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Autore: fragolottina    15/09/2011    2 recensioni
Mia madre si fidava della Morte e la Morte le disse che 'lui' mi avrebbe fatto del male, mi avrebbe resa sua schiava, condannandomi ad una vita di umiliazioni e sofferenza.
Io mi fidavo di mia madre e mia madre era morta nella speranza che il suo gesto servisse a salvarmi.
Ma se 'lui' cercasse solo di mantenere una promessa fatta secoli prima?
A volto l'unico a conoscere la verità è il proprio cuore...
Genere: Dark, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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olivia fragolottina's time
ehilà è un sacco che non ci si vede...
scusate, ma sono andata via un paio di giorni, poi ho iniziato a studiare, poi sto scrivendo anche altro che probabilmente - se niente non si mette in mezzo - presto vedrete in questa rete...insomma, sono parecchio indaffarata!
anf...
ma cmq, è un po' cortino questo capitolo, ma è denso e...oh...a me piace da matti, soprattutto la prima parte...
vediamo quanto riesco a confondervi...


CAPITOLO 1.3


Non mi fece ripercorrere la strada dalla quale ero arrivata, ma camminammo in direzione del parcheggio. Era quasi deserto tranne che per una macchina con i vetri appannati – all’interno dovevano esserci due ragazzi che si davano parecchio da fare – ed un auto sportiva e tirata a lucido. Naturalmente quella era la macchina del Figlio della Morte.
    Mi accompagnò fin davanti allo sportello del passeggero e me lo aprì nella sua migliore interpretazione di gentleman, il mio corpo salì senza esitazioni, nonostante io cercassi disperatamente di costringere i miei i piedi a cambiare direzione. Rimasi sola mentre lui faceva il giro per sedersi dietro il volante ed io continuai imperterrita ad obbligarmi a muovermi: sarebbe stato il momento perfetto per scappare, dubitavo di poterne avere un altro – a meno che la mia fuga non comprendesse il saltare da un’auto in corsa – eppure non mi mossi di un millimetro.
    Risalì in macchina e mi guardò con le mani appoggiate al volante, sembrava rattristato dal frenetico lavoro della mia mente per raggiungere il mio corpo, invano. «Non piace nemmeno a me.» mi disse. «Sai, se avessi voluto una ragazzina inanimata mi sarei comprato un bambola gonfiabile.» borbottò contrariato, mentre apriva il cassettino davanti alle mie ginocchia, compostamente unite, e ne tirava fuori un pacchetto di fazzoletti.
    Mi osservò per un secondo, poi iniziò con calma ad asciugarmi il viso dalle lacrime, con attenzione, con affettuosa abitudine, come se dovesse mantenermi pulita ed in buone condizioni; un pezzo d’antiquariato, un fumetto che avrebbe perso valore se rovinato. Lontana dal mio corpo presi coscienza, quella notte per la prima volta, di una cosa agghiacciante, sconvolgente, inaspettata: io avevo un valore per lui. Non sapevo quale, non sapevo perché, ma lui mi voleva per il mio valore.
    La sua mano strinse il fazzoletto ormai zuppo, mentre le sue dita indugiavano un attimo sotto il mio occhio, nell’angolo più pronunciato dello zigomo; avevo una macchia lì, un’irregolarità della pelle quasi perfettamente rotonda, forse la piccola cicatrice lasciata da un brufoletto, in genere la coprivo con il correttore. Lui strofinò piano fino a scoprirla. Sorrise premendola con il dito, quasi fosse stato il pulsante per far aprire qualcosa.
    «Mi piace.» mormorò con tenerezza.
    Era vicino adesso, presa a trovare il modo di liberarmi non aveva prestato poi così tanta attenzione ai suoi movimenti – ero molto più interessata ai miei, assenti – si sosteneva con un braccio al mio sedile, le sue dita mi sfioravano la coscia, ma senza intenzione. Quando metabolizzai, tutto il mio corpo avrebbe voluto tremare di paura e consapevolezza, mentre interiormente mi davo della sciocca: come poteva essere arrivato così vicino senza che io me ne accorgessi? Non che, in ogni caso, avessi potuto agire in qualche modo al riguardo, certo, ma il minimo che potessi fare era restare vigile.
    Continuò a fissarmi immobile e la sua mano scivolò dal mio viso, lungo il mio collo, fino a posarsi sulla mia spalla, con il pollice che mi sfiorava piano la clavicola. Era assurdamente inconcepibile come tutto il mio organismo non reagisse a nessuno dei suoi movimenti: il mio cuore non batteva più forte, la mia pelle non era più sensibile, i miei occhi non stavano più piangendo.
    «OK…» sussurrò con il viso troppo vicino al mio, ero un bambola di porcellana in attesa, immobile, del suo destino. «ma solo un pochino.»
    Sbattei le palpebre come risvegliandomi da un’ipnosi, tutti i miei muscoli erano fatti di piombo, non sarei mai riuscita a scappare, ma tutti quelli involontari ricominciarono a comportarsi bene: il mio cuore iniziò a bussare tanto forte da scuotermi tutta – e finalmente mi scuoteva – mentre il mio respiro iniziava ad essere più veloce ed ansante. Muovere le braccia era faticoso quanto poteva esserlo trascinare un sacco di calce, ma essere in grado di conficcare le unghie nella pelle dei sedili, era già rassicurante.
    «Meglio?» chiese, girai il viso verso il suo con gli occhi enormi e spaventati, in cerca del modo di parlare. Lui lesse la mia inquietudine, lasciò la mia spalla scendendo in punta di dita lungo il mio braccio fino a stringermi la mano. «Puoi farlo. Piano, piano.»
    Deglutii e mi concentrai al massimo. «La…» faticoso, era come se le mia labbra e le mie corde vocali fossero rimaste inutilizzate per anni, la mia voce era gracchiante ed incerta. E bassa, tremendamente bassa, lui era l’unico che avrebbe potuto sentirmi. «Lasciami.» di più era impossibile.
    I suoi occhi abbandonarono i miei, bassi, si persero nelle nostre mani e nei miei deboli tentativi di scrollarlo via. «No.» mi sfuggì un lamento, un lento mugolio di protesta, spietatamente il Figlio della Morte rise. «Ti aspettavi che dicessi di sì?» domandò tornando a guardarmi. «Tu ordini ed io obbedisco?» il suo sguardo si indurì, tagliente e freddo. «Ma con chi credi di parlare, Liv?»
    Chiusi gli occhi, a strizzarli non ce la facevo, nonostante desiderassi ardentemente sigillarli ermeticamente. Si avvicinò, sentii il suo respiro sulle mie labbra e cercai di indietreggiare con la testa, nascondendomi. Tentativo inutile, il poggiatesta dietro di me era una barriera invalicabile. Poggiò la fronte contro la mia, i suoi capelli mi facevano il solletico sopra il naso e li sentivo smuovermi le ciglia; c’era qualcosa di fastidiosamente intimo in quel contatto, in come i nostri nasi si strusciavano, mi chiesi se in passato, se quando lo avevo conosciuto a dodici anni fossimo stati così vicini. Perché sembrava di si.
    Si allungò su di me ed io riaprii gli occhi prendendo fiato, mi resi conto che ad un certo punto dovevo essere rimasta in apnea; afferrò la cintura di sicurezza e la allacciò al mio fianco, prima di ritornare sul suo sedile. Mi lanciò un’occhiata derisoria, carica di sarcasmo. «Paura?» ne sembrava molto compiaciuto.
    Lo guardai cauta ed annuii piano.
    Scosse la testa ridendo ed accese il motore, che rombò dolcemente. «Tu non sai cos’è la paura, Liv.»
    E qualcosa mi spinse a credere che lui avesse tutta l’intenzione di insegnarmelo.

Avrei voluto seguire il percorso, ma mi sentivo confusa, ubriaca, forse soltanto stanca.
    Qualsiasi cosa mi avesse fatto, muovermi bruciava molte più energie del solito ed a quel punto mi sentivo senza forze, anche tenere gli occhi aperti non era uno scherzo. Lui continuava a guidare ignorandomi con le mani strette al volante e lo sguardo perso al di là del parabrezza, dentro di me cercavo di figurarmi la dinamica del fare l’amore con lui: sarei stata nuda, lui avrebbe voluto che io facessi cose e…avrebbe fatto male, sapevo che avrebbe fatto male. Una lacrima solitaria, sopravvissuta fino a quel momento, mi scivolò sulla guancia.
    Si voltò e mi guardò come se ne sentisse l’odore. «Basta, Liv.» mi supplicò.
    «Io non voglio.» piagnucolai con voce fievole, tutta la voce che riuscii a trovare.
    Lui sospirò ed accostò. «Perché, credi che io sì?»
    Non mi diede il tempo di guardarlo, scese dalla macchina e fece il giro per aprirmi lo sportello. Si chinò su di me, spinse il pulsante per sganciare la cintura di sicurezza, poi mi tirò per un braccio in piedi. Ora che non era più lui a ‘sostenermi’ in qualche modo, non mi sentivo molto stabile, anzi, non lo ero per niente, tanto che, contro ogni mia volontà, gli finii addosso; mi trattenne dal cadere a terra senza sforzo, costringendomi con un braccio intorno alla vita ad appoggiarmi a lui.
    Tirò indietro la testa per poter fissare il mio viso. «Guarda, cosa mi fai inventare per un abbraccio.» mi prese in giro.
    Probabilmente era così che sembravamo alle persone: due ragazzi innamorati ed abbracciati. Chiusi gli occhi, umiliata dal mio stesso arrossire, non avevo mai abbracciato nessuno così.
    «Ok…» ci osservò riflettendo. «occorre un rapido cambio, così non riusciamo a muoverci.» mi sistemò meglio addosso a lui in modo da non farmi cadere, poi mi allontanò. «Aspetta, eh?» afferrò la mia mano e si fece passare il mio braccio intorno alle spalle. «Dovresti guardare dove sei, Liv.»
    Alzai gli occhi su una casa, non una casa qualsiasi. Sotto quella veranda io ci facevo merenda e su quella sedia di vimini mia zia ricamava. «Casa…»
    Non rispose, non disse niente, si limitò a guidarmi piano attraverso il vialetto.
    Mia zia stava aspettando dall’altra parte della zanzariera, il fucile tra le sue mani creava un accostamento bizzarro con la sua vestaglia beige. La studiai incerta e sorpresa, davvero, mia zia aveva un fucile? Dove lo teneva nascosto?
    Lui mi aiutò a salire gli scalini del portico, ignorando lei e la minaccia che voleva rappresentare con quell’arma. Si fermò proprio davanti alla porta, fissò gli occhi di mia zia tranquillo, poi sospirò e si strinse nelle spalle.
    «Puoi spararmi. Io non muoio e lo sai.»
    Ecco, perché non era preoccupato. Cercai con tutte le forze di salvare quell’informazione da qualche parte nella mia testa, nonostante la confusione: di certo non era una buona notizia, ma era pur sempre qualcosa.
    Non si lasciò intimidire. «Ma puoi essere ferito.»
    Mi sarei procurata un’arma per il futuro ed avrei seguito un corso di autodifesa, ad Alyssa la prospettiva sarebbe piaciuta.
    «Non sono stato io.» disse serio.
    «Che le hai fatto?»
    Mi guardò. «Niente, domani mattina starà bene. Ho fatto solo in modo che collaborasse.»
    Zia Phoebe sollevò il fucile e lo caricò, puntandoglielo in faccia.
    Mi strinse di botto, mettendosi tra me e lei. Volente o no, avevo il viso premuto contro il suo torace: il Figlio della Morte aveva un cuore ed in quel momento stava galoppando all’impazzata. Aveva paura.
    «Collaborasse per venire a casa!» sbottò. «Non l’ho toccata!»
    Rimase ad osservarlo per un po’, pensierosa, poi aprì la zanzariera e si fece da parte per farci entrare. «Ce la fai a portarla nella sua stanza?»
    «Certo.»
    Mi passo un braccio sotto le ginocchia e mi sollevò, la mia unica protesta consisté in un mugolio appena udibile. Mia zia non gli avrebbe permesso di farmi del male. Aveva anche tirato fuori un fucile per me.
    Per tutto il tragitto verso la mia camera zia Phoebe lo fece camminare davanti a lei, in modo che non potesse fare niente che lei non giudicasse opportuno. Solo quando fummo in prossimità della porta, lo superò per aprirla e sollevare le coperte del mio letto, dove mi adagiò dolcemente: il profumo del mio cuscino sotto la testa rimase per mesi l’odore più fantastico che potessi immaginare.
    Il Figlio della Morte fece un passo indietro, mentre mia zia mi sfilava le scarpe e mi rimboccava le coperte.
    «Non sono stato io.» ripeté.
    La zia sospirò. «È stata lei?» domandò accarezzandomi i capelli.
    «Non lo so.» si sedette sulla sedia a dondolo della mia stanza. «Probabilmente sì.»
    «Hai recuperato quello che le è stato preso?»
    Si frugò nelle tasche, poi lanciò qualcosa che atterrò con un tonfo ovattato sulle mie lenzuola, la zia lo recuperò e mi sollevò poco la testa per farmelo passare intorno al collo: la mia chiave era tornata al suo posto.
    Lanciai un’occhiata verso la sedia a dondolo, dove lui continuava a stare seduto; incontrò il mio sguardo e sorrise paziente. «Non serve a niente, Liv. Se non ti ho presa è perché non ho voluto.» mi spiegò calmo.
    «Smettila!» intimò mia zia. «L’hai strapazzata abbastanza per stasera. Lasciala riposare.»
    Si tirò in avanti appoggiando i gomiti sulle ginocchia. «Non posso restare, vero?»
    «Lei non vuole, mi dispiace.»
    Le dispiaceva?!
    Lui si alzò e si diresse verso la finestra, si voltò all’ultimo secondo prima di uscire e mi fece un sorriso. «Che ne dici di Oliver?» fece una smorfia. «’Lui’ è un po’ troppo vago per i miei gusti.»
    E se ne andò.

allora, allora, allora...
non posso dirvi niente...quindi non fate domande...
anzi, fatele che mi fate sentire realizzata. datemi la soddisfazione di sapere che ho turbato le vostre menti! ah...
ok, basta così...
ultimamente sono più su di giri del solito...bene!
cmq fatemi sapere che ne pensate, ok?
bacifatalosi


   
 
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