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Autore: Ziggie    09/09/2011    4 recensioni
- Sarai dannato per questo, Hector – esalò il suo ultimo respiro, con queste parole.
- Ci potrei fare l’abitudine -.
Non è la prima volta che narro del Capitan Barbossa, voletemene ai dotti è il mio personaggio preferito. In questa piccola one shot vedrete un Hector bambino alle prese con il padre ubriacone. Non vi svelo altro, buona lettura
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Hector Barbossa
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ed eccomi qui con una nuova shot sul capitan Barbossa. Non voglio però svelarvi nulla di quanto abbia già fatto nella presentazione, quindi vi lascio alla lettura e attendo commenti. Buona lettura.
 

Prendere il fato nelle proprie mani
 

Avevo imparato che se volevo sopravvivere, dovevo cavarmela da solo.

Con una madre deceduta e un padre in preda ai fili dell’alcool - come se fosse la sua marionetta - che mi riversava addosso schiaffi ogni qual volta tornava a casa, campare non era affatto facile.

Uscivo di casa alla mattina e mi perdevo, tra i vicoli del porto, ad osservare quelle bellezze che ogni giorno solcavano il mare, sedendomi su un barile ad ammirare quell’immensità che suscitava libertà, sognando di sfuggire da quello schifo che mi accerchiava.

Sospiravo nel notare bambini più piccoli di me, mano nella mano, con la propria madre: avevano l’affetto, che io non avevo mai conosciuto, ma ognuno è fortunato a suo modo.

Avevo imparato che nulla è dovuto al caso, che non serviva a nulla piangersi addosso; tenevo testa al mio vecchio e, seppure fossi uno scriccioletto di tredici anni, magro e mezzo deperito, incassavo ed evitavo di piangere per non mostrarmi debole: non ero inutile come mi considerava lui, valevo il doppio, ed un giorno il mio nome avrebbe conosciuto la fama.

Alla notte passavo le ore, alla mia finestrella, ad osservare il mare, baciato dalla luce brillante o pallida della luna; mi piaceva quando la luminosità della regina della notte si perdeva nell’oscurità del grande blu, ed era in questi momenti che, cullato dalle onde lontane e accarezzato dal vento impregnato di salsedine, mi addormentavo, con la speranza di vivere presto il giorno tanto agognato.

Ogni giorno di mercato era la gioia per il mio palato. Mi confondevo tra la folla e tra le bancarelle e, quatto quatto, prendevo di mira il banco del fruttivendolo Sam, derubandolo di qualche mela succulente.

- Fermati canaglia, fermati!  - mi urlava dietro, come ogni volta che si gettava al mio inseguimento: una routine quotidiana di quei giorni, ormai.
- Sono soltanto due mele, Sam! – gli rispondevo mentre continuavo a correre tra la folla.
- Certo! Due mele, che si aggiungono ad una lunga serie! Aspetta che lo dica a tuo padre –

Ogni volta così, ma il vecchio non aveva mai  spifferato nulla, credo che gli piacesse fare un po’ di moto e credo anche che, sotto, sotto, gli stavo simpatico.

Quella volta però fu diverso, non feci in tempo a ribattere alle parole del fruttivendolo che, qualcun altro, mi prese per la collottola, gettandomi a terra violentemente. Riconobbi subito quelle mani: mio padre.

- E’ così che ripaghi i miei sacrifici, insulso verme? – ringhiò, dandomi uno schiaffo: puzzava già di alcool in quelle prime ore della mattina. La folla intorno a noi ammutolì, ma tornò, dopo pochi minuti, a camminare a testa bassa.
- Avrò diritto a mangiare qualcosa, no? – gli diedi contro, alzandomi.
- Avevi a casa la tua razione -.
- Si, un pezzo di pane raffermo!? – un altro schiaffo, stavolta più potente.

Quel vile mi afferrò per la collottola, di nuovo, e mi portò a casa; una volta aperta la porta, mi sbatté violentemente a terra e mi riempì di calci e pugni fino a farmi sputare sangue; avrebbe smesso con una sola parola: pietà.

Ormai facevo fatica a respirare, grondavo di sangue dal naso e dalle labbra, ma ero restio a dargliela vinta e non avrei mai ceduto a lui sotto quella parola.
Mi alzai a fatica, stavo con le spalle al muro, ma poi la vidi: la spada di quel vile essere stava a terra, ai miei piedi, doveva essergli caduta mentre mi picchiava con foga. La osservai per qualche istante, mentre l’uomo ghignava, pronto a farmi fuori con le sue stesse mani.

- Non hai fegato – mi sputò addosso quelle parole.
- Non è vero! -
- Senza il tuo vecchio, non sei nessuno -.
- Sarei una persona migliore: vivrei! - mi abbassai e presi l’arma. Era pesante e dovetti brandirla con entrambe le mani, ma ero deciso più che mai: o io, o lui, stavolta.

L’uomo si gettò su di me, come un lupo pronto a ghermire la preda; io chiusi gli occhi e mossi le mie braccia. Fu come se l’arma si governasse da sola, non era più pesante quando lambì la carne del mio vecchio, trapassandolo da parte e parte.
Indietreggiai. Non potevo crederci, l’avevo fatto davvero, l’avevo ucciso! Quel gesto non mi toccò e sorrisi. Presi, poi, un profondo respiro e mi avvicinai al corpo rantolante della bestia, riprendendomi la spada e sputandogli addosso.

- Sarai dannato per questo, Hector – esalò il suo ultimo respiro, con queste parole.
- Ci potrei fare l’abitudine -.

Non ero mai stato un bambino, ero già nato adulto, ma con quel gesto divenni uomo. 
  
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