prenditela con El. Ha insistito lei” gli ricordò e lo vide fare una smorfia.

Peter sorrise: Neal aveva gli occhi lucidi e ondeggiava leggermente. Non era ubriaco, lo sapeva bene, ma El non aveva voluto sentire scuse. Peter doveva accompagnare a casa Neal. A piedi, perché la neve iniziava a scendere sempre più abbondante a larghe falde. E ora era lì, ai piedi della piccola scalinata.

“Ci vediamo domani, allora” lo salutò alla fine con un gesto distratto della mano. Avrebbe voluto aggiungere una battuta, una frase scherzosa. Ma non era bravo con le parole lui, e lo sapeva. Era Neal quello che ti saluta con una stoccata.

“Ehi. Peter.”

Peter si girò. Neal era ancora sull’uscio, giocherellava con le chiavi.

“Ho ancora della birra in frigo.”

“Non hai bevuto abbastanza per questa sera?”

A Neal di solito quel tono paternale non piaceva. Ne rideva e gli ricordava che ormai era grande e non aveva bisogno di qualcuno a sorvegliarlo. E infatti Neal stava ridendo, i capelli appena spettinati e umidi. Per una volta, non sembrava esser preoccupato di apparire perfetto, non cercava di ricomporsi né appariva irritato.

“No. Non per me. Per te. Tu hai bevuto meno, no?”

Cos’era? Un invito? Dopo che aveva cercato di evitare la cena, ora lo invitava a salire? Come doveva prenderla?

“Sarebbe un peccato sprecarla. Non credi?”

Lo aveva lasciato lì, a tre passi dalla porta. E, in fondo, una birra – un’ultima birra – sarebbe stato un peccato rifiutarla. In fondo era stata El a dirgli assicurati che torni a casa e che stia bene.

Un bene pronunciato in un modo che Peter conosceva: El usava quel tono solo quando parlava di lui o di Neal. E quella sera era stato per Neal, perché anche El aveva capito che c’era qualcosa. Qualcosa che Neal non diceva e forse non avrebbe mai detto.

E per quella volta Peter decise di seguire il consiglio che El gli aveva dato quando Kate era morta: devi aspettare. Quando Neal ti vorrà parlare, tu dovrai solo esserci. Lo aveva fatto, aveva cercato di non rovinare tutto con il suo atteggiamento a tratti incalzante. Si era concesso solo quella telefonata e della voce di Neal, quella sera, gli era rimasto il ricordo come di un singhiozzo in quel è importante per me.

Vediamo se c’è qualcosa o è davvero ubriaco.

 

 

 

*****

 

 

 

“Non ho un bicchiere adatto.”

“Va bene così.”

Alla fine era salito: una birra, al massimo mezz’ora, e poi aveva il cellulare acceso. Se El avesse chiamato avrebbe risposto subito. Era raro che Neal lo invitasse in quel modo. Anzi: era raro che Neal invitasse qualcuno nel suo appartamento che non fossero Moz o June.

Va bene così si ripete, mentre osserva lo schizzo sul cavalletto. Ecco: quello lo ha notato. Neal dipinge molto; per allenarsi diceva. Per rilassarsi; come per il nuoto.

Lo osservò di sfuggita mentre riordinava velocemente il tavolino, raccogliendo i pezzi degli scacchi caduti per terra.

E adesso che faccio?

Neal strinse forte il cavallo. Perché lo aveva invitato a salire? In quei giorni aveva disperatamente cercato di evitarlo senza farglielo notare. Aveva cercato di ragionare sulla possibilità che Mozzie gli offriva: una vita nuova; un nome nuova; una libertà nuova. Basta con le truffe; basta con le menzogne. Basta con quella vita a scappare, a nascondere, a fingersi qualcun altro. Sarebbe stato Victor Moreau. E lo sarebbe stato davvero e per sempre.

Anche se avesse dovuto dire addio a New York; anche se avesse dovuto dire addio a Peter, Elizabeth e a quella nuova strana realtà in cui si era ritrovato.

C’era la lista, nel primo cassetto della cucina. C’era la lista che aveva rubato a casa di Peter alcuni giorni prima. E il sospetto di averlo invitato perché voleva che Peter la trovasse; voleva che si arrabbiasse e gli chiedesse spiegazioni. Voleva quello sguardo deluso e arrabbiato che – irrazionalmente – lo faceva star male senza capire perché.

Voleva che Peter gli urlasse contro che lo aveva deluso e lo rispedisse in prigione. Voleva – forse – che Peter scegliesse per lui.

Se fosse tornato in prigione. Se davvero avesse deluso Peter e fosse tornato in prigione, non avrebbe dovuto decidere se restare o lasciare tutto e tornare a scappare. Ma è quello che voglio?

Di certo, non si sentiva preoccupato all’idea che Peter si stesse appoggiando al piano di lavoro del cucinino, a pochi centimetri dalla lista. Forse ha ragione : ho bevuto troppo. Non sono lucido.

“Quello cos’è? La copia di un Raffaello?”

“No” si riscosse Neal, lasciando gli scacchi e raggiungendo Peter al cavalletto. “Non è una copia.”

“Vuoi dire che è tuo?”

“Sì” gli rispose, stringendosi nelle spalle. Peter, delle sue tele, aveva sempre visto le copie che eseguiva dei capolavori; non aveva mai osservato un originale di Neal Caffrey. Nulla di eccezionale, in verità. Lo aveva iniziato senza pensarci davvero, qualche sera prima che proprio non riusciva a prendere sonno; era ancor uno schizzo e, in verità, aveva ponderato la possibilità di gettarlo. Poi, per un motivo o per l’altro, l’aveva dimenticato sul cavalletto.

“Non è un granché” aggiunse, rivolto più a se stesso che a Peter.

“A El piacerebbe.”

Neal tornò a osservare l’abbozzo vagamente raffaellita di una donna con un bambino. Non aveva nulla delle Vergini rinascimentali, con la pelle candida e il viso pudico, un ovale perfetto, dagli occhi socchiusi in adorazione del bambino. La donna che Neal aveva schizzato aveva gli occhi vivi e seducenti, passionali, mentre sorreggeva sulle ginocchia un bambino dai tratti indefiniti.

“Tu e Elizabeth non avete figli” sussurrò alla fine, indispettito dal ricordo incoerente della camera da letto dei Burke che gli aveva attraversato la mente. Perché adesso? Perché pensarci mentre parlava con Peter di un quadro che forse non avrebbe mai terminato, con la possibilità di esser scoperto a pochi centimetri e l’inesistente scarica di adrenalina che di solito lo attraversava in quelle situazioni.

Perché? Perché?

Perché aveva di nuovo quella maledetta voglia di piangere nel risentire la voce di Peter che gli telefonava per sapere se fosse tutto a posto. Peter che non controlla la sua posizione; Peter che a modo suo di lui si fida e lo lascia libero più di quando dovrebbe. Peter che dovrebbe solo sorvegliarlo e, invece, fa di tutto perché non si ricacci nei guai. Peter che dai guai lo tira fuori e cerca di fargli capire cos’è quella cosa giusta da fare che Neal si sforza di capire e a volte sbaglia.

Non è rimorso si ripete. Non può essere rimorso. É qualcos’altro. Qualcosa che ricorda vagamente di aver provato solo quando era un bambino. Davanti ad una madre che, ormai, non ha più né volto né voce e non ha mai avuto nome.

“Non ne volete?”

“No. Non è quello” sorrise Peter. “Prima era troppo presto. Poi non sono arrivati. Non lo stiamo cercando a ogni costo, ma se succederà io e El ne saremmo felici.”

Neal annuì e si strinse nelle spalle.

La casa di Peter è piena di fotografie. La casa di Peter gli ricordava una nicchia in cui rifugiarsi, un posto dove le parole non hanno eco. Starebbe bene. Sì: nella casa di Peter un bambino ci starebbe bene. E ci sarebbe una culla ai piedi del letto; e poi la cameretta proprio lì, due porte a destra dalle scale. In quella stanza dove adesso si trovano solo vecchie scatole.

Ci starebbe bene si ripeté, e sentì una stretta fastidiosa allo stomaco. E di nuovo si rivide su quel letto, il cellulare in mano e Satchmo contro la sua gamba. Era stato male. Quando era tornato a casa con la lista, era stato male e aveva vomitato. Le ostriche aveva pensato. Le ostriche di Moz. Non erano fresche.

Ma, da quella sera, lo sapeva, aveva cercato di allontanare Peter. Perché me ne andrò si ripeteva. Ma quando lo guardava risentiva la sua voce e si rivedeva intruso in quella casa e di nuovo qualcosa gli diceva hai sbagliato.

“E tu? Mai pensato di sistemarti davvero e avere un figlio?” gli chiese Peter, spostando leggermente la testa di lato. Neal aveva le labbra strette in una linea sottile, perso dietro a ragionamenti solo suoi. Peter lo aveva visto così poche volte: quando era preoccupato di qualcosa. O di averlo deluso.

Lo aveva visto così, la stessa espressione, mentre gli intimava di non parlare e lo ammanettava. Aveva visto la disperazione e la paura in quegli occhi di solito maliziosi e irriverenti. E poi la rassegnazione mentre si lasciava ricondurre docile in carcere. E ricorda bene quando in carcere ci è tornato. E Neal non sembrava nemmeno Neal, con quella divisa arancione che lo faceva sembrare davvero troppo giovane e troppo spaventato. Anche se Neal non era spaventato. Era arrabbiato; deluso; a modo suo determinato. Ma non era spaventato.

“No” gli rispose intanto Neal. “Non sarei un buon padre” aggiunse alla fine con una smorfia.

“Secondo me sì” buttò lì alla fine, spingendo in fuori il labbro inferiore in una smorfia indifferente e abituale. “I bambini ti piacciono.”

“Peter” sorrise Neal. Un sorriso troppo adulto anche per lui. “E cosa gli darei? Una vita a scappare? O lo riempirei di bugie?”

Come ha fatto mia madre con me.

“Come ha fatto tua madre? Come per te?”

Neal annuì leggero, quasi non volesse dar peso alla cosa. Ma in qualche modo sapeva che il motivo era proprio quello: sua madre aveva inventato per lui una bella favola. E quando la storia si era sgretolata lui ci era rimasto davvero troppo male. E si era promesso io non lo farò. Se mai avesse avuto un figlio, lui non gli avrebbe mentito. Anche a costo di farsi odiare.

“La cavigliera non ci sarà per sempre, Neal.”

“Sì. Lo so.”

Giallo. Il copriletto in camera Burke era giallo. Con ricamati dei piccoli fiori di campo; e profumava di vaniglia. Vaniglia e limone.

“Ci hai mai pensato? Hai mai pensato a cosa farai dopo?” continuava Peter. “Puoi ricominciare.”

“Potrei lavorare ancora con te?”

Anche le pareti erano gialle. Un giallo pallido con le rifiniture bianche. E con le luci basse accese aveva un senso di intimo e familiare che Neal aveva sentito premere nel petto.

“Certo” gli assicurò Peter. “Ti piacerebbe?”

“Sì. Penso di sì.”

Non lo so.

Non c’erano quadri costosi; non c’era nulla che incontrasse completamente il suo gusto raffinato, in quella stanza. Eppure Neal sentì di apprezzarla. Desiderò svegliarsi in una stanza simile, con odore di caffè caldo e qualcosa. Una sensazione che gli si era agitata in fondo all’anima.

 

 

 

 

“Peter.”

“Mmh?”

“Quando eri nel furgone...”

“Quando ti ho telefonato?”

“Sì. Io...”

...ero in casa tua.

“Non dire niente. Va bene così.”

“Però io...”

...ti ho deluso.

“É stata solo una telefonata, Neal” gli ricordò. Solo una telefonata. “Non era nulla di particolare. Non mi devi dire niente, se non vuoi. Davvero.” Poi rise, una risata adulta e tranquilla, quasi paterna. “So essere paziente. Dovresti saperlo. Se hai bisogno di tempo, aspetterò.”

“Senza insistere?”

Senza indagare?

“Senza insistere. Sì.”

Vuoi provare a fidarti, Peter?

“Voglio provare a lasciarti fare a modo tuo, per una volta.”

Perché adesso?

“Pensaci su. D’accordo Neal?”

Perché solo adesso non vuoi capire?

“Sì. D’accordo Peter.”

 

 

 

Fermami Peter.

 

  
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