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Autore: Schizophrenia    07/09/2011    3 recensioni
Buchenwald,Germania,1943.
"Il lavoro rende liberi".
Per quanto questa frase viene ricordata adesso con disprezzo, collegata ai numerosi campi di sterminio utilizzati ai tempi di Hitler, non è solo al lavoro che si badava. Non è il lavoro che devono affrontare i giovani di questa storia.
Bea Gurtsieva viene dalla Russia ed è comunista, per questo viene portata nel campo di concentramento di Buchenwald e viene affidata all'allora soldato semplice Mark Schreiber.
Mark Schreiber vuole solo andarsene. Mark Schreiber si è arruolato nell'SS sperando di essere mandato in guerra, ma si ritrova lì, con suo padre, con il quale non ha un rapporto esemplare, a gestire il campo di concentramento.
"Forse fu perché Mark non aveva mai visto un corpo così bello; forse fu semplicemente perché lo attirarono i lividi di cui era ricoperta la ragazza... ma il giovane Schreiber venne scosso da brividi profondi al basso ventre, prima di avvertire l'impulso pressante di prenderla, lì, con violenza; pur sapendo chi fosse."
Genere: Romantico, Storico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Guerre mondiali
Capitoli:
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Salve, sembro essere meno in ritardo dell'ultima volta, comunque eccoci qui. xD
Spero che questo capitolo sia di vostro interesse, sebbene serva più come capitolo transitorio. è.é
Però succedono cose belle. *-*
Era da ... sempre che non succedevano cose belle. xD
Non ho molto da dirvi. Cercherò di essere puntuale con gli aggiornamenti, sì, ma purtroppo sabato inizio la scuola. ç__ç
Gnap. Mi sono presa però un impegno e porterò la storia avanti! Awà!
Ringrazio le persone che hanno inserito la storia tra le seguite:
- Bbw87
- Fairness
- Mareike Tiaycia
- OlandeseVolante
- Nadine_Rose
- niacara07
- Norine
- Prusskj_Lazur
- ChyoChan
- la_regina
- Luc
- thegreenlady
- mau07
- NemesiS_
Coloro che la hanno inserita tra le ricordate:
- fedecaccy
- Rayne
- ElleBi
Coloro che la hanno inserita tra le preferite:
- chyo
- xxGiuls.
- kikka23
- elly04
- Karota
- Luna_LoveDark
- liz89
- hilaryd
E infine la magnifica ragazza che ha trovato il tempo di recensire:
- Norine

A presto, spero,
Schizophrenia.




Salviamoci la pelle.



-Happy New Year, soldier.



Leningrado, Unione Sovietica
29 Dicembre, 1943
5:31

Ciao Bea,
E' la prima lettera che ti scrivo. Sono passati quindici giorni da quando ti hanno presa.
Vorrei poter sapere dove inviarla, ma non ne ho idea. Germania? Forse. Non sarebbe nemmeo sicuro inviarti una lettera, né per te, né per l'Unione Sovietica.
Non posso mentire, non a te, lo sai bene. Le cose non stanno andando come speravamo a Leningrado. C'eri quando a luglio ci hanno attaccato con i cannoni, no? Bene, le bombe continuano a distruggere fabbriche e soviet e non riusciamo ancora ad avere un contatto. I treni, a Leningrado, non partono e non arrivano. Dovunque tu sia, spero che tu stia meglio che la gente qui: niente bombardamenti, no? Spero che tu non finisca in un campo tedesco; non so come si chiamino ma si dice che siano molto simili ai GULag dove l'NKVD butta disertori e prigionieri politici.
Sai cosa sono i GULag, Beatrishka? Spero di no, e spero che tu non stia vivendo un inferno. Ad ogni modo, non chiedere a nessuno, dei GULag, non ti diranno niente, ho chiesto del loro utilizzo, qualche volta, a dei miei superiori. Non so molto nemmeno io, ma tu cerca di salvarti la pelle.
Una speranza ce l'abbiamo, lo sai? Ma non posso ancora parlartene. E' solo una speranza, per adesso dobbiamo lottare e cacciare i tedeschi. Tuo padre confida molto nella vittoria di Leningrado: siamo riusciti a tener loro testa per tanto tempo, dice, che sicuramente vinceremo. Tu ci credi, Bea, dopo quasi tre anni di assedio?
Quando è iniziata la guerra, tu avevi quattordici anni e io stavo per farne diciassette. Volevo arruolarmi da prima, e l'arrivo dei tedeschi non mi ha dato altra possibilità di scelta. Sai che sono stato mandato al fronte? Non adesso, cioè, ho avuto due giorni di congedo, riparto tra poche ore. So che non approveresti, ma sto combattendo in prima linea, per te. Ho l'assurda convinzione che se andrò avanti riuscirò a salvarti, forse non è così, ma almeno ci provo.
Hanno aumentato di nuovo le razioni di cibo, forse perché non c'è più tanta gente da sfamare, tu che ne dici? L'America ci manda scorte e medici, ma a me gli americani non sono mai piaciuti, lo sai bene. Nell'Armata Rossa non piacciono a molti, però ci facciamo curare; i nostri ospedali scarseggiano persino di infermiere, e non siamo solo noi militari a morire, giorno dopo giorno, ma sempre più civili contraggono la tubercolosi... muore sempre più gente di TBC, ma sono fiducioso, passerà tutto presto.
Spero che tu possa tornare presto, Bea. Mi manchi.
Avrei dovuto parlarti dei miei sentimenti prima, forse.
Ti amo,
Dimitri Todorov

Il ragazzo sbuffò, carezzando la carta macchiata d'inchiostro con la punta delle dita. Avrebbe voluto che lei fosse lì a leggerla, o comunque avere un indirizzo a cui inviarla. Non poteva e lo faceva solo arrabbiare e stare male. Non aveva troppo tempo, prima di rimettersi in cammino verso il fronte. Doveva difendere Leningrado, ma soprattutto doveva ritrovare Bea. Era assurdamente convinto del fatto che non fosse morta: non poteva esserlo, se lo sentiva.
Ripescò un pacchetto di sigarette e un accendino dalla tasca interna del cappotto. Estrasse una sigaretta, portandosela alle labbra, ma prima di accenderla bruciò quel pezzo di carta che avrebbe tanto voluto fosse consegnato all'unica ragazza per cui avesse mai provato qualcosa. Fumò, alzandosi e buttando qualcosa in uno zaino. Doveva uscire, ma non ne aveva voglia. La sera precedente era stato a cena dai Gurtsieva, il Colonnello Generale approfittava dei pochi giorni di congedo come lui, Sergeij giocava e lo riempiva di domande come al solito; ma Diana sembrava preoccupata almeno quanto lui. Preoccupata perché moriva davvero sempre più gente, e con se stesso non poteva far finta di nulla, come aveva cercato di sminuire la cosa nella lettera destinata a Bea. E poi, erano tutti preoccupati per Bea, tranne il suo fratellino



Leningrado, Unione Sovietica.
28 Dicembre 1943
19:57

<< Bea non passerà l'inizio del nuovo anno con noi. Vero, Boris? >>, era stata Diana a parlare. Non era una vera domanda: quella donna era sicura almeno quanto era sicura del fatto che in Unione Sovietica vi fosse il comunismo. Era preoccupata, ma Diana Gurtsieva era la donna più decisa e forte di tutta Leningrado: sua figlia sarebbe tornata, ma doveva crescere Sergeij, nel frattempo.
Diana non assomigliava molto alla figlia: i lunghi capelli erano biondi, ma da lei la ragazza aveva ereditato gli occhi verdi. Era una bella donna, poco più giovane del marito e nessuno dei due era ancora arrivato a quarant'anni. Amava la sua famiglia e teneva a loro più di qualsiasi altra cosa. Era indipendente, dopotutto doveva prepararsi ad esserlo, sempre: se un giorno il suo Boris fosse morto, al fronte, avrebbe dovuto occuparsi lei dei suoi figli. Ce l'avrebbe fatta, ma sarebbe stata dura. Solo in quel momento si rendeva però conto di quanto soffrisse per la mancanza di una figlia.
Il marito scosse il capo, << Non credo, Dianushka, ma sai quanto lo spero >>
<< Cosa vogliono esattamente, dalla nostra bambina? >>, era sempre stata brava, Diana, a nascondere le sue emozioni, persino al marito, quando voleva e quando si trattava di cose importanti. Come in quel momento.
Boris stava fumando. Come tutti i russi amava la vodka e il tabacco, ma mai si era lasciato corrodere dai vizi: sentiva solo il bisogno di lasciarsi andare, quel giorno. << Non lo so. Forse credono che sappia qualcosa dell'Armata Rossa >>
<< E lei sa qualcosa, Borja? >>, quel particolare era importante, dopotutto.
<< Sai com'è fatta tua figlia, donna, ti assomiglia più di quanto pensi: anche se sapesse qualcosa, non parlerebbe mai >>
Dimitri sospirò, spostando la sigaretta dalle labbra. Non aveva parlato fino a quel momento, seduto in un angolo della stanza, accanto alla finestra. La stanza era ampiamente riscaldata, e non si stava troppo male. I Gurtsieva aveva due stanze, sebbene il padre dormisse spesso in caserma. Il soviet locale questo non lo sapeva, e per il suo ruolo di Colonnello Generale si riteneva che avesse diritto a due stanze. In una dormivano lui e la moglie in un letto matrimoniale, in quella stanza c'era anche un tavolo, era la stanza più ampia e la usavano anche come sala da pranzo, c'era anche un'ampia libreria, si trovavano lì in quel momento; di giorno, e nelle notti solitarie di Diana Gurtsieva, il letto spariva nell'altra camera, Dimitri sospettava che una coppia sposata e relativamente giovane avesse bisogno d'intimità, quando il marito trovava occasione di rincasare. L'altra stanza era per i bambini, i Gurtsieva se la passavano bene economicamente, c'era un letto matrimoniale ed un lettino più piccolo, anche quella stanza era riscaldata, e vi era un grande armadio con gli abiti di tutta la famiglia, una cesta per i giochi di Sergeij e i libri preferiti di Bea ammassati in un angolo.
<< E cosa potrebbe succedere, se parlasse? Oppure se non parlasse per troppo tempo? >>, la donna conosceva già la risposta, ma forse voleva soltanto essere rincuorata dal marito.
Dimitri era l'ultimo che volesse sentire parole come "Verrebbe uccisa" oppure "La porteranno dove portano tutti". Non ce l'avrebbe fatta. Spense la sigaretta e si alzò dalla sedia. << Vado a vedere come sta Sergeij >> aveva detto ad entrambi i genitori, alzandosi e sparendo oltre la porta. Richiudendosela alle spalle. Sperava che il bambino non avesse sentito i discorsi dei due coniugi; sperava che lui non li avrebbe sentiti ancora. Adorava i Gurtsieva, ma Beatrisa sarebbe tornata. Presto.
Entrò, il bambino era seduto per terra e disegnare -o scarabocchiare- su un foglio di carta bianco. Gli si avvicino. Sergeij Borisovic vantava una somiglianza impressionante con la sorella: piccoletto, dai folti capelli nerissimi e gli occhioni verdi. << Che disegni ? >> chiese, ostentando allegria, prima di sedersi sul pavimento, accanto al bambino e gettando un'occhiata sul foglio. Sembrava una ragazza davvero brutta che Dimitri non ricordava di aver mai visto, disegnata come erano soliti a disegnare i bambini.
<< Bea. Mamma dice che tornerà presto, così capirà che non l'ho dimenticata >>, la voce infantile del bambino non era preoccupata.
Il ragazzo si morse il labbro inferiore. Sempre Bea. Affondò una mano tra i capelli scuri del fratellino minore della ragazza che amava. Avrebbe voluto dire qualcosa, qualsiasi cosa per aiutarlo a credere sul serio che lei sarebbe tornata. Perché era quello che volevano tutti, era quello che voleva lui. Non ci riusciva: lui non era abituata a queste cose, però. << Lo vuoi un consiglio, piccolo? >> mormorò, allegramente, stendendosi completamente sul legno del pavimento.
<< Sì? >>
<< Non dipingere mai da grande, non fa per te >>, finse una risata, che gli riuscì bene.
Il bambino mise su un broncio adorabile e l'altro non poté fare a meno di ridere, stravolta sul serio, attirandosi il piccolo contro il petto. << Su, non fare così >> disse, ironico, iniziando a fargli il solletico. Dimitri Todorov adorava quel bambino, amava Bea, rispettava Diana e Boris e loro lo trattavano come un figlio, perché la guerra si era messa in mezzo?
<< Resti a dormire qui, stasera? >> il bambino era riuscito a liberarsi dalle mani del tenente.
Annuì, alzandosi. << Certo >>
Dimitri Todorov poteva vivere nel soviet dei suoi genitori, poteva alloggiare nella sua stanza, in caserma, con gli altri, ma preferiva rimanere a dormire a casa Gurtsieva, dov'era sempre ben accetto. Sergeij fino a tre anni dormiva nella culla, e lui poteva tenere Bea contro il petto e guardarla addormentarsi, da quando avevano comprato un lettino per il più piccolo, però, Bea dormiva lì, quando Dimitri si fermava, e il tenente e il fratellino nel letto grande. Ma c'era stato un periodo, quando Diana e Sergeij erano andati a passare una settimana a casa della nonna a Luga, in cui Boris era sul fronte e Dimitri e Bea avevano avuto la casa tutta per loro; era stato appena quattro mesi prima. Il tenente ricordava ancora il dolce odore di vaniglia della pelle di Bea contro il suo petto. Non aveva dormito, se non due ore a notte, per tutta la settimana. Aveva passato tutte le notti di quella settimana a guardarla respirare piano, addormentata. Era dura non poterla nemmeno sfiorare se non come il suo migliore amico, quando sapeva di amarla. Attualmente Sergeij aveva paura di dormire in quella camera da solo, e Dimitri si fermava lì, a fargli compagnia, dato che la madre non dormiva con lui quando Boris era in congedo.



Campo di sterminio di Buchenwald, Germania.
31 Dicembre 1943
18:40

<< Forse è il caso di lavarsi >> disse Mark, ironico, osservando la ragazza seduta in un angolo del bagno. Assomigliava ad una bambina, se n'era accorto solo il giorno precedente. Walter non era tornato a fare loro visita e Mark non lo vedeva da un po', ma alle nove sarebbe andato con suo padre dagli Hoffmann per capodanno; tuttavia il tedesco pensava che senza la sua visita, quattro giorni prima, non avrebbe mai ... accettato quella ragazza.
Lei non gli rispondeva, continuando a fissare come imbambolata la vasca da bagno. Mark non si arrabbiò, come probabilmente avrebbe fatto in altri momenti, ma si lasciò andare ad uno sbuffo divertito. Riusciva a farlo ridere, e anche lui era riuscito a vedere un sorriso di lei, rimanendone effettivamente incantato. << Allora? >> chiese, incrociando le braccia al petto. Gli occhi nocciola risplendevano, brillavano di curiosità. Aveva rimandato il bagno, per ciò che era accaduto un po' di tempo prima, ma sperava che quel giorno fossero entrati abbastanza in confidenza... e di aver meritato almeno un briciolo della sua fiducia.
La ragazza indicò il fulcro delle sue attenzioni con l'indice. << In Unione Sovietica non abbiamo questa cosa. >>, a Mark diede l'impressione di essere scettica sulla sua utilità.
Si lasciò sfuggire un mezzo sorriso, << Si chiama doccia >> le disse, prima di porgerle la mano, che la ragazza sembrava esitare ad afferrare: non aveva paura, ma più probabilmente provava un divertimento sadico nel far esasperare il povero tedesco.
Schreiber le si avvicinò, abbassandosi accanto a lei, << D'accordo, stiamo facendo troppo rumore, e tu ti stai comportando come una ragazzina capricciosa. Se entra qualcuno e ci scopre, sarai in pasto all'ira di mio padre >> disse, cercando di convincerla. Non aspettò molto: non era un tipo troppo paziente; la afferrò per i fianchi sollevandola e poggiandola nella vasca, in piedi.
<< Anche tu lo saresti >> lo corresse.
Mark sorrise, anche se effettivamente era vero. << Ma se uccidesse me, sarebbe accusato di omicidio >> le fece notare, allontanandosi di poco da lei e incrociando le braccia al petto, aspettando che si spogliasse.
<< E se uccidesse me? >>
Mark si bloccò, sentendo la sua voce infantile, aveva capito dove volesse arrivare e in quei giorni stava sfiorando l'idea che non avesse tutti i torti, ma preferiva non parlarne: suo padre non sarebbe stato troppo d'accordo con quelle idee. << E' davvero tardi, è il caso di lavarsi >> mormorò, avvicinandosi alla ragazza, anche se un po' più cupo di prima. L'aiuto a spogliarsi, lasciandole indosso l'intimo.
Non riusciva a spiegarsi come il corpo di una ragazza potesse attrarlo a tal punto, soprattutto se ridotto in quello stato, fatto sta che evitava accuratamente il contatto diretto con la sua pelle. Era meglio per lei, se non voleva essere violentata di nuovo. Dedicò parecchi minuti ad ogni ferita e ad ogni taglio, alcuni probabilmente anche di quella mattina, almeno era ancora viva, al ragazzo sembrava quasi strano.
Sentiva lo sguardo di lei, forse era preoccupata. << Walter ha detto che vorresti partire per il fronte, è vero? >> la domanda della russa gli parve molto simile ad una doccia gelida.
Non le rivolse lo sguardo, continuando lentamente le sue operazioni. << Non lo so più >>, era vero. Continuava ad odiare suo padre con ogni fibra del suo essere, ma non sentiva più il bisogno di allontanarsi divorargli le viscere. Stava bene, era felice come non lo era da tempo. Era felice come non lo era da quattordici anni. Si scostò, appena ebbe terminato di pulirle le ferite, << Continui da sola, no? Ti aspetto fuori >> disse, velocemente e, senza darle il tempo di rispondere, uscì dal bagno, sedendosi sul pavimento del corridoio, di fronte alla porta.
Due motivi principali lo aveva spinto a farlo: non aveva la minima intenzione di vederla ancora nuda, perché non aveva intenzione di violentarla, o almeno voleva provare a non violentarla; inoltre non gli andava di parlare del fronte, di suo padre e della donna che lo aveva messo al mondo, odiava quegli argomenti e almeno con lei voleva evitarli. Perché? Perché lei era così bianca. 
Bianca.
Pura.
E lui come si sentiva?
Colpevole. Sporco. Vuoto.
Avevano provato tante volte a dirgli che non era stata colpa sua. Ci avevano provato a scuola, gli insegnanti che lo credevano un bambino molto dotato, ci provavano tutti i giorni i signori Hoffmann, Walter non l'aveva mai detto ma cercava di farglielo capire. Suo padre... beh, forse quella era l'unica cosa su cui padre e figlio erano d'accordo: Mark Schreiber era stato la causa della morte di Agathe Becker-Schreiber.
Alcuni lo chiamano "incidente", ma se quella mattina sua madre non fosse uscita per andare a riprenderlo da scuola -che bisogno ce n'era, poi? Non era distante, tornava tutti i giorni a piedi, da solo -, non sarebbe stata uccisa da un malvivente.
Il soldato deglutì, passandosi una mano tra i capelli biondi, cercando di scacciare il senso di colpa e la tristezza che di colpo si erano presentati dentro di lui, a gelare le vene, partendo direttamente dal cuore.
La porta del bagno si aprì, alle sue spalle, rivelando una dolce ragazza russa, con la pelle che odorava di vaniglia e i capelli neri puliti. Mark doveva ammettere che non era abituato a vederla così bella. Si alzò, cercando di celare ai suoi occhi il malessere interiore che provava e le fece cenno di seguirlo. Velocemente, raggiunsero nuovamente la camera dove avrebbe dovuto trovarsi Bea. Non era facile mettere da parte tutto ciò che provava, ma Mark tentava, tentava perché non poteva stare sempre così male. Il dolore era insopportabile.
Entrati, il ragazzo richiuse velocemente la porta alle sue spalle. << Allora, come ti senti? >>, sapeva che in quelle condizioni avrebbe potuto ricevere un solo tipo di risposta, ma ci provava lo stesso. Stava cercando di aiutarla... e gli piaceva il sorriso di lei. Era carina sul serio. Dio, stava diventando così stupido che sicuramente la ragazza gli avrebbe risto in faccia.
<< Luchshe, spasiba* >>, e gli regalò un sorriso. Probabilmente quelle parole sapeva dirle anche in russo, ma ultimamente si divertiva a farlo esercitare con il russo. Mark non riusciva a pronunciare molto bene le parole e lei rideva, ascoltando il pesante accento tedesco che lui non riusciva a fare a meno di posare su ogni sillaba. Solo Mark pensava che il modo di parlare una lingua altrui di Bea fosse tremendamente adorabile?
Lui tentò di sorriderle, nonostante i brutti pensieri che non aiutavano affatto. << Vado a casa di Walter, stasera >> le disse, mentre le cambiava le bende. Era il motivo per il quale quella sera era andato a trovarla prima. << Abbiamo questa strana abitudine di andare sempre da loro, per le feste >>, sorrise.
<< Vive anche lui in una casa come questa? >>, aveva sgranato gli occhi verdi, accentuando l'impressione infantile che già riusciva a dare normalmente.
Schreiber le rivolse lo sguardo, scostandolo per qualche istante dalle ferite e dalle bende. << Beh, non proprio come questa. Diciamo che da lui non ci sono guardie dell'SS ovunque >> cercò di scherzarvi su, sebbene non riuscisse a capire la sorpresa della ragazza. Avevano parlato molto in quei giorni, ma non di tutto. << Tu dove vivi? >>, tentò.
Bea si portò una ciocca di capelli dietro l'orecchio. << Oh, al secondo piano del terzo soviet. Purtroppo le nostre stanze sono al centro del corridoio. Noi abbiamo ottenuto due stanze perché mio padre fa parte dell'Arm.. >>, la ragazza non aveva intenzione di dire niente, riguardo suo padre o riguardo l'Unione Sovietica, ma le sembrava così facile parlare con quel ragazzo tedesco.
Non era ugualmente riuscita a finire di parlare: Mark le aveva poggiato con fermezza una mano sulle labbra, per farla stare zitta. << Non dirmi mai più cose del genere >> sibilò, dimenticando completamente il tono gentile e dolce usato fino a quel momento. Per certe cose, come quella, non riusciva a non essere duro, ma aveva le sue buone ragioni. Notò il volto di lei, sembrava spaventata; sospirò e scostò lentamente la mano. << Non sono contro di te, forse mi piacerebbe far fuori qualche comunista, ma non te. Sono fedele alla Germania e al Führer, se tu mi dici queste cose, io devo dirle a chi di autorità. >>, stavolta si era imposto un tono più gentile, anche se gli sembrava un po' difficile.
La russa annuì, osservandolo. << Se sei fedele alla tua arma, perché non vuoi che ti dica niente? >>
Mark si stupì di quella domanda così ingenua, come se realmente non capisse il pericolo che correva semplicemente parlando con lui. << Se lo fai, non avranno più motivo per tenerti in vita >>, non gli sembrava stupida, avrebbe capito cosa significava quella frase, ne era certo.
Non parlarono più. Lui le avvolgeva le bende attorno alle ferite e lei lo lasciava fare, immobile. Si scostò, poco dopo. << E' tardi, devo andare, ci vediamo domani. E' festa, forse riuscirò a venire prima >>, cercò ancora di sorriderle.
<< A domani >>, Bea sembrava sorridere con più facilità. <>, sembrò ricordarsi improvvisamente di una cosa.
Mark s'interruppe, con la mano ancora sul pomello della porta e si voltò ad osservarla. << Sì? >>
<< Buon anno, soldato >>


Weimar, Germania.
1 Gennaio 1944
00:01

<< Buon anno! >> fu un coro comunque, di cinque persone. Sembravano tutti così felici, mentre bevevano lo champagne con cui avevano brindato. Anche Mark era stranamente felice quella sera di gennaio, e solo Walter poteva vagamente immagine il motivo, ma non lo avrebbe di certo espresso ad alta voce, davanti al madre di Mark non era il caso, almeno. Non voleva mettere nei guai il suo migliore amico, no.
Il signor Hoffmann poggiò nuovamente il bicchiere sul tavolo, << Bene, Hans, cosa dobbiamo aspettarci dai nostri soldati - e qui poggiò una mano sulla spalla del giovane Schreiber- in questo nuovo anno? >>, Mark lo sapeva bene, non gli era mai interessato nulla di politica, ma di solito erano sua moglie ed Agathe Schreiber a reggere le conversazioni, da quando l'ultima non c'era più le due famiglie erano rimaste in contatto principalmente attraverso i figli.
Hans Schreiber scrollò le spalle, << Che riescano a contrastare i sovietici, Alphons >> rispose l'altro, scuotendo appena il capo. Il figlio vedeva che ci credeva sul serio, probabilmente sarebbe andato persino lui a combattere sul fronte, pur di non darla vinta ai russi, ma gli avevano affidato il comando del campo di Buchenwald. Non poteva allontanarsi da lì, se non per questioni ordinate da Hitler in persona.
<< Ci vedi buone possibilità? >> stavolta era stata la donna a parlare. Come il figlio e il marito, non era pro-nazismo, ma avendo buonsenso non lo contrastava in alcun modo. Tanto, secondo lei, una politica del genere non poteva durare, prima o poi la gente si sarebbe accorta di sbagliare.
L'altro annuì. << Certo. Abbiamo affrontato di peggio, inoltre sto cercando di avere informazioni sull'Armata Rossa dalla figlia di uno di loro >>
Mark rivolse lo sguardo al padre, improvvisamente più interessato all'argomento di conversazione. Non sapeva molto su ciò che accadeva a Bea durante quei colloqui. Lui non glielo aveva mai chiesto, né lei sembrava particolarmente intenzionata a parlargliene. Forse sarebbe stato meglio rimanere nell'ignoranza, ma preferì continuare ad ascoltare.
Alphons Hoffmann annuì, << Siete venuti a conoscenza di qualcosa? >>
<< Non troppo, ancora, ma forse siamo sulla buona strana >> il modo in cui lo disse diede fastidio al soldato, che incrociò le braccia al petto, prima di sedersi sul divano.
Walter cercò invece di fare buon viso a cattivo gioco, notando la reazione del suo migliore amico, << E come se la sta cavando Mark, signor Schreiber? >> chiese, con tono allegro, come se pensasse che il biondo seduto sul divano fosse un eroe. Beh, in parte lo era, stava aiutando una deportata, contro tutti e contro i suoi stessi ideali nazisti.
L'altro sorrise, << Oh, bene, bene. Devo dire che sembra mantenere in vita la ragazza senza lamentarsi troppo, anche se non la vedo da quattro giorni. L'hai uccisa, figliolo? >>, l'uomo sorrideva con sarcasmo, come se la morte non gli provocasse alcun fastidio.
<< No >> la risposta del figlio fu fredda, seria, distaccata. Perché? Perché stava cercando di allontanarsi dal burattino nazista che avrebbe dovuto essere. << Non è quello il mio compito >> aggiunse, poco dopo.
Hans Schreiber annuì, << Continua così, e verrai presto promosso a caporale >>


Campo di sterminio di Buchenwald, Germania.
1 Gennaio 1944
12:30

Mark Schreiber era tornato tardi quella notte, insieme a suo padre, ma aveva dovuto comunque svegliarsi presto. I militari non perdevano tempo, come diceva suo padre. Era appena tornato da un allenamento, ridotto ma pur sempre un allenamento. Iniziava davvero a scocciarsi di quella roba. Stavolta, al poligono di tiro, invece delle sagome, c'erano degli deportati ebrei.
Avevano sparato quasi tutti, obbedendo agli ordini dei loro superiori. Anche Mark Schreiber aveva sparato, non aveva paura di uccidere qualcosa, ma per la prima volta in tutta la sua vita si sentì in colpa per aver fatto del male a qualcuno che, nel suo paese, gli era stato insegnato valesse quando le feci di un cane. No, le feci di un cane ariano valevano di gran lunga di più.
Derek Keller aveva rifiutato di sparare.
Sentiva ancora le sue parole, mentre si lavava: "Perché dovrei farlo? I bersagli mi vanno benissimo e loro non mi hanno fatto niente. Credevo che la guerra fosse per questioni territoriali, non per un capriccio di Hitler". Doveva ammetterlo, quel ragazzo aveva fegato, probabilmente ne aveva di più di tutti i militari dell'SS riuniti quel giorno; e non era un burattino dello Stato, come praticamente tutti. Come Mark temeva di diventare.
Un sergente lo aveva preso a calci, come presto avevano fatto altri membri delle truppe. Si era buttato nella rissa, per difendere Derek. Erano due contro dieci, ovviamente non si era messa bene per Schreiber. Era un buon tiratore, ma in quello non se la cavava troppo bene.
Sospirò. Mentre usciva dalla doccia e si asciugava il corpo. Cercava di non pensarci, quel periodo era tutto così... strano, quasi surreale.
Si rivestì, conscio che dopo pranzo lo attendesse un'altra lezione di russo.




*Meglio, grazie. (russo)
   
 
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