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Autore: KH4    12/09/2011    4 recensioni
Quando Nami aveva espressamente detto di non combinare alcun guaio, intendeva cose del tipo “Non attirate troppo l’attenzione con le vostre buffonate”, “Non fatevi vedere dalla Marina” o “Evitate di scatenare l’ennesimo pandemonio”. Insomma, i classici avvertimenti che non mancavano mai di essere ripresi e ripassati. Ma tra questi e l’infinita serie di avvertimenti da lei elargiti, nessuno aveva mai parlato di ragazze isteriche trasportanti in spalla, come sacchi di patate, fratelli mezzi dissanguati e seguite a ruota da innocenti bambine con grandi occhi azzurri. Un evento decisamente più normale del solito, umano, per dirla nella giusta maniera, ma, sicuramente, non privo di sorprese, se si teneva conto del fatto che, a portarli sulla nave, era stato proprio Rufy. (estratto del capitolo quattro).
 
Il Nuovo Mondo è pronto ad accogliere Rufy e la sua ciurma, tornati insieme dopo due anni di separazione; lasciatisi alle spalle l'isola degli Uomini Pesce, i pirati approdano su di un'isola, dove incontreranno un piccola amante della pirateria, bisognosa di aiuto. Spero di aver stuzzicato la vostra curiosità, ragazzi!
Seguito di “Giglio di Picche.”
Genere: Avventura, Azione | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Monkey D. Rufy, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
Capitoli:
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Buon lunedì a tutti quanti! Chiedo scusa per il ritardo, mi spiace, ma mercoledì non ce l’ho proprio fatta ad aggiornare. Il fatto dei possibili ritardi l’avevo già fatto notare, ma volevo dire che sto pensando di cambiare giorno di pubblicazione, perché il mercoledì è troppo pieno. Non so ancora bene quando, perché ora come ora ho da fare, ma se mi riuscirà aggiornerò i lunedì, altrimenti, non appena avrò tempo. Quindi, se volete sapere come procede la vicenda, rimanete incollati a Efpfanfic! (scherzo, mica siete obbligati). Questo sarà un capitolo soft, una specie di parentesi, quindi non succederà nulla di particolare. Avviso, per chi ha letto “Giglio di Picche”, che qui comparirà un personaggio già citato nella storia precedente, ma mai nominato perché non gli avevo mai dato il nome. Per chi invece è nuovo, sarò felicissima di rispondere alle domande che mi verranno poste! ^^.

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“….….”
“Ancora niente, signora?”
“No, Madlene. Non ha ancora chiamato.”

Il tramonto si estendeva su tutta l’isola di Shirama, coprendola col suo inafferrabile  manto dorato. La luce soffusa colpiva ogni angolo dell’isola, colorandola con sfumature calde e cancellando i segni della mattinata e del pomeriggio: i bagliori che il sole emetteva, erano tanto forti da dare l’impressione che l’intera isola fosse avvolta in un grosso incendio apparentemente inestinguibile, con fiamme aventi tonalità quasi accecanti. Era complicato spiegare il perché un semplice passaggio naturale suscitasse così tanta attrazione: un tramonto era un tramonto, ma in esso vi era una magia che lo rendeva unico, diverso dal giorno e dalla notte. Una magia inspiegabile e immortale, capace di svegliare le emozioni di ogni persona esistente al mondo. Era uno spettacolo rilassante, un piccolo intervallo fra il giorno e la notte, che veniva interpretato dai residenti del posto come la campanella che annunciava la fine del lavoro giornaliero; se si faceva ben attenzione, si poteva udire il coro armonioso dei soldati che rompevano le righe, i cardini delle pesanti porte d’acciaio cigolare, le vele delle navi che venivano ammainate, il tutto trasportato dal fruscio del vento che smuoveva le fronde dei alberi.

Shirama, con le sue stradine che diventavano rosse quando il sole andava a riposare, con le sue giornate che oscillavano fra la tranquillità e il dovere, ospitava la base numero diciassette della Marina. Nel Nuovo Mondo, come nel vecchio del resto, il braccio della giustizia si era premurato di costruire dei piccoli fari che, uniti fra loro, formassero una rete funzionante e perfettamente organizzata. A dispetto di molte, la base numero diciassette era un autentico gioiellino, un perfetto esempio di come la collaborazione poteva essere il miglior collante per ogni cosa. Il lavoro si divideva in missioni, spedizioni, addestramenti e lavoro d’ufficio, tutto scandito e ordinato come se fosse stato scritto in precedenza su una tabella. La fatica non mancava, così come la responsabilità: la sveglia era prima dell’alba e come il sole baciava il terreno dell’ampio campo d’addestramento, il sudore compariva sui muscoli delle smilze reclute, venute lì per imparare il mestiere. Il profumo dei cibi delle cucine arrivava a stuzzicare gli stomaci di coloro che stavano immersi fra tomi voluminosi e pratiche cartacee da controllare e firmare, mettendo momentaneamente da parte l’aria salmastra proveniente dall’oceano. Le mura circostanti erano alte e spesse, controllate quanto l’edificio stesso e il porto, il quale disponeva di cinque navi equipaggiate al meglio delle loro possibilità.

Il vessillo della Marina - un enorme gabbiano blu - spiccava sulla facciata principale più della bandiera stessa, sventolante in cima al pennone come ulteriore incentivo per tutti coloro che erano allergici alla galera. Nessun pirata sano di mente avrebbe mai provato a rubare qualcosa dalla cassaforte della base: bisognava essere molto stupidi per cimentarsi in una simile impresa, oppure molto desiderosi di vedere una forca da vicino. Seppur piena di documenti, mappe e prove preziose, il prezzo che queste cose richiedeva era troppo elevato perché una persona si buttasse nel cimento, così, a occhi chiusi. Le finestre stavano troppo in alto per essere raggiunte, le pareti dell’edificio erano lisce e prive di appigli, per non parlare poi delle porte: sufficientemente solide da impedire che il nemico ci facesse un buco.

Per farla breve, una base della Marina era l’ultimo posto dove tentare un furto o un qualsiasi atto deplorevole e semmai qualche idiota ci avesse voluto provare, sicuramente la base numero diciassette non sarebbe stata una buona scelta. Ragione per la quale, gli unici civili del posto si sentivano perfettamente al sicuro.
Non c’era pericolo di venire attaccati da dei pirati, quindi, le preoccupazioni per quell’eventualità, stavano cautamente sotto la soglia dello zero. Ma questo non escludeva l’esistenza di altre preoccupazioni, nate da ragioni più personali….

“Forse avrà avuto una giornata pesante. Da quello che so, la signorina Shion sta visitando dei siti storici molto interessanti”, suppose la donna di nome Madlene, nel mentre teneva le mani appoggiate sulla stoffa del suo grembiule bianco.

Per lei, domestica da più di dieci anni, criptare le espressioni dei padroni di casa era diventata quasi una seconda mansione. Per quanto il suo viso mostrasse un’ancora piena giovinezza, l’esperienza acquisita era sufficientemente grande da renderla una veterana, ai occhi dei apprendisti.
Con il suo caschetto nero e la divisa da cameriera coordinata e sempre ben stirata, Madlene sapeva leggere con quei suoi occhi neri la preoccupazione della signora Milena, seduta sul balcone circolare di casa, con la schiena comodamente appoggiata al cuscino di una delle due grandi sedie bianche. Era il suo posto preferito, il suo angolino privato, dove la brezza marina soleva sbuffare con più dolcezza, accarezzandole la pelle e i lunghissimi capelli biondi, acconciati solamente durante balli o celebrazioni. Costruita nei pressi della più alta scogliera di Shirama, la villa dei signori Yokozomi spiccava come un faro nelle notti di tempesta: in qualità di unica abitazione civile presente sull’isola, poiché le restanti persone alloggiavano alla base della Marina, individuarla era facilissimo. Seppur maestosa esteriormente, l’interno non era avvolto in quel lusso sfarzoso dentro cui molti nobili solevano sguazzare: nelle stanze si respirava il buon gusto dell’estetica, della modestia, unito al tocco femminile della signora Milena, la cui inclinazione all’ordine era assai percepibile. I mobili, in legno scuro, si accompagnavano coi tappeti dai motivi intricati che erano stati disposti su alcuni pavimenti in marmo bianco, esattamente come il balcone. La superficie liscia e fredda si slargava ulteriormente anche alle pareti, dove quadri rappresentanti motivi floreali rendevano l’ambiente meno monotono, insieme a vasi e ad altri oggetti che, nel complesso, si intonavano con lo stile della stanza. Stando ben attenta a equilibrare bellezza e semplicità, la padrona di casa aveva fatto di quella villa il suo fortino, una casa a cui affezionarsi, un luogo caldo e sicuro dove far crescere la propria figlioletta. Il respirare la sicurezza e la tranquillità di quella parte dell’isola di Shirama, unite poi al loro stile di vita, le aveva sempre permesso di affrontare le giornate senza cruci o pensieri difficoltosi, ma quel giorno…….quel giorno era diverso.

Sospirando a occhi chiusi, l’elegante donna posò con grazia la tazzina di tè bollente sul piattino, per poi portare le mani sulla lunga gonna rosa del vestito, lisciandone le pieghe con silenziosa minuziosità. La voce calma e gentile di Madlene era rassicurante, ma i dubbi attanagliavano la sua mente a tal punto da impedirle di gustarsi l’aroma della sua bevanda preferita. Perfino il profumo dei pasticcini affiancanti la tazza non riuscivano a distrarla: i suoi occhi non facevano che guardare il piccolo lumacofono, l’orizzonte, e poi, nuovamente, l’apparecchio telefonico. Ogni altro evento non pareva essere grande abbastanza da farle voltarle la testa, quel piccolo oggetto stava esercitando su di lei un magnetismo assolutamente impossibile da distruggere. Il legame che li univa era troppo personale perché una qualunque e superficiale distrazione lo rompesse.

Tutto, in quell’istante, era privo d’interesse, per lei.
Il cuore della signora Milena era impigliato in domande e quesiti privi di risposte e più si chiedeva se la figlia stesse bene, più quel silenzio le pesava.
Portandosi una mano all’altezza del petto, sospirò nuovamente, con le palpebre calate sulle iridi azzurre, lasciando che l’altra si chiudesse in un pugno nel suo grembo; come il vento le solleticò le spalle, rabbrividì leggermente, lasciando che le sopraciglia si corrugassero in un’espressione infreddolita.

“E’ meglio rientrare, signora”, l’avvisò Madlene, posando uno scialle giallo chiaro sulle spalle della donna “Comincia a fare freddo.”
“Vai pure, io rimango ancora un po’ qui.”
“E’ sicura, signora?”
“Certo. Voglio rimanere a guardare per un altro po’ il panorama”, ripetè lei  “Vai, ti raggiungo fra qualche minuto.”

Venendo congedata con un sorriso, la cameriera abbassò il capo, per poi passare dalla porta finestra e dirigersi verso le cucine.
La signora Milena la osservò nel mentre si dileguava, ben conscia dell’incertezza presente sul suo volto. Per un solo istante, desiderò poter possedere una discreta parte della sua calma: forse, così, avrebbe evitato di riempirsi la testa di ipotetiche visioni dalla natura quasi insensata. Magari, avrebbe deciso di camminare lungo uno dei sentieri del parco, perdendosi nel verde e nel colore dei fiori che, con fare lento, si stavano avviando alla chiusura. L’enorme radura divideva la base della Marina dalla sua casa, creando una sorta di barriera che respingeva ogni tipo di rumore, riducendolo a un semplice e accettabile sibilo. Gli alberi costeggiavano i passaggi, creando immensi archi con le loro chiome e chiazze d’ombra sotto cui riposarsi. Ogni tanto, se si aveva fortuna, si potevano vedere dei piccoli e pelosi animaletti sbucare dal terreno: questi arruffavano la testa e prendevano ad annusare l’aria come a voler trovarci qualcosa di sfizioso. I biscotti che Shion prendeva dalla credenza erano un esempio perfetto, poiché la bambina soleva lasciarne qualcuno vicino alle buche che gli animaletti, ogni tanto, scavavano. Per la loro gioia e per il pieno rispetto che si aveva della natura presente, neppure un singolo cespuglio era stato sradicato: quel piccolo polmone verde era rimasto perfettamente integro, salvo lo stretto necessario per rendere i passaggi accessibili.

Il girare senza una meta precisa, come una sorta di viandante errante, l’avrebbe spinta a finire con i piedi immersi nella sabbia, dove, sicuramente, sarebbero stati privati del loro calore dalle onde dell’oceano. Il sollievo che provava ogni qualvolta lo faceva, le alleggeriva sia il corpo e la mente, inebriandola di un piccolo piacere personale che, in seguito, rigenerava le forze da lei consumate. L’essere una donna piuttosto in vista, implicava non poche presenze nell’ambito pubblico: l’amare la beneficenza rendeva la sua vita impegnativa, ma non piena abbastanza da farle trascurare il suo dovere di madre. In qualunque circostanza, la signora Milena sapeva sempre come ritagliarsi un piccolissimo spazio per sé, giusto per godere di quella pace costruitasi con tanta fatica. Senza, avrebbe finito per essere consumata da quelle stesse attività che lei svolgeva senza alcun obbligo.

“Guarda che se rimani fuori troppo a lungo, rischi di prenderti un bel raffreddore”, la rimbeccò una voce alle sue spalle.

Sorpresa da quella voce, la donna strabuzzò gli occhi, raddrizzando ancor di più la schiena. L’impiantare gli occhi sul cielo rossastro, sfumato qua e là da irregolari pennellate di giallo e arancione, le aveva impedito di udire gli irregolari passi della figura che, silenziosamente, le era arrivata alle spalle. A forza di guardare l’orizzonte aveva finito per distanziare la mente dalla realtà, rimanendo a contemplare il vuoto senza un motivo preciso. Voltandosi velocemente, dischiuse la sua bocca in un sorriso amorevole a quello che era suo marito, appena tornato dal lavoro.

Adelwine Yokozomi era a pochi passi da lei, in piedi, con un lungo mantello bianco e decorato che gli avvolgeva le spalle. Era un uomo vicino al raggiungimento dei cinquant’anni, con capelli corti e neri come le penne dei corvi, attraversati da riflessi bluastri. I baffetti – del medesimo colore della chioma-, erano fini e rivolti all’insù, accompagnati da una barbetta scura che, insieme ad essi, gli conferivano un’espressione ancor più seria quando la situazione diveniva pesante.

“Non ti ho sentito arrivare”, gli disse lei con voce addolcita.

L’ uomo sorrise, stendendo i lineamenti del viso e facendo sparire momentaneamente le piccole rughe che gli solcavano la fronte e gli angoli della bocca. Nonostante avesse trascorso – come sempre - la giornata in ufficio, i segni della stanchezza lavorativa parevano essere stati occultati da una magia, perché la moglie, seppur si sforzò di scorgerli, fallì miseramente. Con sguardo muto, la donna osservò il marito sporgersi in avanti, appoggiando il peso di tutto il corpo sul bastone da passeggio che teneva ben stretto nella mano destra, zoppicando quanto bastava, per arrivare a sedersi dall’altra parte del tavolo. Ogni qualvolta vedeva quell’aggeggio di legno, non poteva fare a meno di socchiudere gli occhi per la tristezza: quella visione, oramai, era entrata a far parte della loro vita, ma ogni tanto pareva rafforzarsi, lasciando che le loro menti, in special modo quella di lei, ricordassero il perché questa fosse lì.
Come l’uomo poggiò la schiena contro il soffice cuscino della sedia, sospirò con fare sollevato, distendendo i muscoli e lasciando ben intendere che quel accenno di dolore fisico, provocato dalla gamba, era finalmente svanito. Il bastone rimase poggiato all’arto compromesso, inerme, sotto lo sguardo della moglie, nella cui memoria era appena emerso il ricordo collegato a quell’oggetto: la stoffa dei pantaloni blu scuro poteva anche nascondere quella grossa cicatrice che ricopriva quasi tutta a gamba sinistra, ma nessuna barriera fisica o psicologica poteva modificare  o cancellare i fatti accaduti.

Adelwine un tempo era stato un soldato, un bravo soldato che era stato giustamente premiato e riconosciuto per le missioni svolte. Una persona corretta, un semplice marine con un futuro radioso davanti a sé….almeno così si pensava. Il suo incidente, era la prova che tutto al mondo era possibile, che fortuna e sfortuna erano forze instabili, indomabili, maligne e benigne allo stesso tempo. Lei stessa aveva compreso fin da subito quali sentimenti potesse aver provato il marito e sebbene fossero passati molti anni da allora, quel giorno si era scavato una buca così profonda nella sua mente, da risultare incancellabile. Era successo in un giorno qualunque, uno dei tanti: la routine lavorativa era stata spezzata da un’improvvisa esplosione che aveva allertato i presenti. Uno dei magazzini del Quartier Generale della Marina aveva preso fuoco. I barili contenenti la polvere da sparo si erano rovesciati, spargendo il contenuto ovunque. In un attimo, il fumo aveva inghiottito il magazzino, riducendolo in un ammasso deformato l’edificio, soffocando e bruciando alcuni dei presenti venuti a contatto con la polvere. Adelwine non era uno di quelli, ma come aveva udito il botto, si era precipitato dentro il magazzino cercando di fare il possibile, ignaro della trave che gli sarebbe caduta addosso. Il seguito non voleva neppure ricordarlo, poiché lo stava già guardando: vista l’impossibilità di utilizzare la gamba come prima, suo marito aveva deciso di servire la giustizia da dietro una scrivania, occupandosi di affari burocratici e azioni diplomatiche.

Non c’era stato modo di fargli recuperare completamente la mobilità persa e l’amarezza provata per il non poter più seguire i suoi compagni in battaglia, aveva influenzato non poco l’umore dell’ uomo. Si era visto costretto a rinunciare a quasi tutte le ragioni per cui aveva deciso di entrare nella Marine, ma il prendere atto che era ancora vivo e, soprattutto, che poteva ancora fare qualcosa, lo avevano riscattato. La sua vita ora ruotava attorno a viaggi, conferenze, assemblee, a lei e a sua figlia, il tutto scandito da un tempo ne troppo lento ne troppo veloce, ma comunque pretenzioso. Era cosciente di quanto fermento ci fosse attualmente, e quanta responsabilità chiedessero le Alte Sfere, ma, da brava moglie quale era, voleva far si che, almeno a casa, suo marito fosse tranquillo e sereno, senza preoccupazioni. Anche se, al momento, una preoccupazione c’era…….

“Non ha ancora chiamato, vero?” la domanda di lui fu sufficiente per dimostrare che già sapeva dove l’imminente discorso sarebbe andato a finire.

Inciampando nelle sue stesse reazioni, la donna annuì.

“Si”, disse poi “E’ da ieri pomeriggio che non ho più sue notizie.”
“Se ne sarà dimenticata. Può capitare”, suppose lui, allungando la mano verso il piattino dei pasticcini.
“Impossibile: ho detto ad Azu e a Lars di ricordarglielo tutte le sere”, replicò lei, per poi rivolgergli un’occhiata diversa “Adel, sono preoccupata.”
“Lo sei sempre, da quel che so”, ridacchiò lui.
“Non è divertente”, si indispettì la moglie “Nostra figlia è lontana da casa, è perfettamente naturale che io mi preoccupi: ancora mi chiedo come abbia fatto a convincerci.”
“Forse, inconsapevolmente, volevi darle fiducia”, azzardò l’uomo, nell’addentare un pasticcino.

Nonostante avesse pronunciato quelle parole come se rappresentassero una semplice supposizione, la franchezza che esse esprimevano era troppo solida per venir presa con superficiale leggerezza. Pensare che Aldelwine non fosse minimamente preoccupato per sua figlia era impossibile: chiunque lavorasse nella base numero diciassette, inservienti compresi, sapeva bene quanto quell’uomo – che poi era il capo- adorasse la piccina. Shion era tenera e curiosa, un cucciolino dalla testa dorata e arruffata che amava le esplorazioni e tutto ciò che nascondeva un lato enigmatico, addirittura leggendario. Il suo grande sorriso rifletteva la felicità e l’ingenuità tipica dei bambini di quella particolare età, addolcendo il cuore di chi lo guardava. Era difficile resisterle, specie quando mostrava quel suo faccino implorante, coi grandi occhioni azzurri spalancati e le guanciotte paffute: una sfida persa in partenza. La somiglianza con la madre, poi, era uno dei argomenti che subito venivano tirati in ballo. Per l’aspetto fisico, Shion aveva preso dalla madre: gli occhi azzurri quanto l’acquamarina, i capelli dorati e la carnagione rosea, appena sfumata quando veniva colpita dal sole, tutto. Messa insieme alla donna, pareva una piccola e graziosa bambola di porcellana, anche se con un taglio di capelli diverso. Eppure, tanta uguaglianza, finiva per cadere rovinosamente a terra quando entrava in gioco il carattere: la bambina, a differenza della madre, amava esprimere i propri sentimenti con molto ardore, faticando a controllarsi. Era un comportamento normale, considerata la sua tenerissima età, ragione per la quale, la più grande non la rimproverava con tanta veemenza.

La signora Milena, nonostante non fosse più nel fiore dei anni, emanava ancora una bellezza angelica, la cui sfioritura pareva essere molto lenta: le sottili linee incavate che attraversavano le sue guance e le appena visibili pieghe ai lati della bocca, rappresentavano gli unici segni visibili di quell’invecchiamento pigro e svogliato. Non c’era magnanimità da parte del tempo: semplicemente, la moglie del signor Yokozomi possedeva una bellezza tale, che non poteva consumarsi in un solo colpo. Era bella, molto bella, con una voce mielata ma non troppo, leggera come un soffio e calda quanto un piumone durante i rigidi giorni d’inverno. Coi suoi modi delicati sapeva gestire differenti situazioni, mantenendole su un piano perfettamente equilibrato. La sua era quasi un’abilità innata, ma che, in quel momento, non stava funzionando a dovere su sé stessa; Adelwine la vedeva preoccupata, con le mani chiuse a coppa intorno alla tazzina da tè, ora completamente fredda. Lo scialle bianco le copriva le spalle, proteggendola dai leggeri sbuffi ventosi che si divertivano a smuoverle il lungo vestito rosa e la chioma dorata. A giudicare da come aveva abbassato gli occhi e corrucciato le sopraciglia, doveva star riflettendo sulle parole dette da lui poco prima: indubbiamente, c’era qualcosa che lui voleva farle capire, qualcosa di cui lei già era a conoscenza, ma che, forse, inavvertitamente, aveva finito col seppellire con le sue ansie.

Infine, quando realizzò dove il consorte volesse andare a parare, sospirò impercettibilmente, tornando ad appoggiarsi, con espressione arrendevole, allo schienale della sedia.

“Pensi forse che io esageri con la mia preoccupazione?” gli domandò lei con un mezzo sorriso.
“Non più di tanto, ma è una cosa perfettamente normale”, le rispose il marito.
“Lo so, ma non posso fare a meno di chiedermi se stia bene”, replicò Milena, con sguardo affranto “Questo viaggio…l’essere così lontana da casa….so che dovrei essere serena, con lei ci sono Azu e Lars, ma non mi sento ugualmente sicura, sapendola così distante. Non ci riesco.”

Circa tre settimane. Questo era il tempo stabilito.
Per visitare i siti archeologici delle isole menzionate da Shion, sarebbero occorsi molti giorni giorni e questo le era stato ben spiegato. L’idea che sua figlia partisse senza lei o il padre non l’aveva entusiasmata: l’oceano era colmo di pericoli, forse addirittura troppi anche per Azu e Lars, le cui abilità combattive erano straordinarie. Un viaggio di quella portata era decisamente troppo per una bambina così piccola e, fin dalla prime parole, era stata ben intenzionata a farle capire le molteplici ragioni per la quale avrebbe dovuto desistere. Invece, contro ogni sua aspettativa, la sua figlioletta aveva mostrato loro un itinerario dettagliato su quello che avrebbe fatto, coi tempi di andata e ritorno, le località, e tutto quello che si poteva inserire in un viaggio come quello. Si era preparata al meglio, con una risposta a tutte le loro domande, impegnandosi a non far saltare fuori possibili falle che, poco ma sicuro, avrebbero permesso a lei e al marito di porre resistenza. Il fatto che fosse stata aiutata dai due ragazzi, nel preparare tutti quei fogli pieni di numeri e parole, era lampante, ma il vederla così decisa e motivata, aveva spinto il padre a darle il consento tanto sperato e lei, non potendosi tirare indietro, si era unita alla decisione del marito, seppur non del tutto convinta. Davanti a quel visino pieno di felicità, non aveva avuto il cuore di dire di no: non ricordava bene cosa fosse stato, ma nei occhi di Shion era come apparsa una lucina carica di determinazione, una piccola saetta desiderosa di mostrare tutto il suo valore.

La stessa che aveva convinto Adelwine a sorridere e ad annuire la sera in cui la figlia aveva chiesto il permesso per quel viaggio.

Non si trattava di un capriccio o di un’improvvisa voglia di uscire dall’isola, ma di una decisione presa con attenzione e anche riflessione. Shion, per quanto piccola che fosse, era molto precoce per la sua età, una qualità che metteva in risalto la sua testardaggine quando si parlava di leggende o storie mitiche: la sua convinzione che in esse ci fosse un fondo di verità, la spingeva a rispondere alle affermazioni del suo professore, il quale, non mancava mai di ripetergli quanto sua figlia avesse la testa dura. In quelle occasioni, le lezioni divenivano dibattiti quasi comici, perché l’insegnante veniva portato ad un livello di esasperazione tale, che il collo gli diventava tutto rosso, con numerose vene pulsanti a ingrossarlo.

“Glielo ripeto ancora, signorina Shion: fra leggenda e storia reale c’è una grande differenza. Perché un fatto possa essere dichiarato vero, occorre dimostrarne l’esistenza, servono delle prove, qualcosa che dimostri il suo passaggio. Le leggende non possiedono niente di tutto ciò, sono solo dicerie inventate”, aveva detto una volta il professore, un uomo con grandi occhiali a fondo di bottiglia e una barba tanto lunga da toccare il pavimento.
“Ma diventano fatti reali se si trovano le prove! Ed è cercando che si scopre se sono vere o no!” aveva replicato lei, dando prova di quanto il suo cervellino fosse ben sveglio.
“Giusta osservazione, ma le prove di cui lei parla sono per la maggior parte frutto dell’inventiva di persone ricercanti un po’ d’attenzione. Le prove a cui gli studiosi fanno riferimento e il metodo che io stesso addotto..” lì si era concesso un attimo per vantarsi “Si basano esclusivamente su oggetti come iscrizioni, testi, edifici, addirittura la stessa morfologia di un isola può contribuire alla ricerca. Non certo delle versioni trite e ritrite.”
“E i frutti del diavolo?”
“Cosa centrerebbero col nostro discorso?” aveva chiesto lui, nell’alzare un sopraciglio.
“Centrano tantissimo. Sono frutti magici, alcuni li considerano perfino dei miti, ma nessuno sa da dove provengano. C’è chi pensa che vengano addirittura da un altro mondo e lei non può dire di no, perché questa cosa è stata detta da questo studioso!” e fece vedere la foto dell’uomo raffigurata dietro la copertina del libro “Se questo signore ha detto che i frutti del diavolo possono provenire da un altro posto, non vedo perché non possano provenire da Endora!”
“Ancora con questa storia?!” aveva sbottato il professore, irritandosi “Signorina Shion, ammiro la sua fantasia, ma le ripeto che quell’isola non esiste. Lei non può basarsi unicamente su quel libro!” e additò il tomo che la piccola teneva avidamente fra le mani.
“Si che posso! E’ una prova!”

Sebbene il collo del vecchio fosse nascosto da quella lunga e folta barba grigia, Adelwine era riuscito comunque a scorgere le vistose venature gonfiargli la pelle, rendendola pericolosamente rossiccia. Le continue repliche di Shion non avevano fatto altro che contribuire alla loro crescita, portando il cervello di quest’ultimo a faticare immensamente per non esplodere. Si era puramente limitata a rinfacciargli quello che le aveva detto, utilizzando il tutto come uno strumento a doppio taglio. Un’altra cosina presa da lui. Nascosto nell’angolo con le braccia conserte, il signor Yokozomi aveva dovuto sigillarsi le labbra per non farsi scappare un qualche sbuffo divertito, ma il sentire sua figlia battibeccare con il professore, difendendo strenuamente le sue convinzioni, era un piccolo spettacolo che non si sarebbe perso per nulla al mondo.

“Non esiste! Non esiste!” aveva sbraitato quello.
“Invece si!”
“Invece no!!”
“Invece si!!!”

Aveva assistito a quelle lezioni una sola volta, così, per verificare in prima persona come l’andatura di esse si svolgesse e il vedere come sua figlia gonfiava le guance e faceva valere le proprie opinioni, lo aveva reso orgoglioso, anche se poi, le aveva detto di limitare le contestazioni, giusto per non portare all’esaurimento quel povero uomo. Non che fosse maleducata, ma era saggio, ogni tanto, rimanere dentro le linee dei confini prestabiliti, giusto per non sfociare in una vergognosa stupidità.
Alzandosi dalla sedia, l’uomo raggiunse la moglie, appoggiandole una mano sulla spalla, di modo tale che lei alzasse il viso e lo guardasse.

“Adel..”
“Devi avere fiducia in lei. Sai bene quanto me che Shion è una bambina molto curiosa e intelligente: impedirle di vedere il mondo sarebbe un grosso impedimento, da parte nostra.”
“Questo è vero, ma..e se le fosse veramente successo qualcosa? Non chiama e..”
“Milena, stai tirando su un polverone per una chiamata mancata. Se davvero ci fosse un problema, non pensi che Azu o Lars troverebbero un modo per avvertirci? Te lo ripeto: abbi fiducia in tua figlia e vedrai che domani mattina sarà lei stessa a chiamarti.”

La disinvolura scaturita dalla parole di Adelwine raggiunse l’animo tremolante della moglie in un batter d’occhio: l’influenza che queste ebbero su di lei, la calmarono poco a poco, inducendola a pensare con mente più lucida e razionale. Portandosi l’indice sulle labbra, la signora Milena riflettè sulla faccenda e quasi si stupì per come le cose le apparvero totalmente diverse: sua figlia era partita per un viaggio istruttivo, avente come mete diversi siti archeologici che rientravano nel suo programma di studi e accompagnata da Azu e Lars, le sue guardie del corpo. Da quando la nave su cui viaggiava era salpata, la piccola non aveva mai infranto la promessa fattale – quella di telefonarle una volta al giorno -, il che, l’aveva sempre rasserenata…..fino a quel momento.
Improvvisamente, le parve che la sua preoccupazione al riguardo fosse un po’ troppo eccessiva; non ci aveva fatto caso prima, ma ora che suo marito le aveva mostrato la via, la signora Milena si rese conto che se avesse continuato a manifestare una così espansiva ansia nei confronti della piccola, sarebbe potuta arrivare anche a tapparle le ali per sempre. La paura che si ripetesse quanto accaduto quando lei era ancora in fasce la terrorizzava e quella stessa emozione condizionava ogni sua scelta, oscurando tutto ciò che implicava un rischio superante i suoi standard. Adelwine comprendeva appieno il suo status emotivo, e di questo, non gliene faceva una colpa, ma desiderava far capire alla moglie che, a lungo andare, quel suo stesso atteggiamento le si sarebbe ritorto contro. Farsi condizionare così liberamente equivaleva perdere la propria libertà e l’uomo non voleva che sua figlia smettesse di inseguire i propri sogni per via dell’incertezza instauratasi dentro di lei.

Sarebbe stato un rimpianto incancellabile, così come l’amara e vasta voragine che avrebbe bucato il cuore della moglie, se avesse deciso di non parlare del suo segreto alla figlia….

Purtroppo, quello era un argomento che nemmeno lui, per quanto amasse la donna, poteva comprendere nella sua interezza. La signora Milena lo sapeva bene, così come lo sapevano Azu e Lars, le cui opinioni al riguardo erano in perenne conflitto. Se la padrona di casa poteva contare sul sostegno del marito e il silenzio del ragazzo, con l’albina doveva fare il possibile perché la conversazione non cadesse su quel argomento. Ogni qualvolta i loro occhi si incrociavano, temeva di vedere in quelli perlacei della ragazza una scintilla scontrosa e rimproverante, pungente quanto la lama di una spada ben affilata, e seppur non le mancasse il coraggio di affermare che una simile faccenda non la riguardava, ella aveva comunque paura che la sua bambina scoprisse quella parte del suo passato che, talvolta, si divertiva a occupare i suoi sogni. Non era piacevole sentirsi rinchiusa in uno spazio stretto, col fiato corto e il cuore pronto a uscire prepotentemente dal petto, ma era così che si sentiva la signora Milena, erano quelle le sensazioni che provava non appena quel fatto le tornava in mente o le veniva sbattuto in faccia: parlare e dar voce alla verità aveva contribuito a farla stare un po’ meglio, ma il suo primo e unico interlocutore era stato Adelwine, l’uomo che le aveva donato una seconda vita, un futuro felice e sereno dentro cui vivere, non certo una bambina di appena undici anni.

Come avrebbe potuto prendere Shion e dirle che lei, sua madre, molti anni addietro, addirittura prima di conoscere suo padre, aveva avuto un’altra figlia e che l’aveva abbandonata? Come avrebbe potuto dirle che cosa fosse quella…persona? Come avrebbe potuto dirle una cosa del genere?

Le sue giustificazioni non sarebbero servite a nulla, perché trattavano di argomenti complessi da spiegare, una ragione più che valida, secondo la signora Milena, per rimandare il tutto a quando la piccola sarebbe diventata abbastanza grande da comprendere che cosa realmente la circondasse. Come se avesse intercettato i pensieri del marito, la donna chiuse gli occhi e strinse i pugni: per quanta acqua fosse passata sotto i ponti, niente era stato capace di cancellare le emozioni provate in quel periodo della sua vita, scolpito dolosamente nella sua anima e pesante come il più orrendo dei peccati. Neppure la felicità trovata poteva sollecitarla a vedere quell’incidente con occhi più consapevoli e morbidi, era qualcosa che stava troppo al di fuori della sua portata. Era ancora tutto lì, sepolto ma vivo. Si, aveva commesso un’ignobile azione, ma il tornare a quei giorni, il ricordare quel viso tondo e quelli mani che le porgevano delle margherite, faceva nascere in lei quella freddezza che da tempo credeva scomparsa. La odiava ancora quella bambina, lo ammetteva, e l’avrebbe odiata per il resto della sua vita: rappresentava quell’accanimento e quel tormento che le era stato riversato contro senza che potesse ribellarsi. Un legame disgustoso, impossibile da recidere. Non si era mai sprecata di chiedersi se fosse viva o meno: avendola lasciata a cinque anni, in mezzo a della gente che la pensava come lei, dubitava fortemente che ce l’avesse fatta.

Azu, che pareva aver dedotto tutti i suoi pensieri, si era sentita nauseata e furente: non si era aspettata una simile rivelazione.
Si era sforzata di capire, di comprendere il rancore, la sofferenza patita dalla donna, ma era stata costretta a rinunciare e a tacere per amore di Shion. Vedeva nella preoccupazione eccessiva per la figlia una sorta di via riparante, un modo perfetto sia per costruirsi l’immagine di madre amorevole e affettuosa, che per nascondere quel lato freddo e indifferente. Sperava di soffocare quel periodo della sua vita con la luce di quella che aveva adesso, ma l’albina, a quel gioco, non ci sarebbe stata per sempre e come lo sapeva la signora Milena, lo sapeva Adelwine: si aspettava la verità, tutta la verità, ma era ancora troppo presto per parlarne.

Il signor Yokozomi era perfettamente conscio di che portata fosse quella rivelazione e Shion era troppo piccola per sopportarne il peso: Azu taceva soltanto perché provava per la bambina un affetto smisurato, ma prima o poi anche lei avrebbe raggiunto il suo limite. Non era una sua parente e quella faccenda non la riguardava direttamente, ma la serenità di quella piccina le stava a cuore più di qualunque altra cosa e neppure l’allontanamento l’avrebbero fatta desistere. Fare finta di nulla, lasciare che quella pecca venisse posta in fondo alle priorità era quasi un obbligo, un obbligo fastidioso, ma che veniva rispettato con estrema naturalezza, poiché l’argomento non emergeva quasi mai. Adelwine non escludeva che, nel momento critico, sarebbero emersi dissapori, incomprensioni e litigi, ma, come si era appena detto, era ancora troppo presto per parlarne, sia per Shion, che per loro due.

“Tu…..”, mormorò poi la moglie “Riesci sempre a rimanere calmo, qualunque cosa succeda.”
“Perché, a differenza tua, sono fiducioso del fatto che mia figlia tornerà a casa senza neppure un graffio. Magari con un tatuaggio….”, ipotizzò lui, alzando la testa.
“Non scherzare, Adel”, lo fermò lei, rabbrividendo all’idea.

L’ uomo scoppiò a ridere, finendo così per disfarsi dei pensieri che si erano venuti a creare con quella conversazione. Stuzzicare la moglie con quelle possibili supposizioni era un modo molto divertente per alleggerire la tensione, specie se la rigidità della donna stava già scomparendo. Non gli sarebbe dispiaciuto sentire la risata cristallina della sua bambina, ma confidava nel fatto che, entro il mezzodì successivo, l’avrebbe sentita.
D’altro canto, l’avere fiducia in una figlia era un scelta migliore che scoprire la verità, specie per la piccola Shion, la quale sarebbe stata condannata a passare il resto della sua vita nella propria stanza se i genitori avessero scoperto che la reale meta del suo viaggio non era quella che aveva esposto, che la nave su cui viaggiava era stata attaccata e che i suoi nuovi amici facevano parte di una delle ciurme più note al Governo Mondiale.

Si, per il bene di tutti, era preferibile brancolare nel buio. 
  
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