Salve,
sembro essere meno in ritardo
dell'ultima volta, comunque eccoci qui. xD
Spero
che questo capitolo sia di vostro
interesse, sebbene serva più come capitolo transitorio.
è.é
Però
succedono cose belle. *-*
Era
da ... sempre che non succedevano
cose belle. xD
Non
ho molto da dirvi. Cercherò di
essere puntuale con gli aggiornamenti, sì, ma purtroppo
sabato
inizio la scuola. ç__ç
Gnap.
Mi sono presa però un impegno e
porterò la storia avanti! Awà!
Ringrazio
le persone che hanno inserito
la storia tra le seguite:
-
Bbw87
-
Fairness
-
Mareike Tiaycia
-
OlandeseVolante
-
Nadine_Rose
-
niacara07
-
Norine
-
Prusskj_Lazur
-
ChyoChan
-
la_regina
-
Luc
-
thegreenlady
-
mau07
-
NemesiS_
Coloro
che la hanno inserita tra le
ricordate:
-
fedecaccy
-
Rayne
-
ElleBi
Coloro
che la hanno inserita tra le
preferite:
-
chyo
-
xxGiuls.
-
kikka23
-
elly04
-
Karota
-
Luna_LoveDark
-
liz89
-
hilaryd
E
infine la magnifica ragazza che ha
trovato il tempo di recensire:
-
Norine
A
presto, spero,
Schizophrenia.
Salviamoci
la pelle.
-Happy
New Year, soldier.
Leningrado,
Unione Sovietica
29
Dicembre, 1943
5:31
Ciao Bea,
E' la prima lettera
che ti scrivo. Sono
passati quindici giorni da quando ti hanno presa.
Vorrei poter sapere
dove inviarla, ma
non ne ho idea. Germania? Forse. Non sarebbe nemmeo sicuro inviarti
una lettera, né per te, né per l'Unione Sovietica.
Non posso mentire,
non a te, lo sai
bene. Le cose non stanno andando come speravamo a Leningrado. C'eri
quando a luglio ci hanno attaccato con i cannoni, no? Bene, le bombe
continuano a distruggere fabbriche e soviet e non riusciamo ancora ad
avere un contatto. I treni, a Leningrado, non partono e non arrivano.
Dovunque tu sia, spero che tu stia meglio che la gente qui: niente
bombardamenti, no? Spero che tu non finisca in un campo tedesco; non
so come si chiamino ma si dice che siano molto simili ai GULag dove
l'NKVD butta disertori e prigionieri politici.
Sai cosa sono i
GULag, Beatrishka?
Spero di no, e spero che tu non stia vivendo un inferno. Ad ogni
modo, non chiedere a nessuno, dei GULag, non ti diranno niente, ho
chiesto del loro utilizzo, qualche volta, a dei miei superiori. Non
so molto nemmeno io, ma tu cerca di salvarti la pelle.
Una speranza ce
l'abbiamo, lo sai? Ma
non posso ancora parlartene. E' solo una speranza, per adesso
dobbiamo lottare e cacciare i tedeschi. Tuo padre confida molto nella
vittoria di Leningrado: siamo riusciti a tener loro testa per tanto
tempo, dice, che sicuramente vinceremo. Tu ci credi, Bea, dopo quasi
tre anni di assedio?
Quando è
iniziata la guerra, tu avevi
quattordici anni e io stavo per farne diciassette. Volevo arruolarmi
da prima, e l'arrivo dei tedeschi non mi ha dato altra
possibilità
di scelta. Sai che sono stato mandato al fronte? Non adesso,
cioè,
ho avuto due giorni di congedo, riparto tra poche ore. So che non
approveresti, ma sto combattendo in prima linea, per te. Ho l'assurda
convinzione che se andrò avanti riuscirò a
salvarti, forse non è
così, ma almeno ci provo.
Hanno aumentato di
nuovo le razioni di
cibo, forse perché non c'è più tanta
gente da sfamare, tu che ne
dici? L'America ci manda scorte e medici, ma a me gli americani non
sono mai piaciuti, lo sai bene. Nell'Armata Rossa non piacciono a
molti, però ci facciamo curare; i nostri ospedali
scarseggiano
persino di infermiere, e non siamo solo noi militari a morire, giorno
dopo giorno, ma sempre più civili contraggono la
tubercolosi...
muore sempre più gente di TBC, ma sono fiducioso,
passerà tutto
presto.
Spero che tu possa
tornare presto, Bea.
Mi manchi.
Avrei dovuto
parlarti dei miei
sentimenti prima, forse.
Ti amo,
Dimitri
Todorov
Il ragazzo
sbuffò, carezzando la carta
macchiata d'inchiostro con la punta delle dita. Avrebbe voluto che
lei fosse lì a leggerla, o comunque avere un indirizzo a cui
inviarla. Non poteva e lo faceva solo arrabbiare e stare male. Non
aveva troppo tempo, prima di rimettersi in cammino verso il fronte.
Doveva difendere Leningrado, ma soprattutto doveva ritrovare Bea. Era
assurdamente convinto del fatto che non fosse morta: non poteva
esserlo, se lo sentiva.
Ripescò un
pacchetto di sigarette e un
accendino dalla tasca interna del cappotto. Estrasse una sigaretta,
portandosela alle labbra, ma prima di accenderla bruciò quel
pezzo
di carta che avrebbe tanto voluto fosse consegnato all'unica ragazza
per cui avesse mai provato qualcosa. Fumò, alzandosi e
buttando
qualcosa in uno zaino. Doveva uscire, ma non ne aveva voglia. La sera
precedente era stato a cena dai Gurtsieva, il Colonnello Generale
approfittava dei pochi giorni di congedo come lui, Sergeij giocava e
lo riempiva di domande come al solito; ma Diana sembrava preoccupata
almeno quanto lui. Preoccupata perché moriva davvero sempre
più
gente, e con se stesso non poteva far finta di nulla, come aveva
cercato di sminuire la cosa nella lettera destinata a Bea. E poi,
erano tutti preoccupati per Bea, tranne il suo fratellino
Leningrado,
Unione Sovietica.
28
Dicembre 1943
19:57
<<
Bea non passerà l'inizio del
nuovo anno con noi. Vero, Boris? >>, era stata Diana a
parlare.
Non era una vera domanda: quella donna era sicura almeno quanto era
sicura del fatto che in Unione Sovietica vi fosse il comunismo. Era
preoccupata, ma Diana Gurtsieva era la donna più decisa e
forte di
tutta Leningrado: sua figlia sarebbe tornata, ma doveva crescere
Sergeij, nel frattempo.
Diana
non assomigliava molto alla
figlia: i lunghi capelli erano biondi, ma da lei la ragazza aveva
ereditato gli occhi verdi. Era una bella donna, poco più
giovane del
marito e nessuno dei due era ancora arrivato a quarant'anni. Amava la
sua famiglia e teneva a loro più di qualsiasi altra cosa.
Era
indipendente, dopotutto doveva prepararsi ad esserlo, sempre: se un
giorno il suo Boris fosse morto, al fronte, avrebbe dovuto occuparsi
lei dei suoi figli. Ce l'avrebbe fatta, ma sarebbe stata dura. Solo
in quel momento si rendeva però conto di quanto soffrisse
per la
mancanza di una figlia.
Il
marito scosse il capo, << Non
credo, Dianushka, ma sai quanto lo spero >>
<<
Cosa vogliono esattamente,
dalla nostra bambina? >>, era sempre stata brava, Diana,
a
nascondere le sue emozioni, persino al marito, quando voleva e quando
si trattava di cose importanti. Come in quel momento.
Boris
stava fumando. Come tutti i russi
amava la vodka e il tabacco, ma mai si era lasciato corrodere dai
vizi: sentiva solo il bisogno di lasciarsi andare, quel giorno.
<<
Non lo so. Forse credono che sappia qualcosa dell'Armata Rossa
>>
<<
E lei sa qualcosa, Borja? >>,
quel particolare era importante, dopotutto.
<<
Sai com'è fatta tua figlia,
donna, ti assomiglia più di quanto pensi: anche se sapesse
qualcosa,
non parlerebbe mai >>
Dimitri
sospirò, spostando la
sigaretta dalle labbra. Non aveva parlato fino a quel momento, seduto
in un angolo della stanza, accanto alla finestra. La stanza era
ampiamente riscaldata, e non si stava troppo male. I Gurtsieva aveva
due stanze, sebbene il padre dormisse spesso in caserma. Il soviet
locale questo non lo sapeva, e per il suo ruolo di Colonnello
Generale si riteneva che avesse diritto a due stanze. In una
dormivano lui e la moglie in un letto matrimoniale, in quella stanza
c'era anche un tavolo, era la stanza più ampia e la usavano
anche
come sala da pranzo, c'era anche un'ampia libreria, si trovavano
lì
in quel momento; di giorno, e nelle notti solitarie di Diana
Gurtsieva, il letto spariva nell'altra camera, Dimitri sospettava che
una coppia sposata e relativamente giovane avesse bisogno
d'intimità,
quando il marito trovava occasione di rincasare. L'altra stanza era
per i bambini, i Gurtsieva se la passavano bene economicamente, c'era
un letto matrimoniale ed un lettino più piccolo, anche
quella stanza
era riscaldata, e vi era un grande armadio con gli abiti di tutta la
famiglia, una cesta per i giochi di Sergeij e i libri preferiti di
Bea ammassati in un angolo.
<<
E cosa potrebbe succedere, se
parlasse? Oppure se non parlasse per troppo tempo? >>, la
donna
conosceva già la risposta, ma forse voleva soltanto essere
rincuorata dal marito.
Dimitri
era l'ultimo che volesse
sentire parole come "Verrebbe uccisa" oppure "La
porteranno dove portano tutti". Non ce l'avrebbe fatta. Spense
la sigaretta e si alzò dalla sedia. << Vado a
vedere come sta
Sergeij >> aveva detto ad entrambi i genitori, alzandosi
e
sparendo oltre la porta. Richiudendosela alle spalle. Sperava che il
bambino non avesse sentito i discorsi dei due coniugi; sperava che
lui non li avrebbe sentiti ancora. Adorava i Gurtsieva, ma Beatrisa
sarebbe tornata. Presto.
Entrò,
il bambino era seduto per terra
e disegnare -o scarabocchiare- su un foglio di carta bianco. Gli si
avvicino. Sergeij Borisovic vantava una somiglianza impressionante
con la sorella: piccoletto, dai folti capelli nerissimi e gli
occhioni verdi. << Che disegni ? >> chiese,
ostentando
allegria, prima di sedersi sul pavimento, accanto al bambino e
gettando un'occhiata sul foglio. Sembrava una ragazza davvero brutta
che Dimitri non ricordava di aver mai visto, disegnata come erano
soliti a disegnare i bambini.
<<
Bea. Mamma dice che tornerà
presto, così capirà che non l'ho dimenticata
>>, la voce
infantile del bambino non era preoccupata.
Il
ragazzo si morse il labbro
inferiore. Sempre Bea. Affondò una mano tra i capelli scuri
del
fratellino minore della ragazza che amava. Avrebbe voluto dire
qualcosa, qualsiasi cosa per aiutarlo a credere sul serio che lei
sarebbe tornata. Perché era quello che volevano tutti, era
quello
che voleva lui. Non ci riusciva: lui non era abituata a queste cose,
però. << Lo vuoi un consiglio, piccolo?
>> mormorò,
allegramente, stendendosi completamente sul legno del pavimento.
<<
Sì? >>
<<
Non dipingere mai da grande,
non fa per te >>, finse una risata, che gli
riuscì bene.
Il
bambino mise su un broncio adorabile
e l'altro non poté fare a meno di ridere, stravolta sul
serio,
attirandosi il piccolo contro il petto. << Su, non fare
così
>> disse, ironico, iniziando a fargli il solletico.
Dimitri
Todorov adorava quel bambino, amava Bea, rispettava Diana e Boris e
loro lo trattavano come un figlio, perché la guerra si era
messa in
mezzo?
<<
Resti a dormire qui, stasera?
>> il bambino era riuscito a liberarsi dalle mani del
tenente.
Annuì,
alzandosi. << Certo >>
Dimitri
Todorov poteva vivere nel
soviet dei suoi genitori, poteva alloggiare nella sua stanza, in
caserma, con gli altri, ma preferiva rimanere a dormire a casa
Gurtsieva, dov'era sempre ben accetto. Sergeij fino a tre anni
dormiva nella culla, e lui poteva tenere Bea contro il petto e
guardarla addormentarsi, da quando avevano comprato un lettino per il
più piccolo, però, Bea dormiva lì,
quando Dimitri si fermava, e il
tenente e il fratellino nel letto grande. Ma c'era stato un periodo,
quando Diana e Sergeij erano andati a passare una settimana a casa
della nonna a Luga, in cui Boris era sul fronte e Dimitri e Bea
avevano avuto la casa tutta per loro; era stato appena quattro mesi
prima. Il tenente ricordava ancora il dolce odore di vaniglia della
pelle di Bea contro il suo petto. Non aveva dormito, se non due ore a
notte, per tutta la settimana. Aveva passato tutte le notti di quella
settimana a guardarla respirare piano, addormentata. Era dura non
poterla nemmeno sfiorare se non come il suo migliore amico, quando
sapeva di amarla. Attualmente Sergeij aveva paura di dormire in
quella camera da solo, e Dimitri si fermava lì, a fargli
compagnia,
dato che la madre non dormiva con lui quando Boris era in congedo.
Campo
di sterminio di Buchenwald,
Germania.
31
Dicembre 1943
18:40
<< Forse
è il caso di lavarsi >>
disse Mark, ironico, osservando la ragazza seduta in un angolo del
bagno. Assomigliava ad una bambina, se n'era accorto solo il giorno
precedente. Walter non era tornato a fare loro visita e Mark non lo
vedeva da un po', ma alle nove sarebbe andato con suo padre dagli
Hoffmann per capodanno; tuttavia il tedesco pensava che senza la sua
visita, quattro giorni prima, non avrebbe mai ... accettato quella
ragazza.
Lei non gli rispondeva,
continuando a
fissare come imbambolata la vasca da bagno. Mark non si
arrabbiò,
come probabilmente avrebbe fatto in altri momenti, ma si
lasciò
andare ad uno sbuffo divertito. Riusciva a farlo ridere, e anche lui
era riuscito a vedere un sorriso di lei, rimanendone effettivamente
incantato. << Allora? >> chiese,
incrociando le braccia
al petto. Gli occhi nocciola risplendevano, brillavano di
curiosità.
Aveva rimandato il bagno, per ciò che era accaduto un po' di
tempo
prima, ma sperava che quel giorno fossero entrati abbastanza in
confidenza... e di aver meritato almeno un briciolo della sua
fiducia.
La ragazza
indicò il fulcro delle sue
attenzioni con l'indice. << In Unione Sovietica non
abbiamo
questa cosa. >>, a Mark diede l'impressione di essere
scettica
sulla sua utilità.
Si lasciò
sfuggire un mezzo sorriso,
<< Si chiama doccia >> le disse, prima di
porgerle la
mano, che la ragazza sembrava esitare ad afferrare: non aveva paura,
ma più probabilmente provava un divertimento sadico nel far
esasperare il povero tedesco.
Schreiber le si
avvicinò, abbassandosi
accanto a lei, << D'accordo, stiamo facendo troppo
rumore, e tu
ti stai comportando come una ragazzina capricciosa. Se entra qualcuno
e ci scopre, sarai in pasto all'ira di mio padre >>
disse,
cercando di convincerla. Non aspettò molto: non era un tipo
troppo
paziente; la afferrò per i fianchi sollevandola e
poggiandola nella
vasca, in piedi.
<< Anche
tu lo saresti >>
lo corresse.
Mark sorrise, anche se
effettivamente
era vero. << Ma se uccidesse me, sarebbe accusato di
omicidio
>> le fece notare, allontanandosi di poco da lei e
incrociando
le braccia al petto, aspettando che si spogliasse.
<< E se
uccidesse me? >>
Mark si
bloccò, sentendo la sua voce
infantile, aveva capito dove volesse arrivare e in quei giorni stava
sfiorando l'idea che non avesse tutti i torti, ma preferiva non
parlarne: suo padre non sarebbe stato troppo d'accordo con quelle
idee. << E' davvero tardi, è il caso di
lavarsi >>
mormorò, avvicinandosi alla ragazza, anche se un po'
più cupo di
prima. L'aiuto a spogliarsi, lasciandole indosso l'intimo.
Non riusciva a spiegarsi
come il corpo
di una ragazza potesse attrarlo a tal punto, soprattutto se ridotto
in quello stato, fatto sta che evitava accuratamente il contatto
diretto con la sua pelle. Era meglio per lei, se non voleva essere
violentata di nuovo. Dedicò parecchi minuti ad ogni ferita e
ad ogni
taglio, alcuni probabilmente anche di quella mattina, almeno era
ancora viva, al ragazzo sembrava quasi strano.
Sentiva lo sguardo di
lei, forse era
preoccupata. << Walter ha detto che vorresti partire per
il
fronte, è vero? >> la domanda della russa gli
parve molto
simile ad una doccia gelida.
Non le rivolse lo
sguardo, continuando
lentamente le sue operazioni. << Non lo so più
>>, era
vero. Continuava ad odiare suo padre con ogni fibra del suo essere,
ma non sentiva più il bisogno di allontanarsi divorargli le
viscere.
Stava bene, era felice come non lo era da tempo. Era felice come non
lo era da quattordici anni. Si scostò, appena ebbe terminato
di
pulirle le ferite, << Continui da sola, no? Ti aspetto
fuori >>
disse, velocemente e, senza darle il tempo di rispondere,
uscì dal
bagno, sedendosi sul pavimento del corridoio, di fronte alla porta.
Due motivi principali lo
aveva spinto a
farlo: non aveva la minima intenzione di vederla ancora nuda,
perché
non aveva intenzione di violentarla, o almeno voleva provare a non
violentarla; inoltre non gli andava di parlare del fronte, di suo
padre e della donna che lo aveva messo al mondo, odiava quegli
argomenti e almeno con lei voleva evitarli. Perché?
Perché lei era
così bianca.
Bianca.
Pura.
E lui come si sentiva?
Colpevole.
Sporco. Vuoto.
Avevano provato tante
volte a dirgli
che non era stata colpa sua. Ci avevano provato a scuola, gli
insegnanti che lo credevano un bambino molto dotato, ci provavano
tutti i giorni i signori Hoffmann, Walter non l'aveva mai detto ma
cercava di farglielo capire. Suo padre... beh, forse quella era
l'unica cosa su cui padre e figlio erano d'accordo: Mark Schreiber
era stato la causa della morte di Agathe Becker-Schreiber.
Alcuni lo chiamano
"incidente",
ma se quella mattina sua madre non fosse uscita per andare a
riprenderlo da scuola -che bisogno ce n'era, poi? Non era distante,
tornava tutti i giorni a piedi, da solo -, non sarebbe stata uccisa
da un malvivente.
Il soldato
deglutì, passandosi una
mano tra i capelli biondi, cercando di scacciare il senso di colpa e
la tristezza che di colpo si erano presentati dentro di lui, a gelare
le vene, partendo direttamente dal cuore.
La porta del bagno si
aprì, alle sue
spalle, rivelando una dolce ragazza russa, con la pelle che odorava
di vaniglia e i capelli neri puliti. Mark doveva ammettere che non
era abituato a vederla così bella. Si alzò,
cercando di celare ai
suoi occhi il malessere interiore che provava e le fece cenno di
seguirlo. Velocemente, raggiunsero nuovamente la camera dove avrebbe
dovuto trovarsi Bea. Non era facile mettere da parte tutto
ciò che
provava, ma Mark tentava, tentava perché non poteva stare
sempre
così male. Il dolore era insopportabile.
Entrati, il ragazzo
richiuse
velocemente la porta alle sue spalle. << Allora, come ti
senti?
>>, sapeva che in quelle condizioni avrebbe potuto
ricevere un
solo tipo di risposta, ma ci provava lo stesso. Stava cercando di
aiutarla... e gli piaceva il sorriso di lei. Era carina sul serio.
Dio, stava diventando così stupido che sicuramente la
ragazza gli
avrebbe risto in faccia.
<<
Luchshe, spasiba* >>, e
gli regalò un sorriso. Probabilmente quelle parole sapeva
dirle
anche in russo, ma ultimamente si divertiva a farlo esercitare con il
russo. Mark non riusciva a pronunciare molto bene le parole e lei
rideva, ascoltando il pesante accento tedesco che lui non riusciva a
fare a meno di posare su ogni sillaba. Solo Mark pensava che il modo
di parlare una lingua altrui di Bea fosse tremendamente adorabile?
Lui tentò di
sorriderle, nonostante i
brutti pensieri che non aiutavano affatto. << Vado a casa
di
Walter, stasera >> le disse, mentre le cambiava le bende.
Era
il motivo per il quale quella sera era andato a trovarla prima.
<<
Abbiamo questa strana abitudine di andare sempre da loro, per le
feste >>, sorrise.
<< Vive
anche lui in una casa
come questa? >>, aveva sgranato gli occhi verdi,
accentuando
l'impressione infantile che già riusciva a dare normalmente.
Schreiber le rivolse lo
sguardo,
scostandolo per qualche istante dalle ferite e dalle bende.
<<
Beh, non proprio come questa. Diciamo che da lui non ci sono guardie
dell'SS ovunque >> cercò di scherzarvi su,
sebbene non
riuscisse a capire la sorpresa della ragazza. Avevano parlato molto
in quei giorni, ma non di tutto. << Tu dove vivi?
>>,
tentò.
Bea si portò
una ciocca di capelli
dietro l'orecchio. << Oh, al secondo piano del terzo
soviet.
Purtroppo le nostre stanze sono al centro del corridoio. Noi abbiamo
ottenuto due stanze perché mio padre fa parte dell'Arm..
>>,
la ragazza non aveva intenzione di dire niente, riguardo suo padre o
riguardo l'Unione Sovietica, ma le sembrava così facile
parlare con
quel ragazzo tedesco.
Non era ugualmente
riuscita a finire di
parlare: Mark le aveva poggiato con fermezza una mano sulle labbra,
per farla stare zitta. << Non dirmi mai più
cose del genere >>
sibilò, dimenticando completamente il tono gentile e dolce
usato
fino a quel momento. Per certe cose, come quella, non riusciva a non
essere duro, ma aveva le sue buone ragioni. Notò il volto di
lei,
sembrava spaventata; sospirò e scostò lentamente
la mano. <<
Non sono contro di te, forse mi piacerebbe far fuori qualche
comunista, ma non te. Sono fedele alla Germania e al Führer,
se tu
mi dici queste cose, io devo dirle a chi di autorità.
>>,
stavolta si era imposto un tono più gentile, anche se gli
sembrava
un po' difficile.
La russa
annuì, osservandolo. <<
Se sei fedele alla tua arma, perché non vuoi che ti dica
niente? >>
Mark si stupì
di quella domanda così
ingenua, come se realmente non capisse il pericolo che correva
semplicemente parlando con lui. << Se lo fai, non avranno
più
motivo per tenerti in vita >>, non gli sembrava stupida,
avrebbe capito cosa significava quella frase, ne era certo.
Non parlarono
più. Lui le avvolgeva le
bende attorno alle ferite e lei lo lasciava fare, immobile. Si
scostò, poco dopo. << E' tardi, devo andare,
ci vediamo
domani. E' festa, forse riuscirò a venire prima
>>, cercò
ancora di sorriderle.
<< A
domani >>, Bea
sembrava sorridere con più facilità.
<>, sembrò ricordarsi
improvvisamente di una cosa.
Mark s'interruppe, con
la mano ancora
sul pomello della porta e si voltò ad osservarla.
<< Sì? >>
<< Buon
anno, soldato >>
Weimar,
Germania.
1
Gennaio 1944
00:01
<< Buon
anno! >> fu un coro
comunque, di cinque persone. Sembravano tutti così felici,
mentre
bevevano lo champagne con cui avevano brindato. Anche Mark era
stranamente felice quella sera di gennaio, e solo Walter poteva
vagamente immagine il motivo, ma non lo avrebbe di certo espresso ad
alta voce, davanti al madre di Mark non era il caso, almeno. Non
voleva mettere nei guai il suo migliore amico, no.
Il signor Hoffmann
poggiò nuovamente
il bicchiere sul tavolo, << Bene, Hans, cosa dobbiamo
aspettarci dai nostri soldati - e qui poggiò una mano sulla
spalla
del giovane Schreiber- in questo nuovo anno? >>, Mark lo
sapeva
bene, non gli era mai interessato nulla di politica, ma di solito
erano sua moglie ed Agathe Schreiber a reggere le conversazioni, da
quando l'ultima non c'era più le due famiglie erano rimaste
in
contatto principalmente attraverso i figli.
Hans Schreiber
scrollò le spalle, <<
Che riescano a contrastare i sovietici, Alphons >>
rispose
l'altro, scuotendo appena il capo. Il figlio vedeva che ci credeva
sul serio, probabilmente sarebbe andato persino lui a combattere sul
fronte, pur di non darla vinta ai russi, ma gli avevano affidato il
comando del campo di Buchenwald. Non poteva allontanarsi da
lì, se
non per questioni ordinate da Hitler in persona.
<< Ci vedi
buone possibilità? >>
stavolta era stata la donna a parlare. Come il figlio e il marito,
non era pro-nazismo, ma avendo buonsenso non lo contrastava in alcun
modo. Tanto, secondo lei, una politica del genere non poteva durare,
prima o poi la gente si sarebbe accorta di sbagliare.
L'altro
annuì. << Certo. Abbiamo
affrontato di peggio, inoltre sto cercando di avere informazioni
sull'Armata Rossa dalla figlia di uno di loro >>
Mark rivolse lo sguardo
al padre,
improvvisamente più interessato all'argomento di
conversazione. Non
sapeva molto su ciò che accadeva a Bea durante quei
colloqui. Lui
non glielo aveva mai chiesto, né lei sembrava
particolarmente
intenzionata a parlargliene. Forse sarebbe stato meglio rimanere
nell'ignoranza, ma preferì continuare ad ascoltare.
Alphons Hoffmann
annuì, << Siete
venuti a conoscenza di qualcosa? >>
<< Non
troppo, ancora, ma forse
siamo sulla buona strana >> il modo in cui lo disse diede
fastidio al soldato, che incrociò le braccia al petto, prima
di
sedersi sul divano.
Walter cercò
invece di fare buon viso
a cattivo gioco, notando la reazione del suo migliore amico,
<<
E come se la sta cavando Mark, signor Schreiber? >>
chiese, con
tono allegro, come se pensasse che il biondo seduto sul divano fosse
un eroe. Beh, in parte lo era, stava aiutando una deportata, contro
tutti e contro i suoi stessi ideali nazisti.
L'altro sorrise,
<< Oh, bene,
bene. Devo dire che sembra mantenere in vita la ragazza senza
lamentarsi troppo, anche se non la vedo da quattro giorni. L'hai
uccisa, figliolo? >>, l'uomo sorrideva con sarcasmo, come
se la
morte non gli provocasse alcun fastidio.
<< No
>> la risposta del
figlio fu fredda, seria, distaccata. Perché?
Perché stava cercando
di allontanarsi dal burattino nazista che avrebbe dovuto essere.
<<
Non è quello il mio compito >> aggiunse, poco
dopo.
Hans Schreiber
annuì, <<
Continua così, e verrai presto promosso a caporale
>>
Campo
di sterminio di Buchenwald,
Germania.
1
Gennaio 1944
12:30
Mark Schreiber era
tornato tardi quella
notte, insieme a suo padre, ma aveva dovuto comunque svegliarsi
presto. I militari non perdevano tempo, come diceva suo padre. Era
appena tornato da un allenamento, ridotto ma pur sempre un
allenamento. Iniziava davvero a scocciarsi di quella roba. Stavolta,
al poligono di tiro, invece delle sagome, c'erano degli deportati
ebrei.
Avevano sparato quasi
tutti, obbedendo
agli ordini dei loro superiori. Anche Mark Schreiber aveva sparato,
non aveva paura di uccidere qualcosa, ma per la prima volta in tutta
la sua vita si sentì in colpa per aver fatto del male a
qualcuno
che, nel suo paese, gli era stato insegnato valesse quando le feci di
un cane. No, le feci di un cane ariano valevano di gran lunga di
più.
Derek Keller aveva
rifiutato di
sparare.
Sentiva ancora le sue
parole, mentre si
lavava: "Perché
dovrei farlo? I bersagli mi vanno
benissimo e loro non mi hanno fatto niente. Credevo che la guerra
fosse per questioni territoriali, non per un capriccio di
Hitler". Doveva ammetterlo, quel ragazzo aveva fegato,
probabilmente ne aveva di più di tutti i militari dell'SS
riuniti
quel giorno; e non era un burattino dello Stato, come praticamente
tutti. Come Mark temeva di diventare.
Un sergente lo aveva
preso a calci,
come presto avevano fatto altri membri delle truppe. Si era buttato
nella rissa, per difendere Derek. Erano due contro dieci, ovviamente
non si era messa bene per Schreiber. Era un buon tiratore, ma in
quello non se la cavava troppo bene.
Sospirò.
Mentre usciva dalla doccia e
si asciugava il corpo. Cercava di non pensarci, quel periodo era
tutto così... strano, quasi surreale.
Si rivestì,
conscio che dopo pranzo lo
attendesse un'altra lezione di russo.
*Meglio,
grazie. (russo)