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Autore: Deilantha    07/09/2011    5 recensioni
Pasi è una diciannovenne impulsiva e socievole, dal futuro incerto ma dal buon cuore, che vive una situazione di conflitto in famiglia, sentendosi sempre la pecora nera rispetto ad una sorella apparentemente perfetta. Provando un vuoto affettivo tra le mura domestiche, Pasi si circonda di amici, che reputa la sua vera unità familiare.
Emile è il suo esatto opposto: non è un tipo socievole e vive esclusivamente per la musica, sul cui argomento è terribilmente arrogante. Ma il suo modo di essere così rigido e poco aperto agli altri, nasconde un dolore che il ragazzo si porta dietro dall’infanzia, dovuto ad una madre caduta vittima della depressione quando lui era ancora in fasce.
Emile e Pasi si scontreranno la prima volta che si vedranno, ma le loro vite sono destinate ad incrociarsi e farli crescere nella reciproca conoscenza.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Filrouge'
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Capitolo 2





 

Trascorsi quel giorno pensando a come affrontare la serata: cosa dire in caso avessi incontrato quel rossino (sperando di non doverlo vedere!) e come reagire in caso il gruppo mi fosse piaciuto… Ma quest’ultimo  pensiero lo tenevo stretto dentro di me e nessuno mai avrebbe sentito dalla mia bocca parole di elogio per questo fantomatico gruppo di dei della musica! No, lo avrei criticato e me ne sarei tornata a casa piena di gioia e soddisfazione! Però andandoci avrei fatto il gioco di quel tizio, pagando per sentire il suo gruppetto…  

Il suo gruppetto….

Il suo gruppetto!

Vuoi vedere che era un musicista anche lui! Ma certo, perché non c’avevo pensato prima?! Era venuto al concerto dei TresneT per osservare la “concorrenza”, ecco perché li criticava ostentatamente! Allora dovevo andarci di sicuro a sentirlo! Non m’importava più di dargli soddisfazione, di fare il suo gioco e di finanziare la sua esibizione, dovevo vedere che razza di musicista tronfio ed esaltato era, per vendicarmi in seguito con la più aspra delle critiche!

Stè passò a prendermi in perfetto orario e anche io stranamente ero stata del tutto puntuale, come tenne e precisare anche Testa di Paglia:

«WOW! Non ho atteso che un minuto, deve proprio interessarti parecchio quest’esibizione! Da quanto ti stavi preparando?» 

Stè mi conosceva troppo bene per non sapere che la mia rara puntualità era frutto di una preparazione ben studiata da tutto il pomeriggio: vestito, trucco e parrucco non sono cose che si possono inventare in mezz’ora, soprattutto quando scendi in guerra e devi mostrare il meglio di te!

«Uff, non posso nasconderti mai nulla! Stasera sono armata fino ai denti Testa di Paglia, devo essere al meglio e non c’è nulla di più galvanizzante per l’animo di una donna, del sentirsi perfettamente preparata!»

Stè si fece una delle sue belle risate allegre:

«Non finirete mai di stupirmi voi donne, avete la capacità di dare profondità alle cose più stupide!» e così dicendo fece partire l’auto.

Arrivammo al Dada verso le 21:30, in tempo per evitare la folla dell’ultimo secondo e aggiudicarci un piccolo tavolino da cui goderci lo spettacolo:  il locale era nato per ospitare esibizioni artistiche di ogni genere ed era provvisto di un bel palco che rendeva ogni spettacolo visibile da qualsiasi posizione. Era aperto ormai da dieci anni e sembrava essere un evergreen, c’era sempre folla al Dada!

In poco tempo infatti, tutta la sala si riempì e il vociare divenne insopportabile, finché finalmente qualcuno salì sul palco, presentò il gruppo e con la prima nota si accesero anche le luci su di esso: da lì in poi il tempo per me si fermò.

Avevo avuto la giusta intuizione, il rossino era il cantante del gruppo: al centro del palco, abbigliato totalmente di nero, la sua chioma accesa risaltava come il fuoco ardente di una torcia, e proprio come una fonte di luce, rubava la scena al resto del gruppo. Non era particolarmente dinamico, come molti frontmen che vanno su e giù per il palco al pari di un acrobata, bensì cantava restando fermo al suo posto, ma seguendo con il corpo il ritmo della musica e girandosi di tanto in tanto verso gli altri membri del gruppo.  C’era però qualcosa che lo rendeva assolutamente carismatico, qualcosa a cui non ero pronta: la sua voce. Era aspra e graffiante, ma aveva qualcosa che ti arrivava al cuore, un’asperità di quelle che ti causano una fitta, che non dimenticherai più. Cantava con passione, mettendoci tutto se stesso; sentivo che in quel momento stava trasmettendo le sue emozioni agli astanti, incurante del fatto che l’ascoltassero o meno. Guardava il pubblico mentre cantava, con un’espressione intensa che quasi mi faceva paura, ma avevo l’impressione che cantasse per qualcuno che non era lì, come se stesse dialogando con un ascoltatore invisibile e volesse fargli arrivare le sue parole.  Credo di essere rimasta pietrificata per tutta la serata, perché riesco a ricordare solo lui, che canta e che ad un certo punto prende una chitarra e si getta in un assolo che mi ha messo i brividi. Ricordo solo che all’accendersi delle luci in sala, nel caos degli applausi e delle urla, ho visto Stè che mi guardava sorridente e soddisfatto:

«Credo proprio che sia valsa la pena di venire qui stasera, vero?»

Lo guardai come se provenisse da un altro pianeta, poi mi riscossi e feci un pallido cenno di assenso:

«Non ho mai sentito qualcuno cantare in questo modo Stè! Sono sbalordita!»

Testa di Paglia mi diede un pizzicotto sulla guancia, in un gesto affettuoso di supporto e andò a prendere due birre. Io ne approfittai per  osservare la gente intorno a me: molti astanti stavano andando via, altri invece come il mio amico, erano andati a rifornirsi per un’ultima bevuta e pochi altri erano intenti a parlare animatamente. Qualcuno era sotto il palco indicando gli strumenti, erano in cinque e di sicuro parlavano del gruppo perché avevano un volto molto simile a quello che sentivo di avere io, ma c’era anche una certa soddisfazione in più. Molto probabilmente erano dei fans che conoscevano bene quei musicisti. Solo allora mi accorsi che uno di loro aveva dei depliants in mano e che li stava distribuendo girando per la sala, finché arrivò anche al mio tavolo:

«Ciao, scusa se ti disturbo, se ti è piaciuto il gruppo stasera, volevo lasciarti questo flyer con le prossime date, così potrai sapere dove trovarli se vuoi sentirli ancora.»

Era un ragazzo con gli occhiali e un orecchio tempestato di piercing, sicuramente coetaneo e amico del gruppo del rossino, che li stava aiutando a promuoversi.

«Grazie, lascia pure qui.»  mi ritrovai a dire prima ancora di rendermene conto, «Sono sba…» avevo iniziato a commentare l’esibizione con lui, ma si era già allontanato verso il prossimo tavolo  «…lordita..».

Guardai il flyer: avevano tantissime date, tutte nei locali dei dintorni  e anche qualcuna a chilometri di distanza, in fondo all’opuscolo c’era anche la notizia che stavano incidendo il loro primo album: non erano così principianti allora! Per incidere dovevano avere una casa discografica che li aveva sentiti e apprezzati e soprattutto, dovevano avere una buona fetta di pubblico che li amasse e seguisse da tempo!

Nel retro del flyer c’erano i nomi dei componenti del gruppo e li scorsi tutti cercando il nome che m’interessava conoscere: bassista, chitarrista, batterista, secondo chitarrista… cantante: Emile Castoldi. Aveva un nome straniero e un aspetto non proprio comune, ma non avevo sentito nella sua voce un accento particolare che denotasse la sua appartenenza ad un’altra nazionalità. Forse era un nome d’arte? O forse aveva dei genitori fantasiosi!

Iniziai a fantasticare sulla famiglia Castoldi, al tipo di persone che la componessero, considerato che quel tipo che tanto mi aveva sconvolto ne faceva parte e non mi accorsi che Stè nel frattempo era tornato.

«Allora, quando andiamo a risentirli?» alzai il capo all’improvviso sentendo la sua voce:

«Vuoi seguire il loro tour Testa di Paglia?» dissi sorpresa all’idea.

«Perché no Testarossa?! Sono bravi e non puoi dire che non ti siano piaciuti; invece di buttare le serate da un locale all’altro senza meta, almeno ne trascorriamo qualcuna sentendo bella e buona musica.»

Aveva ragione, era bella e buona musica e in quel momento realizzai che il rossino, quell’Emile, mi aveva dato una lezione e che io avevo perso la sfida su tutti i fronti!

Non risposi a Stè, iniziai a bere la mia birra e cambiai discorso, anche se nella mia testa mi arrovellavo per cercare di convivere con la rabbia di aver dovuto dar ragione a quel tipo e lo sbigottimento per aver scoperto melodie nuove e decisamente emozionanti ad un passo da casa mia.

Solo quando Stè mi riaccompagnò a casa decisi di rispondere:

«D’accordo, andiamo!»

Testa di Paglia mi guardò perplesso:

«Andiamo dove Pasi?»

Avevo esordito all’improvviso dopo un lasso di tempo trascorso in silenzio, e giustamente Stè non sapeva di cosa stessi parlando.

«Andiamo a sentirli di nuovo! Voglio riascoltarli e capire se sono davvero così talentuosi o se è stato solo l’effetto del primo impatto con la loro musica che mi ha scioccato!»

Avevo trovato un misero compromesso con me stessa: non volevo alzare ancora la bandiera bianca, mi dovevo dare una seconda possibilità e provare a me stessa che mi ero fatta condizionare, che ad un secondo ascolto non sarebbero stati poi così eccellenti.

«D’accordo Testarossa, sei sempre la solita testarda ed è inutile che ti faccia notare che ormai non te li leverai più dalla testa, tanto me lo dirai tu tra qualche tempo!» con uno dei suoi migliori sorrisi e uno dei soliti caldi abbracci mi salutò , dandomi la buonanotte.   

Ma la mia notte non fu così buona: sognai Emile che cantava, che mi guardava soddisfatto e mi derideva con una luce maliziosa negli occhi perché si era dimostrato più capace dei TresneT, più bravo di molti musicisti affermati e mi aveva mostrato che aveva ragione, che la sua arroganza aveva un buon motivo di esistere.

 

******

 

«Pasifae sei sveglia?»

«Mmmmm»

«Pasifae?»

«Mmmm….mamma che c’è?!»

«Io e tuo padre andiamo, ricordati che ci siete solo tu e Simona oggi in casa.»

«Mmm»

«Ok, ti lascio un bigliettino, ciao.»

 

Percepii che mia madre mi stava dando un bacio prima di andar via, ma quando mi svegliai non ricordavo più nulla di quello che mi disse. Non che avessimo fatto un grande discorso: cercare di svegliarmi è sempre stata un’impresa degna di Frodo Baggins e in questo caso, dopo una notte costellata di sogni sgradevoli, ero molto più che assonnata! Perciò quando mi alzai mi guardai intorno sorpresa di non vedere anima viva in casa.

Poi lessi il bigliettino di mia madre: lei e mio padre erano andati al matrimonio di un cugino, a cui io e mia sorella avevamo ben pensato di non partecipare, così per tutta la giornata avremmo potuto goderci un placido silenzio. A dir la verità la mia famiglia era tutto fuorché rumorosa: sempre attenti a mantenere una buona reputazione per il vicinato, i miei genitori non avevano mai alzato la voce, tenuto un volume troppo alto o fatto rumori molesti. L’unica fastidiosa della famiglia ero io! Erano sempre tutti così compiti  e impassibili, sempre pronti ad accogliere il lato pesante e tetro della vita senza mai concedersi un giorno di allegria… Non avevo mai visto i miei genitori  prendersi un giorno di ferie, andare a cena fuori, viaggiare… Doveri e sacrifici, sacrifici e doveri, questo era il binomio perfetto di  Adele e Vittorio Isoardi!

E mia sorella Simona non era da meno: tranquilla, ponderata e pignola, non la vedevo mai adirarsi, mai innervosirsi per qualcosa. L’unico segno che fosse adirata era dato dal corrucciarsi delle sue sopracciglia! Capoclasse a vita, beniamina di tutti gli insegnanti, sempre capace in ogni cosa che faceva, era l’orgoglio dei miei genitori: era anche in procinto di laurearsi in ingegneria e non osavo  immaginare l’uragano di orgoglio genitoriale che avrebbe investito la casa in cui vivevo… e che avrebbe messo per contrasto la sottoscritta nell’ombra più cupa dell’infamia!

Io ero la pecora nera.

Quella che urlava, quella che si agitava e diceva tutto quello che le passava nella testa, ma soprattutto, ero quella che non aveva uno scopo nella vita. Avevo terminato le scuole superiori da qualche mese e non mi ero ancora decisa ad iscrivermi ad una facoltà universitaria: ormai tutti i miei coetanei erano presi dai corsi, Stè incluso, anche se lui  la prendeva alla leggera (come era suo solito), mentre io ancora non sapevo nemmeno se iscrivermi o no. O meglio, fosse stato per la mia sola volontà, ne avrei fatto volentieri a meno! La scuola è sempre stata un incubo per me: chiusa in quelle quattro mura a fare il soldatino ubbidiente che risponde come vogliono i prof, senza poter esprimere un parere personale e sempre con l’ansia da prestazione per ogni interrogazione! Quando sei figlia di due professori, e sorella minore di un topo di biblioteca, tutti si aspettano da te come minimo il 100% e se risulta che tu sia un genio è tanto di guadagnato! Invece io a mala pena riuscivo ad arrivare al sette: stare sui libri mi opprime, anche se poi leggere mi piace, ma il solo pensiero di dover studiare pagine e pagine, di dover forzatamente memorizzare tutto e impararlo alla perfezione per la gioia altrui, mi faceva salire l’orticaria e un senso di nausea profonda!

Ma come fai a dire ai tuoi genitori che rinunci agli studi? Per fare cosa poi?

Avessi avuto uno straccio di idea almeno!

Fede appena diplomato era entrato a lavorare in una comunità per tossicodipendenti: era un lavoro impegnativo e difficile, ma lui l’adorava e senza pensarci mezza volta aveva rinunciato agli studi per stare accanto a persone che “hanno bisogno di calore umano”,  per usare le sue parole. Qualche volta sono andata anche io a dare il mio contributo come volontaria e l’esperienza è stata davvero  interessante e profonda, credo che mi piaccia dare una mano a chi ha perso un po’ di luce lungo la strada.  Ma come potevo dire ai miei illustrissimi e acculturati genitori che rinunciavo allo studio?

Ho iniziato a sentirmi a disagio nella mia famiglia praticamente da quando riesco a ricordare: ero la piccola di casa, la pestifera, quella che turbava la quiete e quando sono andata all’asilo, quella che litigava con i compagni che la prendevano in giro perché non sapeva dire il proprio nome.

Sfido chiunque a cinque anni a dire PASIFAE e a ricordarsi nello scriverlo, che c’è un dittongo che non va letto! Tutto merito della brillantezza di mia madre, che da professoressa di greco e amante di tutto ciò che è ellenico, decise di darmi il nome della regina di Creta, moglie di Minosse e madre di Arianna… e del minotauro!

Quanto odiavo il mio nome!

Ridicolo, fuori moda e bersaglio facile per domande idiote e insulti di vario genere: “Pasifae non sa il suo nome! Che razza di nome è Pasifae?! Ma sei turca? Ma sei straniera? E come si scrive? Allora sei una mucca! A Pasifae piacciono i tori!” e via dicendo scadendo sempre più nel volgare mano a mano che crescevo e incontravo idioti pronti a deridermi! Così per gli amici e per tutti quelli che incontro ora, io sono solo PASI, semplice, criptico e senza pretese!

Guardai l’orologio: erano le 11:00, avevo decisamente dormito troppo! Ma quando inizi a sognare cantanti dai ricci rossi a cespuglio che ti guardano con aria di sufficienza mentre tu non sai se adorarlo o odiarlo, sfido io a dormire di meno e svegliarti riposata! Per fortuna i miei genitori non c’erano e potevo godermi ugualmente una bella tazza di latte e cereali! Ero in procinto di prepararmi  la mia ricca  colazione quando squillò il telefono:

«Pronto?» silenzio. Sentivo qualcuno dietro la cornetta, ma evidentemente non c’era desiderio di parlare, altra cosa che mi faceva saltare i nervi!

«Senti, se non hai voglia di parlare o sei hai intenzione di dare fastidio, hai preso la persona sbagliata, sono già di pessimo umo…»

D’un tratto sentii qualcuno che parlava mentre io sbraitavo infuriata:

«Pasi sono io.»

Simona mi stava chiamando da un telefono pubblico, altrimenti avrebbe usato i nostri cellulari per chiamare... ma dove si trovava? Doveva essere in facoltà ora! 

«Simona, è tutto ok?» la sentivo restia a parlare e la mia ansia crebbe di colpo: «È successo qualcosa Simo!?!» Di nuovo il silenzio e poi dopo qualche secondo, un sospiro profondo:

«Pasi sono al pronto soccorso, mi sono rotta una gamba!»

«CHECCOSAA?!»

Simona, Miss Perfezione, si era fatta male! Cosa diavolo aveva combinato per rompersi una gamba?!

«Ma chi… Che hai combinato? O meglio, com’è successo? Qualcuno ti ha spinto? Ti hanno picchiato?»

«N-no tranquilla, non è accaduto niente, solo…puoi venire a prendermi? Gli altri se ne sono andati e non posso tornare da sola a casa...»

Gli altri… quindi era con qualcuno, o meglio lo era stata.

«Vengo subito Simo, aspettami!» corsi a cambiarmi, pensando con rammarico alla mia tazza di latte e vestendomi in tutta fretta, scesi le scale che davano nell’ingresso e cercai le chiavi dell’auto…per ricordarmi che non ce n’erano! Una era con i miei genitori e l’altra l’aveva Simona. Dannazione! Poi mi resi conto che c’era ancora un mezzo di trasporto in rimessa, per quanto misero potesse essere: la mia bici. Così ringraziando il cielo di aver deciso  di mettere i pantaloni, risparmiandomi un’altra salita in camera mia per cambiarmi, uscii di casa diretta all’ospedale con la mia fedele due ruote.

 

*****

 

Arrivai all’ospedale in poco tempo, parcheggiai la bici e salii al pronto soccorso: Simona era nel corridoio, aveva già una fasciatura alla caviglia ed era in attesa del controllo dell’ortopedico. Appena la vidi, mi precipitai da lei e le chiesi senza troppe cerimonie:

«Cosa diavolo è accaduto? Non è da te cacciarti in questi guai!» infatti, quella di solito era una mia prerogativa…

«S...sono caduta dalle scale in facoltà, mi hanno urtato e ho perso l’equilibrio mentre scendevo...» Simona non mi guardò in faccia mentre parlava, sembrava davvero mortificata, non l’avevo mai vista così... umana! Mi sedetti accanto a lei e le diedi un buffetto su una delle mani che teneva tese sulle gambe:

«Dai su, non è la fine del mondo, ti rimetterai presto»  e per una volta nella vita non sarò io il bersaglio del malcontento dei nostri genitori, pensai con cattiveria, ma me ne pentii subito, non era colpa di Simona se era una figlia modello, ero io che non andavo bene in quella famiglia!

D’improvviso mi resi conto che al ritorno dall’ospedale, avrei dovuto guidare l’auto, lasciando incustodita la bici! L’auto di Simona era una misera utilitaria senza un portabagagli degno di quel nome, era impensabile potervi inserire la mia due ruote…. Dovevo chiamare qualcuno che la portasse nella propria auto e in quel caso c’era solo una persona che poteva farlo.

«Simo scusami un attimo, devo fare una telefonata.»

«Non vorrai chiamare mamma e papà?!»

Mi guardò col terrore negli occhi: lei che era la gioia dei nostri genitori, temeva le loro ire?! Ed io allora come avrei dovuto comportarmi?! Ero una continua delusione per loro, mi sarei dovuta contorcere in preda alla disperazione ogni volta che sapevo di averli rattristati?!

«No no, sta tranquilla, devo risolvere una questione pratica, di trasporto.»

 

Ero a far la fila per il telefono (nella fretta avevo dimenticato il cellulare, e a quanto pareva era una situazione comune a molti, visto che c’erano almeno cinque persone davanti a me in attesa di usare l’unico telefono pubblico del pronto soccorso) tenendo d’occhio Simona, quando all’improvviso dal corridoio vidi comparire Emile! Stava parlando con un dottore e aveva l’aria concentrata: anche un suo familiare si era cacciato nei guai?  Ma proprio in posto simile dovevo incontrarlo? Dopo i brutti sogni che mi aveva causato, l’istinto di andargli vicino e tirargli un pugno su quel viso saccente era quasi incontenibile!

Poi però notai che accanto a lui c’era una donna minuta, bruna e silenziosa. Il dottore le stava dicendo qualcosa ma lei guardava dinanzi a sé come se non lo ascoltasse, mentre Emile era il ritratto della concentrazione: ascoltava ogni singola parola mentre circondava la donna con un braccio e quando il medico si allontanò, fece sedere la sua compagna con gentilezza, si accoccolò di fronte a lei parlandole con un sorriso gentile sul viso e le diede un dolcissimo bacio sulla fronte prima di alzarsi e lasciare la donna in compagnia di un’infermiera. Mi resi conto di essere rimasta fissa ad osservarlo per tutto il tempo e mi riscossi solo quando qualcuno dietro di me mi fece segno che il telefono era a mia disposizione (e di quelli che attendevano che mi sbrigassi ad usarlo!).

 

*****

 

Stavo tornando da Simona, ripensando alla scena di poco fa, quando vidi tornare Emile e sentii anche una voce dall’altro capo del corridoio:

«Testarossa!»

Eccolo Stè, il cavaliere senza macchia e senza paura sempre pronto ad aiutarmi (soprattutto se c’era Simona di mezzo): di solito non mi dava fastidio la sua esuberanza nel chiamarmi ovunque a gran voce, io ero la prima a farlo; ma in questo caso, quell’appellativo tanto familiare, aveva fatto girare anche un’altra testa, veramente rossa, nella direzione di Stè e seguendo i suoi passi, gli occhi di Emile arrivarono su di me.









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NDA

La scrittura di questa storia continua con piacere e gioia per me e sono commossa dall'entusiasmo con cui le mie sorelline hanno accolto il primo capitolo, per cui se anche il secondo vi entusiasmerà non potrà che farmi felice, visto che ne ho scritti una decina finora e spero vi possano piacere tutti (egocentrica me xD) ^ ^

Tuttavia, se avete critiche e/o suggerimenti sono pronta ad accoglierli, il confronto fa bene alla crescita interiore ^ ^

Grazie mille a tutti voi che avete letto e a chi recensirà e come sempre, un grazie immenso alla mia Tomodachi - Beta Reader Iloveworld, sempre pronta a consigliarmi e a condividere con me questo momento di creatività entusiasmante :*

   
 
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