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Autore: My Pride    07/09/2011    5 recensioni
Even if this is an illusion shown by my left eye, I won’t stop believing.
Non mi ero mai soffermato sul pensare a cosa avrei potuto chiedere se mi fosse stata concessa la possibilità di realizzare un mio qualsiasi desiderio.
Se fosse stato davvero fattibile, però, avrei sicuramente chiesto che quell’incidente in cui ero stato coinvolto non capitasse, così da poter continuare la mia carriera da giocatore di baseball ed evitare quei miei strambi viaggi nel tempo.
[ Spin off della storia «Breaking the World» ]
[ Partecipante alla challenge «Contest of Passions» indetta da ellacowgirl ]
[ Terza classificata al contest «Just a Yaoi Wish!» indetto da Akira Haru Potter ]
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
- Questa storia fa parte della serie 'Breaking the World Series ~ Bonus Track'
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Illusions, dreams and Farplane
[ Terza classificata al contest «Just a Yaoi Wish!» indetto da Akira Haru Potter ]

Titolo: Illusions, dreams and Farplane › Breaking the World 1.5
Autore: My Pride
Fandom: Originali › Sovrannaturale
Coppia/e: Stephen O’Neal / Jonathan Wilson
Lettera e numero scelto: Lettera J › Chiavi arrugginite  / Numero 8 › Color limone
Tipologia: Doppia One-shot
Genere: Drammatico, Romantico (Dipende molto dai punti di vista e dall’idea di romantico), A tratti vagamente introspettivo, Malinconico
Rating: Giallo / Arancione
Prompt per la challenge: 18° Argomento: Futuro › Desiderio
Avvertimenti: Slash, Vagamente - o forse anche troppo - nonsense
Nota1: Spin off della storia Breaking the World
Nota2: Nel corso della storia potrebbero essere presenti espressioni come “Aye” e “Nay”, che significano rispettivamente “Sì” e “No” in italiano, e “Och”, che è un rafforzativo del “Sì”. Esse non sono un errore, bensì una scelta personale dell’autore, ormai affezionatasi a tale dicitura.
Nota3: La prima parte della seguente storia è ambientata tra la fine del terzo e l’inizio del quarto capitolo di Breaking the World, precisamente durante gli avvenimenti accennati in quest’ultimo.
La seconda parte, invece, non si ricollega ad avvenimenti precisi, bensì è un frammento intuibile solo da chi ha letto anche il quinto capitolo del racconto. 
Introduzione: Even if this is an illusion shown by my left eye, I won’t stop believing.
Non mi ero mai soffermato sul pensare a cosa avrei potuto chiedere se mi fosse stata concessa la possibilità di realizzare un mio qualsiasi desiderio. Se fosse stato davvero fattibile, però, avrei sicuramente chiesto che quell’incidente in cui ero stato coinvolto non capitasse, così da poter continuare la mia carriera da giocatore di baseball ed evitare quei miei strambi viaggi nel tempo.


DISCLAIMER:
All rights reserved © I personaggi presenti in questa storia sono tutti maggiorenni e mi appartengono, dal primo all'ultimo. Sono comunque frutto di pura immaginazione. Ogni riferimento a cose e persone realmente esistite e/o esistenti è puramente casuale.
This work is licensed under a Creative Commons Attribution-Noncommercial-No Derivative Works 3.0 License.



ILLUSIONS, DREAMS AND FARPLANE [1]
 
Even if this is an illusion shown by my left eye,
I won’t stop believing.

   
    Non mi ero mai soffermato sul pensare a cosa avrei potuto chiedere se mi fosse stata concessa la possibilità di realizzare un mio qualsiasi desiderio. Se fosse stato davvero fattibile, però, avrei sicuramente chiesto che quell’incidente in cui ero stato coinvolto non capitasse, così da poter continuare la mia carriera da giocatore di baseball ed evitare quei miei strambi viaggi nel tempo. Era ciò a cui pensavo mentre aspettavo Stephen, seduto su una di quelle sedie di plastica nella sala attigua allo studio di Dawson Morrison, il vecchio legale della famiglia O’ Neal.
    Quella era già la seconda volta che andavamo a trovarlo, ma Stephen si guardava bene dallo spiegarmi il perché. Non che mi aspettassi che lo facesse, d’altronde; sapevo bene che quell’uomo, sebbene ne avesse l’aspetto, non era il mio miglior amico e non mi doveva nessuna spiegazione. Per lui ero soltanto una sottospecie di semisconosciuto che gli era piombato in casa meno di quattro giorni prima.
    Dopo quella che mi sembrò l’ora più interminabile della mia vita, tanto che avevo quasi rischiato di addormentarmi su quella sedia, mi sentii picchiettare la spalla e alzai lo sguardo, incontrando il viso di Stephen. Aveva un’espressione che avrei definito a dir poco contrariata, ma non avevo intenzione di indagare sul perché, giacché avevo imparato che quell’aria burbera che aveva non era soltanto una facciata. «Andiamocene, forza», mi esortò, facendo un cenno verso l’ingresso prima di cominciare ad incamminarsi da solo, senza aspettarmi.
    Mi sgranchii braccia e gambe e lo seguii svelto, scroccando anche il collo mentre di tanto in tanto gli gettavo qualche occhiata. Gli occhi verdi erano quasi ridotti a due fessure e bofonchiava fra sé e sé a labbra serrate, difficile però capire esattamente cosa stesse farfugliando. Persino il modo in cui camminava lasciava trapelare il suo nervosismo, e probabilmente non me ne sarei nemmeno dovuto meravigliare.
    «Lì dentro è successo qualcosa?» domandai di getto, guadagnandoci qualche mezza imprecazione prima che lui appuntasse lo sguardo su di me, nervoso.
    «Niente», sbottò. «Non è successo niente di niente».
    Niente, certo. Per chi mi aveva preso? Ma non insistetti, anche perché non sarebbe servito. Quel lato del suo carattere era identico a quello del mio amico Steve: testardo fino alla fine. Quella sua sottospecie di sosia mi stupiva ogni giorno di più.
    Restammo in silenzio per tutto il tragitto, attraversando strade e viali innevati ghermiti di gente. Sebbene non fossi realmente sicuro del mese in cui ci trovavamo, quell’atmosfera che si respirava era simile a quella carica d’attesa del Natale: ero più che certo che non fosse quel periodo, visto che in giro non c’era nessun addobbo, però sarebbe anche potuto mancare un mese senza che io lo sapessi. Veniva da chiedersi perché non lo domandassi direttamente a Stephen, ma avevo ormai deciso di restare all’oscuro di quel particolare. Era forse stupido credere che saperlo avrebbe potuto provocare un paradosso? Probabile.
    Quel che era certo, però, era che i volti sorridenti delle persone che incontravamo sembravano farci dimenticare momentaneamente il problema in cui eravamo coinvolti, e non era affatto una cosa del tutto positiva. La miniera era ancora un’incognita, ma dal momento in cui c’era stata quella sparatoria in casa ero più guardingo di Steve. Mi preoccupavo più io della sua vita che lui, il che mi sembrava quasi assurdo, visto che lui faceva di tutto per tenermi fuori da quella questione. Sebbene gli avessi spiegato cos’ero capace di fare e perché mi ero dunque ritrovato nel suo giardino, non mi credeva ancora del tutto. E la situazione stava cominciando a diventare un tantino snervante.
    Quando passammo dinanzi alla vetrina di una libreria mi fermai ad osservarla, poggiando su di essa i lati delle mani per dare una scorsa all’interno sotto lo sguardo stranito e scocciato di Stephen. La vasta gamma di titoli presenti mi illuminava gli occhi, quasi fossi stato un bambino che scartava i propri regali la mattina di Natale. C’era persino La sposa di Lammermoor
[2], il libro preferito del mio Stephen.
    «Ehi, muoviti», mi richiamò il sosia di Steve. La sua voce era scostante e mesta, come se in quel momento la sua testa fosse altrove. «Dobbiamo andare in un posto».
    Mi lasciai sfuggire un lungo lamento mentre mi allontanavo - con una certa delusione, bisognava aggiungere - dalla vetrina, lanciando a Steve un’occhiata. «Non da un altro avvocato, spero», dissi, vedendolo scuotere di poco il capo prima di rimettersi in cammino. Non mi disse il luogo in cui eravamo diretti, però mi limitai semplicemente a scrollare le spalle, seguendo le impronte lasciate dalle sue scarpe nella neve. Il freddo non era intenso come gli altri giorni, però piccole nuvolette di vapore si condensavano in aria ogni qual volta aprivo la bocca.
    Attraversammo quello che portava il nome di quartiere Mayfair, dove le persone cominciavano già a scarseggiare a causa dell’umidità e della maggior presenza di neve. Era un bel posto, non c’era alcun dubbio, e ricordava quasi quei luoghi un po’ all’antica che ero abituato a vedere solo nei vecchi film anni ’50. In una stagione come la primavera, poi, sarebbe sicuramente stato un gran bello spettacolo grazie alla vegetazione presente, giacché sembrava quasi di trovarsi in un giardino su vasta scala.
    Sorpassammo un paio di villette a due piani circondate da siepi che delimitavano il territorio, svoltando a destra per raggiungere invece quelle case condominiali tipiche di Londra, dove il proprietario affittava camere che sembravano veri e propri appartamenti. Avevo cominciato ad avvertire al tempo stesso uno strano brivido serpeggiare lungo la mia spina dorsale, e in un periodo come quello non era mai un buon segno quando capitava. Stava soltanto a significare che c’era qualcosa che non andava, e forse non ci voleva un indovino per capirlo.
    Fino a quel momento non avevo fatto nessuna domanda, però me ne lasciai sfuggire una quando Steve estrasse dalla tasca del giaccone un paio di vecchie chiavi. Sembravano parecchio arrugginite e incrostate di sangue - e sperai fosse solo l’impressione che dava quel colore bruno-rossiccio -, e le guardava assorto nel palmo della mano, quasi avessero per lui un valore particolare.
    «Dove siamo?» domandai, vedendo lui trarre un lunghissimo sospiro prima di stringere forte quel mazzo di chiavi.
    «Sean abitava qui», sussurrò, alzando gli occhi per osservare attentamente quella casa di mattoni gialli che ricordava un grosso limone. Le finestre erano opache, come se nessuno le pulisse ormai da tempo, ed ero sicuro che, se non ci fosse stata la neve, l’erba sarebbe stata alta fin quasi lo steccato dipinto di azzurro. «Il suo appartamento era al piano di sopra. L’aveva affittato per mostrarsi indipendente agli occhi di nostro padre, volendo vivere come un semplice ragazzo che si pagava da solo gli studi», a quel suo stesso dire sorrise un po’ tristemente, quasi si stesse perdendo nei propri ricordi, «e ha vissuto qui anche dopo aver terminato Oxford, andandosene solo una volta sposato. Quella stronza di Margaret non gli ha permesso di portare niente di suo, nella nuova casa. E lui lo ha accettato. Lui, lo Sean che non si sarebbe mai separato dalla sua collezione di dischi in vinile dei Beatles
[3], aveva accettato quella condizione senza fare storie». Strinse più forte la mano a pugno - tanto che non appena l’avesse aperta si sarebbe di sicuro ritrovato l’odore di ruggine e lo stampo delle chiavi sul palmo -, voltandosi appena verso di me. «Dawson non poteva scegliere momento peggiore per darmi queste stupide chiavi». Guardò nuovamente la casa, raschiandosi il labbro inferiore con i denti. «Già, non poteva scegliere momento peggiore».
    La malinconia che trasparì dalla sua voce fu capace di stringere il mio cuore in una morsa, giacché potevo benissimo capire cosa stesse provando in quel momento. Io non avevo mai avuto fratelli, ma mio padre era morto in seguito ad un infarto sette anni prima, dunque potevo comprendere il dolore della perdita. Avevo ancora mia madre, certo, ma non avevo la minima idea di dove fosse. L’ultima volta che l’avevo sentita si trovava nell’Ohio, però era famosa per il suo sparire nel nulla in pochi giorni. Forse questo era stato uno dei motivi per cui mi ero legato a Stephen: anche la sua infanzia non era stata delle migliori.
    Mi avvicinai a quello Steve e gli poggiai una mano su una spalla, stupendomi che non l’avesse allontanata. Guardava invece quella casa, verso le finestre del secondo piano, estraneo al freddo che cominciava a calare e a tutto ciò che gli capitava intorno. «Forse ci converrebbe rientrare», gli dissi piano, non volendo disturbare quel momento di quiete che ci aveva avvolto. «Sta cominciando a far freddo».
    Non mi rispose ma, dopo aver abbassato brevemente le palpebre, si ritrovò ad annuire, trovando il coraggio di dare finalmente le spalle a quella casa per lasciare lì i suoi ricordi. Anche se non lo dava a vedere, sapevo che soffriva già abbastanza senza che si perdesse nel suo passato.
    Sulla via del ritorno non ci soffermammo su niente in particolare, osservando di tanto in tanto gli oggetti esposti nelle vetrine dei negozi senza un reale interesse, per nulla vogliosi di intavolare un qualche discorso. Quella visita a quel vecchio appartamento, sebbene non ci fossimo entrati, aveva scombussolato anche il mio animo, non soltanto il suo. E non era strano che mi ritrovassi a pensare che, in fin dei conti, quello Stephen non era poi tanto diverso dal mio miglior amico. Il suo modo di porsi era diverso, questo non lo negavo, ma nei meandri del suo cuore albergava un frammento dello Stephen O’Neal che avevo sempre conosciuto, quello Steve che adorava Star Wars e che aveva una cotta per i picchiaduro. Lo Steve che avevo imparato ad amare.
    A distrarmi da quei miei pensieri, fu l’entrata di una macchina nel mio campo visivo. In essa non c’era niente di così strano, in realtà, a parte forse il colore, che ricordava un limone maturo proprio come la casa che avevamo da poco lasciato. Io e Stephen procedevamo sul marciapiede in direzione dell’Illusions, e fu quando vidi quell’auto venirci in contro che sentii che qualcosa non quadrava; prima ancora che potessimo rendercene conto la macchina sgommò, scivolando sul ghiaccio che ricopriva i lati del marciapiede per puntare dritta verso di noi. Lo stridio dei freni fu così forte da trapanarmi il cranio, e riuscimmo ad evitare quell’auto solo per un soffio, gettandoci sulla neve nello stesso istante in cui la vettura si schiantò contro un edificio alla nostra destra.
    L’urlo sconnesso di una donna mi riempì le orecchie, e boccheggiai mentre mi issavo a fatica, cercando di riordinare i pensieri nella mia mente stordita dallo shock; non mi accorsi neanche della mano di Steve che afferrava la mia per aiutarmi a rimettermi in piedi, né tanto meno delle parole sconclusionate che lui e la gente che aveva assistito stavano pronunciando. Era come se mi trovassi in una bolla di sapone: attutiva i suoni ma era al tempo stesso pronta ad esplodere.
    «Ehi, tutto okay?» mi venne chiesto da qualcuno, e fui solo quando fui certo di aver capito bene la domanda che risposi, limitandomi a fare un breve cenno affermativo con la testa. Mi aggrappai inconsciamente alle spalle di Stephen, quasi rappresentasse per me un’ancora in mezzo a quel caos che imperversava nel mio cervello, giacché avevo la terribile sensazione di aver già vissuto una scena simile. Cosa poteva mai significare? Non lo sapevo, ma quando sentii anche il suono delle ambulanze quella stessa sensazione aumentò, lasciandomi letteralmente senza fiato.
    Venni trascinato via di peso qualche istante dopo, però non mi opposi; avevo il pressante bisogno di andarmene da lì, di raggiungere un luogo sicuro, di lasciarmi alle spalle quello che era di sicuro stato un tentativo di omicidio. Non potevo esserne sicuro al cento per cento, ma dopo quella sparatoria in casa, beh... qualche dubbio sulla casualità di quell’incidente potevo anche averlo.
    Eravamo fuggiti dal luogo dell’incidente prima ancora che arrivasse la polizia, probabilmente perché anche Stephen aveva a sua volta pensato che dietro a quella storia ci fosse Margaret. Quella miniera doveva nascondere qualcosa di ben più prezioso dei diamanti se spingeva una donna già ricca a macchiarsi di non uno, ma bensì due omicidi. Prima suo marito, poi Stephen... che cosa c’era dietro tutta quella storia? Forse chiarire i miei dubbi sulla morte di Sean avrebbe in parte aiutato.
    Quando giungemmo finalmente all’Illusions, i miei nervi ebbero un attimo di tregua; ci sedemmo al solito tavolo come se quasi mezz’ora prima non fosse successo assolutamente niente, sebbene nell’aria aleggiasse quell’atmosfera di ansia e nervosismo che avrebbe dovuto farmi desistere dal restare tranquillamente accomodato lì.
    «È stata Margaret, non è così?» dissi d’un tratto, stupendomi della mia stessa voce. Sembrava bassa e stridula come il primo miagolio di un gattino.
    Nel sentirmi, Stephen mi guardò attentamente e, nonostante apparisse calmo, il tremore all’angolo dell’occhio sinistro lasciava intendere che fosse più agitato di me. Anche Steve, quand’era nervoso, aveva quella specie di tic all’occhio. «Non voglio mentire a me stesso nel credere che sia stato solo un caso», rispose pacatamente, «quindi, aye, è sicuramente stata lei. Quella era di certo un’auto dei suoi dipendenti, e quel povero disgraziato che la guidava doveva essere uno di loro».
    «Si sta esponendo troppo», gli feci notare, scandendo bene le parole prima di umettarmi le labbra e deglutire. «Mi hai forse nascosto qualcosa? Non posso aiutarti se non sei sincero con me».
    «Ti ho detto tutto quello che so», ribatté immediatamente, forse persino indispettito. «Se c’è altro, è qualcosa di cui solo Margaret è a conoscenza».
    Mentiva o diceva la verità? Dalla lucidità dei suoi occhi verdi sembrava proprio che dicesse sul serio, e, a ben pensarci, che bisogno aveva di mentirmi? Sarebbe stato controproducente sia per me che per lui. Sospirai e cercai di mettermi comodo sulla sedia, osservando con finta attenzione il menù che avevo dinanzi prima di tornare a fissare lui. «Allora devo chiederti una cosa molto importante», cominciai, tentando di essere il più delicato possibile per non urtare la sua sensibilità. Lo vidi però farsi attento, così decisi di prendere il coraggio a quattro mani; trassi un lungo sospiro e socchiusi di poco gli occhi, arrivando infine al nocciolo della questione. Sapevo che avrebbe potuto ignorarmi e basta, ma dovevo tentare. «Se è troppo doloroso puoi anche non rispondermi, ma vorrei sapere com’è morto tuo fratello».
    Per qualche secondo continuò a guardarmi, non aprendo però bocca. Sembrava assorto in qualche ragionamento che io non comprendevo, come se stesse cercando le parole adatte per rispondermi o non volesse farlo affatto. Alla fine socchiuse gli occhi e si voltò, ritrovandosi a guardare poco distante la figura di Janet, la cameriera dell’Illusions, senza però vederla davvero. «In seguito ad un infarto, secondo il medico legale», sussurrò. «Ha avuto un infarto del tronco encefalico dovuto ad un’occlusione arteriale. Mi disse che era stata causata da una dissezione spontanea dell’arteria vertebrale». Sospirò pesantemente. «Però nel sangue di Sean sono state trovate tracce massicce di benzodiazepina
[4], e lui non ha mai preso nessun farmaco per l’insonnia né ne ha mai avuto bisogno. E’ proprio per questo motivo che ho l’assoluta certezza che ad ucciderlo sia stata Margaret». A quel suo stesso dire sorrise amaramente. «Non sai quante volte ho desiderato che Sean non l’avesse mai conosciuta», stornò rapidamente lo sguardo su di me, fissandomi con occhi febbrili. «Da parte mia è forse egoista desiderare una cosa del genere?»
    Quella era una domanda che esigeva risposta, ma cosa avrei mai potuto dirgli? Potevo capire che amasse ancora il fratello e avrebbe voluto per lui ogni bene, però... «Se lui era felice, se ti fossi intromesso nella sua vita, Sean ti avrebbe soltanto odiato», dissi di slancio, forse senza neanche riflettere. «Per quanto tu voglia bene ad una persona, devi anche imparare a lasciarla andare».
    «Sembra che tu sappia bene di cosa stai parlando». Quelle sue parole, dette con quel tono duro e al tempo stesso mesto, mi spiazzarono, probabilmente perché, senza volerlo, io stesso avevo aizzato un argomento piuttosto delicato. Avevo dato a lui quei consigli, certo, ma in realtà avevo parlato a me stesso e non me n’ero reso conto.
    Fu quindi il mio turno di guardare altrove, sebbene mi sarebbe piaciuto molto di più trovarmi da tutt’altra parte. «Diciamo che ne ho un’idea», risposi semplicemente, sfiorando con due dita la saliera sul tavolo. Il motivo per cui avevo parlato in quel modo portava soltanto un nome, e quel nome era Stephen. L’amavo, certo, ma non avevo mai avuto il coraggio di confessargli apertamente i miei sentimenti, forse perché temevo che un suo rifiuto avrebbe potuto compromettere anche la nostra amicizia. Avevo dunque taciuto per paura che potesse allontanarsi da me, ma non era cambiato un accidenti di niente per quanto riguardava il peso che mi portavo dentro. Non potevo smettere di amarlo né tanto meno volevo perderlo come amico. Quella situazione era un gran bel casino, sul serio.
    «Forse sarebbe meglio smetterla di perdere tempo in chiacchiere», esordì d’un tratto Stephen, capendo probabilmente che non avrei più aperto bocca. Mi comprendeva più di quanto io stesso mi aspettassi, e non sapevo dire se fosse un bene o meno. Così non discutemmo più, concentrandoci solo sulla nostra cena non appena arrivò.
    Era stata una giornata stressante e speravo solo che fosse terminata lì, senza altre sorprese ad attenderci. Ma non ne ero più così certo, ormai.

    «Johnny!»
    La voce di Dean si levò nel chiasso che vigeva nel locale, sovrastando la moltitudine di parole sconnesse e suoni che imperversavano al suo interno. Quella notte era stracolmo, e l’aria viziata che si avvertiva fin dentro le narici sembrava non infastidire nessuna delle anime presenti. Erano venuti tutti per divertirsi, e anch’io, almeno ufficialmente, ero lì per lo stesso motivo. Peccato che non me ne importasse un emerito niente. Avevo raggiunto i ragazzi soltanto per far contento Dean, il più giovane, ma la mia voglia di uscire era pari allo zero da mesi, ormai. E prima che venissi richiamato me ne stavo giusto andando. Avevo raggiunto il mio limite.
    Facendosi spazio fra la calca di corpi sudati che affollavano la pista, Dean mi raggiunse tutto trafelato, guardandomi con tanto d’occhi. «Dove stai andando?» mi chiese, aggrottando di poco le sopracciglia mentre si detergeva il sudore dalla fronte. Era il più giovane del gruppo, e lo si capiva subito solo vedendo l’espressione fanciullesca che aveva in viso. Anche in quello stesso momento, nonostante il lieve accenno di barba che gli ricopriva il mento, nessuno gli avrebbe mai dato più di vent’anni.
    Scrollai di poco le spalle, massaggiandomi poi il braccio sinistro. «Sono stanco, Dean», risposi semplicemente. «Ho bisogno di dormire almeno un’ora o due».
    «Fatti almeno accompagnare da Stan», mi disse. «Casa tua è distante».
    Sorrisi appena, scuotendo poi la testa. Capivo il perché della strana ansia che aveva cominciato a trasparire dalla sua voce. Aveva paura che mi addormentassi al volante e che, con la sfortuna che avevo, incappassi in un altro incidente stradale. Beh, su quel punto un po’ tutti i miei amici erano diventati parecchio super-protettivi. «Tranquillo, Dean, non avrò nessun altro incidente», lo rassicurai ad alta voce per far sì che mi sentisse, ma quelle mie parole, come c’era da aspettarsi, non sortirono l’effetto sperato. Sospirai, alzando lo sguardo al soffitto. «Andrò da Steve, d’accordo? Così sarete tutti più tranquilli», soggiunsi, vedendo il viso di Dean sgretolarsi come una maschera di cera. La solita espressione divertita che aveva continuamente stampata in volto era scomparsa, lasciando posto ad una accigliata e preoccupata.
    «Johnny», mormorò, raschiandosi il labbro inferiore e tormentandosi le dita di entrambe le mani, quasi fosse nervoso. Fece persino per aprir bocca e continuare, ma non gli permisi di farlo; senza aspettare che mi richiamasse ancora lo salutai svelto, dandogli le spalle per uscire in fretta e furia dal locale, neanche avessi il Diavolo alle calcagna. Sapevo cosa mi avrebbe detto Dean, ma la mia mente e il mio cuore si rifiutavano di ascoltarlo.
    Barcollai fino alla mia macchina, aprendola con mani tremanti prima di sedermi al posto di guida, con le chiavi strette nel palmo della destra e la fronte poggiata contro il volante. Respiravo a grandi boccate e avevo una disperata voglia di piangere, ma sapevo che farlo non sarebbe servito a niente. Dalla tasca interna del giaccone trassi le vecchie chiavi arrugginite della mia mustang, girando la testa sul volante per poterle guardare quasi con venerazione, lasciandomi sfuggire un mezzo sorriso nonostante tutto. Le conservavo da quel giorno, come se per me rappresentassero una reliquia insostituibile e preziosa. In un primo momento avevo solo desiderato di disfarmene, però non ci ero mai riuscito.
    Ero soltanto uno stupido, ecco cos’ero. Uno stupido sentimentalista che non aveva avuto le palle di dire due stupide parole prima che il mondo gli crollasse addosso. Ero certo che me l’avrebbe detto anche Steve, se si fosse trovato lì con me in quello stesso istante. Avrebbe riso e, dandomi una pacca su una spalla, mi avrebbe spronato a parlare senza indugi, ascoltando ciò che avevo da dire fino alla fine. Peccato però che, adesso, non avrei mai più saputo come avrebbe reagito se gli avessi detto «Ti amo».
    Era per questo motivo che Dean aveva cercato di parlarmi, nel locale. Aveva tentato di ricordarmi che Stephen era morto, che illudermi che non fosse così era da stupidi e che farlo mi avrebbe solo fatto stare ancora più male, e tutto perché sapeva fin troppo bene quanto mi avesse distrutto quella perdita. Per mesi e mesi avevo delirato ed ero andato in psicanalisi, senza che quelle mie sedute sortissero l’effetto sperato.
    E anche adesso, inconsapevolmente, continuavo ad illudermi e a sognare, distorcendo la realtà che ero costretto a vivere. Se non l’avessi fatto la mia sanità mentale ne avrebbe risentito più di quanto non stesse già facendo, e io preferivo auto-suggestionarmi che auto-distruggermi, sebbene i miei amici cercassero in tutti i modi di riportarmi alla realtà, a quell’amara e triste realtà dove la morte di Stephen era un dato di fatto.
    Io, però, non volevo. Volevo credere che Stephen, il mio Stephen, fosse ancora vivo da qualche parte, non importava esattamente dove né tanto meno in che tempo. Ero certo che mi avrebbe accolto con il suo solito sorriso, abbracciandomi e invitandomi ad accomodarmi sul divano per seguire con lui la maratona di Star Wars. Avremmo riso e scherzato insieme, esattamente come se quell’incidente non fosse mai accaduto, e io avrei anche trovato il coraggio per dirgli ciò che provavo nei suoi confronti, senza più temere niente.
    Dovevo aggrapparmi a questa convinzione. Dovevo farlo. Era un desiderio che non si sarebbe mai realizzato, questo lo sapevo fin troppo bene anch’io. Eppure volevo continuare disperatamente a credere che non fosse così e che, un giorno, l’avrei raggiunto anch’io.




ILLUSIONS, DREAMS AND FARPLANE BREAKING THE WORLD 1.5
FINE










[1] E’ il nome del Café presente nella long fiction “Breaking the World”.
Il titolo sarà chiaro solo alla fine della storia. Le frasi in corsivo al di sotto di esso, invece, sono prese dalla doujinshi “Munich, 1921” del circolo Ninekoks.


[2] Romanzo storico ambientato in Scozia e scritto da Walter Scott nel 1819. Esso narra la relazione amorosa tra Lucy Ashton e Edgar Ravenswood, nemico della sua famiglia.
Scott si ispirò ad una storia realmente accaduta, almeno secondo la tradizione locale. Verso la metà del 1600, nella famiglia scozzese Dalrymple, la sorella più anziana di Sir James, Janet, venne promessa in sposa a David Dunbar, erede di Sir David Dunbar di Baldoon.
Il matrimonio fu combinato dai genitori della ragazza, ma lei era innamorata di Archibald, terzo Lord Rutherford, la cui famiglia non aveva alcun possedimento. I genitori di Janet si opposero fermamente al matrimonio dei due, proibirono la relazione e la forzarono a sposare David.
Come imposto dalle tradizioni Janet sposò David nella Chiesa di Old Luce, a pochi chilometri dalla sua casa a Carsecleugh Castle. Sebbene la giornata estiva fosse molto calda i fratelli della ragazza ricordano che le mani di Janet erano fredde come ghiaccio mentre camminava lungo la navata. La notte stessa, quando la giovane coppia si ritirò nella camera da letto a Baldoon Castle, si sentirono grida provenire dalla stanza. La porta venne forzata e il personale trovò David Dunbar accoltellato e quasi morto. La giovane Janet brandiva un coltello ed era coperta di sangue, piangente e in preda al delirio. Janet venne giudicata insana di mente e morì di lì a un mese.
Esistono diverse versioni della storia che descrive quanto accadde nella stanza da letto a Baldoon Castle. Una seconda versione rispetto a quella appena descritta vede un Archibald deluso nascosto nella stanza, che accoltella lo sposo e fugge dalla finestra verso il giardino. La tradizione locale aggiunge una terza versione in cui è il Demonio ad uccidere Dunbar e a tormentare Janet sino a farla impazzire.


[3] Con questa nota si intende il set di dischi in vinile del gruppo musicale britannico chiamato “The Beatles Collection”, messo in commercio nel 1978 per il mercato inglese e nel 1979 per quello americano. Erano in formato stereo ed era presente anche un disco bonus intitolato “Rarities”, contenente versioni alternative delle canzoni e rarità varie dei Beatles.

[4] Anche se forse questa nota potrà essere inutile, le benzodiazepine sono farmaci con proprietà sedative, ipnotiche, ansiolitiche, anticonvulsive, anestetiche e miorilassanti. Sono spesso usate per alleviare per periodi di breve durata gli stati d’ansia o di insonnia.









_Note conclusive (E inconcludenti) dell'autrice
Questa storia è stata scritta per il contest Just a Yaoi Wish! indetto da Akira Haru Potter, e si è classificata terza con mio grande stupore. La dedico tutta a visbs88.
Ammetto comunque che è stato bellissimo poter scrivere questo spin off. Come già accennato nello specchietto introduttivo, appartiene alla storia Breaking the World, scritta precedentemente per un altro contest. Durante la stesura di quel racconto avevo idee su idee per vari spin off su di essa, e il tuo contest ha fatto sì che io ne potessi mettere in atto almeno uno, spiegando gli avvenimenti solo accennati nel quarto capitolo della long fiction.
Stendere questo spin off, dunque, è stato un vero e proprio piacere, forse perché mi ero anche affezionata al personaggio di Johnny. In verità mi affeziono alla maggior parte dei personaggi che creo, ma credo che questo sia piuttosto normale *Ride*
Spero che la storia vi sia piaciuta.  ♥




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