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Autore: Maybe Charlie Knows    16/09/2011    4 recensioni
I pensieri di Chichi dopo la morte di Goku per mano di Radish. Sola, un marito di cui tutti ricordano le imprese e che lei sola conosce, e il piccolo Gohan rapito da un mostro che tutti hanno sempre denigrato, si confronte con una forza che possiede a parole e con ricordi di un futuro ancora troppo lontano.
La casa era spaventosamente vuota da esattamente tre settimane. Il suo riflesso nel grazioso specchio all’ingresso era vuoto di rimando, la fissava senza alcun cipiglio particolare. “Sono forte.” quelle settimane avevano trasformato la sua affermazione più certa in una domanda che si perdeva, succube, in androni ed androni di ricordi.
“Sono forte?”
No, non lo era più.
Genere: Introspettivo, Song-fic, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Chichi, Goku
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Almeno Un Milione di Scale

 

 

 

 

 

 

 

Almeno Un Milione di Scale

 

 

 

 

Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.

 

 

You disappear with all your good intentions
and all I am is all I could not mention:
like who will bring me flowers when it's over?
And who will give me comfort when it's cold?

 

Era una splendida notte, di quelle che vengono dipinte dalle parole di un poeta maledetto; un tetto di stelle proteggeva sorridente la distesa di boschi e montagne di quella regione, danzando quasi a ritmo di una musica spontaneo e delicata: la brezza che muoveva le nere fronde degli alberi, lo scrosciare dei torrenti e dei numerosi fiumi, i versi acuti degli animali notturni; tutto conduceva ad un paesaggio di pace, che ispirava una serenità ben distante dal cuore di molti.

La casetta nei pressi del monte Paoz era ancora illuminata, nonostante l’ora tarda: gli animali che avevano costruito la propria tana attorno a quella struttura non erano abituati a vedere ancora le luci accese degli abitanti, che da cinque anni a quella parte andavano a letto irrisoriamente presto.

Ma la normalità era stata brutalmente recisa da quella graziosa casetta. Insidiatasi in silenzio, benvoluta e coccolata, ora l’abitudinaria tranquillità di quegli anni appariva come una mostruosa illusione che aveva trafitto tutti quanti nel giro di un giorno: nessuno era stato pronto ad impatto così improvviso con una nuova battaglia.

 

Avanti, vieni a stare da me per un paio di giorno. Ti farà bene, ti aiuterà a distrarti…

Ti siamo vicini, devi tenere duro. Tutto si sistemerà, vedrai.

Tornerà, un giorno, tutto come prima… Tornerà indietro! Abbiamo la soluzione…

Gohan starà bene, Chichi, ha la forza di suo padre e la tua tempra!

Questa è la nostra resistenza. Non abbatterti!

 

C’era chi non aveva mai smesso di combattere, in quell’effimera tranquillità.

Chichi ripose l’ultimo piatto appena asciugato nella credenza, tirano un sospiro che non odorava del sollievo che si è soliti esprimere. Aveva fatto presto, quella sera, a lavare le stoviglie, nonostante avesse cercato di prolungare il più possibile quel necessario rito domestico. Non aveva idea di che ora fosse: era da svariate sere, che aveva scambiato per secoli, che seguiva i bisogni del proprio copro senza più darsi la pena di seguire gli orari rigorosi che lei stessa aveva stabilito. Aveva inventato una nuova routine che la spingeva in avanti, che manteneva attorno a lei una parvenza di ciò che era stato e per cui aveva lottato. Il pensiero di fingere più di così però, senza più niente fra le mani e nel cuore, era animalesco, orripilante.

Inconcepibile.

 

Gohan tornerà presto, Goku tornerà presto.

Gohan, Goku.

Goku.

Lei.

Loro.

Quando tutti quei concetti, tutte quelle verità avevano iniziato a scivolare dalla sua presa?

 

A volte, si svegliava nel cuore della notte, o del giorno, o semplicemente di un sonno senza più regole, dopo aver sognato o immaginato mani fredde ed occhi neri e vuoti come mai, mai prima. A volte, persino gridava per quelle immagini che non l’abbandonavano davvero per delle ore. Nonostante cercasse continuamente di ricordarsi, con un rigido distacco che pensava le servisse per non tremare, che non le era stato concesso nemmeno di vedere il corpo di suo marito, e che quindi quelle non erano altro che fantasie. Solitamente, quando si soffermava su particolari come quelli, un piatto si fracassava sul pavimento, dei cuscini si stappavano fra le sue mani, del cibo si sbriciolava in mille pezzettini, nonostante lei non sapesse assolutamente ricordare il momento esatto in cui aveva deciso di distruggerli.

Conviveva con un turpe dolore che, nei momenti di massima noia, si trasformava in un prurito regolare, un battito di tamburi che scandiva il ritmo dei suoi passi e movimenti; agiva per pura autoconservazione. Ed attendeva con ansia inconsapevole anche, quei momenti in cui si trasformava in un morto vivente: li preferiva a quell’incontrollabile sensazione di essere viva, sola. Ed impotente.

 

 

Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.

 

 

Chichi si appoggiò al bordo del piccolo tavolo, che era stato fabbricato per quattro persone, ne aveva ospitate tre ed ora raccoglieva i pezzi di una metà vagabonda. Alzò lo sguardo al soffitto, fissandone le piccole crepe nascenti, per non dover essere costretta a posare gli occhi sui mazzi di fiori, le coccarde e le pile di lettere che componevano, in un ordine quasi maniacale, il tetro teatrino sopra alcunii mobili a lato della stanza.

Dopo che era successo, ne erano arrivati parecchi, di doni simili. Aveva stretto mani su mani e ricevuto le più disparate condoglianze, e i meno sentiti auguri: la morte di Son Goku non aveva suscitato uno scalpore a livello mondiale, poiché i suoi più intimi conoscenti avevano optato per un riserbo rispettoso. Ma, anche dopo cinque anni, restava pur sempre un campione di arti marziali ed il noto salvatore di catastrofi ormai riposte in vecchi cassetti. Di lui, si sarebbero ricordati in molti.

 

Ma quanto era giusta quella falsa memoria di lui? Chi l’aveva conosciuto meglio di lei?

Un tenero bimbo.

Un ingenuo adulto.

Un pessimo marito.

Un padre irresponsabile.

Un uomo meraviglioso.

Lei aveva stretto i denti e risposto, ricevuto, stretto e accolto con marziale controllo delle emozioni quella consapevolezza di abbandono. Una gentilezza dopo l’altra, aveva imparato a sopportare oggetti e parole che costantemente le sbattevano in faccia la verità; che Goku era morto per proteggere la Terra ed un figlio che ora era chissà dove, fra le mani di un mostro che avevano sempre denigrato. Che ancora una volta, l’aveva delusa.

Lontano.

 

 

She took a plane to somewhere out in space
to start a life and maybe change the world.
See, I never meant for you to have to crawl.
No, I never meant to let you go at all.
Don't ever say goodbye.

 

 

Ma Chichi era forte.

C’era stato un momento, tempo prima, in cui lo aveva creduto con tutta sè stessa. Si era sentita forte, e aveva conservato i lati negativi e le responsabilità di una tale qualità con un cipiglio militaresco ed un sorriso nel cuore. Erano stati brevi attimi di piena consapevolezza, alternati a giornate d’indiretta conoscenza.

S’era sentita forte tra le braccia di Goku, credendo di poter realizzare i propri sogni d’infanzia anche con una scimmia d’uomo come quella. Un eterno bambino, l’unico uomo della sua vita in fantasia da principesse, castelli e giornate assolate. Il fanciullo che le aveva promesso la mano senza nemmeno sapere cosa volesse dire, che poi l’aveva accettata quando era tornata a bussare con impazienza alla sua porta, il massiccio lottatore che le aveva salvato la vita, insieme alla Terra intera. Suo marito, il padre del suo piccolo fiore Gohan.

Vedova, orfano.

Si era sentita forte delle sue parole e della sua presenza, e della propria capacità di tradurre i suoi sogni in materia, ed ora lui non c’era più.

Chichi si mosse all’interno della stanza, guidata dallo stesso istinto debole ma pragmatico che l’aveva spinta, in quei giorni, a non abbandonare tutto e a continuare ad esistere, se anche non si sentiva ancora pronta a vivere. La casa era spaventosamente vuota da esattamente tre settimane. Il suo riflesso nel grazioso specchio all’ingresso era vuoto di rimando, la fissava senza alcun cipiglio particolare. “Sono forte.” quelle settimane avevano trasformato la sua affermazione più certa in una domanda che si perdeva, succube, in androni ed androni di ricordi.

“Sono forte?”

No, non lo era più.

 

 

Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.

 

 

“Tu sei una persona forte, Chichi. Sei molto più forte di me, e sei anche intelligente: lo sei, perché avrai sicuramente capito che non parlo di combattere, di muscoli, del tempo che ci metti per percorrere la regione di corsa e riportare a casa un tronco d’albero robusto. Parlo di paura. Io ho un sacco di paure a cui non faccio caso, ma che mi seguono come ombre sui campi di battaglia e nella vita normale, e sono sicura che è stata una delle prime cose che hai capito di me. E’ un concetto che va al di là della morte, ci sono cose che vengono prima. Ho paura di lasciarvi soli, di non sapere essere un buon padre per Gohan, un buon marito per te. A volte ci penso, quando non sono impegnato a soffocare i miei neuroni con la massa muscolare, come dici tu. E mi vengono i brividi, mi vergogno di alcune delle cose che faccio, e dopo questi esami di coscienza riparto convinto di poter cambiare per te.

“E’ proprio il fatto che tu sia così intelligente, anche col tuo caratteraccio, che ci rende così differenti e che mi fa chiedere come mai tu abbia scelto. Mi sforzo di essere migliore di ciò che sono, ma capisco di non aver mai fatto passi avanti quando vedo il rimprovero nei tuoi occhi. Il mio volere sempre superare i limiti della forza, i miei poteri, le mie battaglie e i miei ideali non ti meritano Chichi. Tu sei forte, io ho paura di tutto ciò che tu combatti quotidianamente e mi rifugio in scontri e muscoli: mentre io lotto, tu ti prendi cura di Gohan, lo aiuti a crescere, riesci a stare dietro alle tue esigenze anche con un peso come me. Perché spesso sono un peso per te, e ne ho paura.

“Tu sei forte, Chichi, e non sto dicendo che tu non abbia paura. Sto dicendo che affronti più sfide e terrori di me, e mentre io posso essere sconfitto, tu ne uscirai comunque vincente. Sono un debole, e tu sei la mia forza. La forza di questa famiglia.”

 

Chichi uscì da quelle soffocanti quattro mura alla ricerca di aria fresca, sotto lo sguardo della luna. Sentiva che quella sensazione stava penetrando di nuovo nei suoi pensieri, e non poteva permettere che quegli incubi ledessero l’unica certezza che ancora stava cercando di tenere in piedi. “Non farlo, non arrenderti.” urlava nella sua testa, mentre spalancava la porta e cercava un posto dove sedersi, tentando con sforzo di frenare il dolore nell’espressione del volto. “Tu sei forte.” ma la voce della coscienza che le stava parlando stava già assumendo il tono placido e spontaneo di Goku, e ciò non faceva altro che spingerla di un passo verso il burrone.

Doveva respirare meglio.

Rapido com’era arrivato, l’attacco di panico si dissolse, allontanandosi dal suo corpo e dai suoi pensieri. Prese posto su un tronco d’albero, fremendo ancora lievemente per quella perdita di controllo che l’aveva scombussolata. Ma lei era forte, e spense in fretta quel segno di debolezza.

Accavallò le gambe, sistemando delicatamente le grinze del vestito con le dita, deglutendo appena. Poi portò lo sguardo sul buio della foresta circostante, godendosi la carezza della brezza fresca sulla sua pelle e sui suoi capelli d’ebano, lisci come la seta. “Portami via.” espresse quell’inconscio desiderio, chiudendo per pochi istanti gli occhi e immaginando di volare. 

 

Se cambierai idea, ti basterà prendere la nuvola Kinton… volando raggiungerai facilmente la Capsule Corporation, o la casa del Maestro Muten!

 

Chichi si riscosse, scacciando la voce squillante di Bulma scuotendo il capo: quella strana ragazza dai capelli turchini, con la quale non era riuscita mai ad andare completamente d’accordo, era stata più brava di lei a superare il dolore per la perdita di Goku. Aveva sostituito la tristezza con un’allegra determinazione, non con un ossessivo autocontrollo. Aveva accettato il fatto che Goku non c’era più, ma che grazie alla magia di quel maledetto drago sarebbe presto resuscitato.

Ma lui non sarebbe dovuto tornare semplicemente.

Lui sarebbe dovuto restare.

 

 

Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.

 

 

In quel punto, in quel punto esatto dello spiazzo d’erba asciutta circondata da grossi alberi, Gohan soleva sedersi a studiare durante le giornate più calde, per alleviare la stanchezza che stare sempre in casa gli procurava. Chichi gliel’aveva sempre concesso storcendo il naso: avrebbe preferito ogni volta di gran lunga averlo sott’occhio, controllare che non si mettesse a rincorrere quella farfalla che s’era posato sul grosso tomo di matematica che stava leggendo. In certi casi, assomigliava davvero troppo a Goku. Era proprio quest’ultimo ad insistere sempre perché Chichi concedesse al figlio quella piccola libertà. Con un sorriso sghembo, con il quale le spiegava di stare esagerando, spesso l’aveva umiliata di poco, ma l’aveva fatto. Le ricordava, anche senza volere ferirla, di essere troppo apprensiva, troppo bacchettona, troppo tutto.

“Gohan ha bisogno di respirare, tesoro.”

 

“Gohan ha bisogno che suo padre aiuti sua madre a guidarlo.”

 

 

See my head aches from all this thinkin’:
feels like a ship. God, God knows I'm sinkin.'
Wonder what you do and where it is you stay:
these questions like a whirlwind, they carry me away.

 

 

- Gohan? –

La domanda si levò tremula, ricca di quell’attesa speranzosa e al contempo timorosa d’essere delusa. Eppure a Chichi era parso davvero di vederlo: la notte s’era tramutata in giorno, i raggi del sole proiettavano le ombre degli alberi sulla figura di Gohan, dapprima concentrato e diligente nell’eseguire i compiti dell’asilo, poi distratto dal volo di una farfallina blu, libera come lui non poteva essere. Correva, con le sue gambette corte ma che già stavano modellando il fisico di quel mascalzone di suo padre quando aveva avuto la sua età. Seguendo l’animaletto che voleva afferrare, forse per chiederle dei suoi segreti, s’era infilato nel bosco.

- Gohan? – ripeté Chichi, sbattendo le palpebre quasi con violenza. Si chiese se stesse sognando, poiché erano le immagini che i suoi pensieri volevano vedere: in un attimo, la ragione la riportò alla notte in cui era immersa, al vuoto nello spiazzo vuoto che le procurò una fitta al cuore. Qualcosa di acuminato s’era infilato nelle sue vene, e stava pian piano penetrando la sua carne ed incidendo la sua pelle d’invisibili cicatrici. Ma lei era forte, e quel dolore non era nulla.

 

Mamma, dove sei?

 

- Gohan! – stavolta era davvero certa di averlo visto: la sua sagoma piccina, non più pura dal dolore della perdita e del male del mondo, era appena scomparsa dietro un cespuglio di more ormai morto. Era stato il suo favorito, da piccino, e quando la pianta aveva ceduto al richiamo della natura aveva persino pianto. Ed ora era sparito lì dietro.

In un attimo Chichi si mise a correre. Le sue gambe erano agili e forti di arti marziali, le stesse che aveva imparato per conquistarsi l’amore di Goku e che poi aveva condannato davanti a suo figlio. Corse verso la foresta, inoltrandosi in quella distesa di colori che la luce della luna rendeva grigi, neri e sconosciuti. Che importava che fosse un territorio pericoloso nel quale aggirarsi nel cuore della notte? Il suo bambino, era certa di averlo visto, e l’avrebbe salvato lei, se Goku non c’era riuscito.

- Gohan! Gohan! – gridava, accorgendosi dunque di sapere ancora parlare: tutte quelle settimane di mutismo le avevano fatto dimenticare il prezioso dono della parola e dell’urlo potente, e fatto odiare invece un silenzio di cui tutti decantavano le lodi.

Il suo bambino, era certa di averlo visto, e per salvarlo lui doveva sentire il suo richiamo, la sua forza.

 

Mamma, dove sei?

 

- Piccolo mio! Gohan, rispondimi! – i rami più bassi e contorti la ferivano in quella sua selvaggia corsa, graffiavano la lattea pelle come a manifestare quell’angoscia avvolgente e temibile. I suoi occhi saettavano da una parte all’altra del paesaggio circostante, trovando in apparenza sempre il medesimo quadro, in sostanza sempre il medesimo vuoto. Ma il suo bambino, era certa di averlo visto: si sarebbe buttata nel fuoco per scommettere sulla verità di quell’apparizione fugace. E aveva udito qualcosa di simile alla sua voce: sì, in stava chiedendo il suo aiuto. Doveva trovarlo.

“Basta, Chichi.”

- Gohan, rispondimi! – si ritrovò a girare praticamente su sé stessa, tanto era smarrito ormai il suo senso dell’orientamento. Non era nelle condizioni psicologiche di riconoscere i segni di un paesaggio inospitale ma familiare, per lei che ormai vi viveva da molto tempo; ma neanche cercava di capire dove si trovasse, talmente era presa dalla smodata ricerca del suo bambino. – Ti prego, rispondimi! – un briciolo del suo cervello registrò quelle parole sull’orlo delle lacrime, i bulbi oculari lucidi e ormai bagnati, il tono tremolante. E la determinazione che stava mettendo in ciò che stava compiendo le permise di reprimere i sentimenti di sconfitta, e continuare a gridare.

“Basta, Chichi!”

 

Voci diverse, diversi sogni. Due uomini nei loro mondi, in crescita.

 

- Goku? – tutto attorno a lei fu improvvisamente calmo, quella tranquillità piatta che precede una tempesta, o un avvenimento catastrofico. Era certa che il muro di rami e foglie che s’intrecciavano verso il cielo, formando una cupola protettiva, non permettesse alla brezza serale di portare refrigerio anche in quel punto. Eppure qualcosa le accarezzava collo e capelli come era accaduto prima, seduta sul tronco, prima di vedere Gohan e tuffarsi in quella corsa disperata e tagliente.

La linea che divideva realtà da allucinazione era sottile ed ingannevole, e Chichi non era più sicura di sapere quale fosse bene e quale male. Aveva visto suo figlio in una specie di sogno, che la realtà le stava ora togliendo, e invece di tornare a casa a crogiolarsi in quegli attimi d’illusione la fantasia le aveva portato la voce di Goku.

- Sei tu? – domandò, e da qualche parte nel bosco sentì qualcuno risponderle. Un urlo muto, che solo lei avrebbe sentito anche fra centinaia di persone. Un sorriso benevolo ed un dito ad indicarle la strada da seguire: perché dopo tutti quegli anni di costruita normalità, passati a percorrere una discesa idilliaca solo dall’esterno, era il momento di risalire almeno un milione di scale.

 

“Portami con te, non posso stare qui. Non posso.”

 

- Eccomi. Mi vedi? Sono forte, sono più forte di te che hai ceduto alla morte e che hai ceduto nostro figlio. Guardami, sono forte. – mormorò, come una strana litania, rivolgendosi sfidando non il marito, ma la sofferenza con cui, lo sapeva, avrebbe dovuto imparare a convivere.

- Mi sopravvalutavi, come ti ho sopravvalutato io nel crede in un amore che mi ha dato solo costernazione, delusione, un bimbo a cui ho dovuto fare sia da madre che da padre. Ho abbandonato tutti i nostri amici, che forse avevano bisogno di me come un pilastro al quale aggrapparsi e da cui essere consolati, perché nemmeno io mi capacito di ciò che è accaduto e non posso prendermi cura degli altri se non so farlo con me stessa. E forse è persino un bene che Gohan sia lontano, nelle mani di un mostro che gli insegnerà meglio di me come essere forte. Non sono forte, Goku, e tu mi hai riempito la testa di menzogne. Mi hai riempito il cuore di rimpianti. Guardami ora, Goku. –

 

Qualcosa le sfiorò la spalla, toccando appena la pelle del collo scoperta dall’alto chignon, ora tutto scombinato e con qualche foglia incastrata. Un fiato caldo, diverso da ogni cosa e dalla consistenza particolare, che avrebbe riconosciuto subito, si posò sul suo orecchio. Sussurrava melodiche parole che non riuscì a recepire: ci sarebbe voluto tempo prima che la lingua del loro amore strano e provato tornasse alla sua bocca. Chichi si voltò di scatto, gli occhi sbarrati da quel contatto; ma non trovò nessuno. Istintivamente portò la mano sul punto del proprio copro in cui era certa vi fosse stata la mano di suo marito: aveva sentito la consistenza dei suoi polpastrelli ricoperti di calli, graffi e vecchie cicatrici, la presa rude e al contempo gentile e onesta.

Ma non c’era nessuno.

“Sii forte… Chichi.”

Ancora una volta si girò, scattante. Assottigliò gli occhi, respirando affannosamente, senza però riuscire a decifrare con fermezza il punto esatto della foresta da cui era provenuta la voce di Goku. Era sempre stato così bello, il suo nome, pronunciato dalle labbra del marito. Lo sentiva incredibilmente vicino, quasi sul punto di toccarle il cuore nella sua invisibilità. Eppure erano così lontani. Divisi, c’erano strade differenti per loro due da seguire.

 

- Guardami ora, Son Goku. Sono ciò che tu hai fatto di me: disillusa da tutte le belle favolette, ora sono una donna. E che ti piaccia o no, non sono per niente forte. Guardami ora, ovunque tu sia, cercami e dimmi cosa vedi. Ti prego parlami. Come posso essere forte se tu non mi parli? – successero tante cose contemporaneamente: il mondo girava vorticosamente e nessuno se ne rendeva conto, ognuno agiva e compiva qualche gesto speciale nella sua piccolezza. - Non sono forte, Goku. Ti ho perduto. Tu non devi tornare, dovevi restare. La mia forza è andata distrutta quando te ne sei andato, Goku, ed ora che per te c’è un mondo da salvare, a me restano i pezzi. -

E lei invece era immobile.

- Ho bisogno che tu mi stringa fra le tue braccia, Goku. –

 

 

Who will bring me flowers when it's over?
And who will give me comfort when it’s cold?
Who will I belong to when the day just won't give in?
And who will tell me how it ends and how it all begins?
Don't ever say goodbye:
I'm only human.

 

 

Cadde, inesorabilmente. Chichi cadde.

Rovinò a terra quando le sue ginocchia smisero di reggere il peso dei suoi cocci sparsi: il pianto che esplose nel suo corpo, ferendo le sue membra e liberando un potente singhiozzare era la libertà che aveva tentato di negare a Gohan e a Goku, e che aveva per tanto tempo desiderato in segreto per sé stessa. Era solo dolore in quel momento, mentre due braccia forti la stringevano davvero. Lacrime sgorgavano dai suoi occhi socchiusi ed appannati, cadevano a terra a nutrire una terra fertile che avrebbe generato altra sofferenza. Sapeva che, quando avrebbe riaperto gli occhi per osservare attorno, non avrebbe trovato il copro solido di Goku, la tuta che stava imbrattando di lacrime e il suo volto bello, mascolino e incredibilmente buono. Non poteva fare altro che continuare a piangere, liberando ogni cosa, lasciando che il suo mondo venisse distrutto fino alla fine.

Ci sarebbe stato un tempo per essere forti, ora poteva solo essere sé stessa.

 

- Ancora guardi, figliolo? –

L’essere potente e mistico, che tanti temevano e veneravano, ricevette solo un flebile sospiro in risposta. Da quando lui era arrivato, pochi giorni erano trascorsi senza che quello straziante rito si ripetesse al termine del giorno.

- E’ tempo che tu la lasci andare. –

C’era qualcosa nell’espressione del suo protetto a chiedergli pietà di loro. Nel guardarlo, l’essere si maledì per aver creato egli stessi le inscindibili regole di quel mondo.

- Non puoi fare nulla adesso. –

Silenzio.

 

Restavano milioni di scale da percorrere in salita, le stesse che nella loro ingenuità avevano reso più ripide.

 

- Vorrei solo aver capito prima di dover fare qualcosa. –

Mentre abbandonava l’immagine di Chichi, fu come morire di nuovo.

Perché c’erano cose che ferivano di più di mille battaglie e milioni di scale in salita, e lasciavano dietro di sé la certezza di anime spezzate.

 

 

Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.

 

 

 

 

 

NOTE DELL’AUTRICE

Prima fanfiction su Dragon Ball J Goku/Chichi non è proprio la mia coppia preferita: io solitamente opto per Vegeta/Bulma. Ma ho tratto ispirazione dalla nuova messa in onda della serie Dragon Ball Z, ho pensato a quanto sia sottovalutato il personaggio della moglie dell’eroe e ci ho fatto un pensierino. Siamo abituati a vedere Chichi come forte ed intraprendente, io ho provato ad andare oltre alla facciata per vederne il lato “umano”. Spero sia stata di vostro gradimento.

La canzone che accompagna il testo è Flowers for a Ghost dei Thriving Ivory, mentre la lirica e la celeberrima Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale di Eugenio Montale, da cui prende anche il titolo la one-shot.

 

Recensite, mi raccomando.

 

Bye!

 

 

 

  
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