Anime & Manga > Durarara!!
Ricorda la storia  |      
Autore: Daifha    18/09/2011    3 recensioni
Fin da piccolo mia madre mi diceva che le avrei creato problemi in futuro: io tendevo a non dare troppo peso a quelle parole, per quanto possibile per un bambino di cinque anni, sforzandomi di credere che non fosse vero. Continuavo a ripetermi che, una volta grande, le avrei dimostrato il mio valore, la avrei stupita.
Non so perché mi dicesse quelle cose, ma è merito a ciò se sono diventato quel che sono ora.
Izaya Orihara, informatore di Ikebukuro, piacere.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Izaya Orihara
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Monotonia'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Dal mio punto di vista
 

Fin da piccolo mia madre mi diceva che le avrei creato problemi in futuro: io tendevo a non dare troppo peso a quelle parole, per quanto possibile per un bambino di cinque anni, sforzandomi di credere che non fosse vero. Continuavo a ripetermi che, una volta grande, le avrei dimostrato il mio valore, la avrei stupita.
Non so perché mi dicesse quelle cose, ma è merito a ciò se sono diventato quel che sono ora.
Izaya Orihara, informatore di Ikebukuro, piacere.
In realtà, non credo ci sia davvero bisogno di presentarmi, dato che sono abbastanza sicuro che se mai leggerete ciò che ora io sto scrivendo, significa che in un modo o nell’altro avete avuto occasione di conoscermi. Inoltre, qui, la gente che non mi conosce, non tanto di aspetto quanto per fama, è davvero poca.
Pare che io abbia una cattiva reputazione da queste parti, e sono in molti a considerarmi una delle facce più oscure e temibili di Ikebukuro, al pari di Shizu-chan, ovvio, insomma, una persona dalla quale è meglio stare alla larga (anche se, ci tengo a precisare, sono ben pochi quelli che davvero ci riescono). In fondo, io, ho informazioni un po’ su tutti: che poi siano interessanti, noiose, vere, false, importanti, irrilevanti, la cosa non mi sfiora minimamente. Per me l’importante è venderle.
E’ forse per questo che la gente mi detesta?
No, no che non è per questo, io lo so bene. Il problema è un altro. E io sono qui per parlarne.
In realtà non è un discorso facile da intraprendere, soprattutto se il soggetto da comprendere sono io, per questo comincerò a raccontare dal mio passato e da ciò che più di tutto mi preme dire.
 

All’età di otto anni mia madre mi mandò dallo psicologo. E’ una cosa dura da ammettere, anche perché per me fu un duro colpo ritrovarmi davanti ad uno specialista della psiche umana il cui unico desiderio era estrarmi dal cervello tutte le informazioni base per stilare un rapporto sul mio modo di relazionarmi con il mondo.
In realtà fu una cosa del tutto improvvisa: i miei genitori non si preoccupavano mai particolarmente di ciò che facevo e di conseguenza io a casa, spesso solo o al massimo con la compagnia di una badante, in ogni caso troppo presa dalle mie due sorelline gemelle per prendersi cura seriamente di me, avevo la piena libertà di riempire il mio tempo libero come più mi aggradava. E probabilmente fu per quel motivo, per quella mia così illimitata libertà, che un giorno i miei genitori tornando presto (dannazione, troppo presto!) dal lavoro, mi trovarono in giardino con uno dei coltelli da cucina di mia madre in una mano e nell’altra le viscere del loro ben poco amato animale domestico.
Molti potrebbero dire che effettivamente qualunque genitore avrebbe mandato il proprio figlio dallo psicologo dopo una scena tanto raccapricciante, ma io non sono poi tanto sicuro di aver fatto qualcosa di tanto anomalo: qualunque bambino quando ha tra le mani qualcosa ha il desiderio di scoprire come è fatto, quali strani meccanismi permettano al trenino nuovo di muoversi sulle rotaie in miniatura semplicemente schiacciando un bottone rosso, cosa ci sia dentro alla propria bambola di pezza preferita da renderla tanto morbida e perfetta. Ecco, io semplicemente, in quel momento, volevo scoprire cosa permettesse a quel dannato gatto di muoversi con tanta agilità.
Se preferite, la si può pure definire semplice e pura curiosità.
Ma evidentemente i miei genitori non erano dello stesso avviso dato che mi spedirono direttamente nello studio dello psicologo etichettandomi come malato mentale, folle, pazzo.
Devo dire che, nonostante il trauma, fu una conversazione piuttosto piacevole, o meglio, fu la conversazione più vera che fino ad allora avessi mai affrontato. Non so se mi intendete: nella mia famiglia era abituato ad un tipico ‘Come va?’, ‘Come hai passato la giornata?’ o cose del genere, che spesso ricevevano come unica risposta un falsissimo ‘Bene.’, giusto per chiudere subito il discorso e non dover così affrontare diverse problematiche.
Quel dottore invece mi parlò e lasciò che io gli parlassi. Mi disse il suo punto di vista per relazionarsi al meglio con la gente e pretese di conoscere il mio, mi raccontò della sua famiglia e mi chiese come mi trovavo nella mia. Semplicemente, mise in primo piano le mie emozioni, fece venire a galla una parte di me che non conoscevo.
Avevo otto anni, e già mi sembrava di conoscere più cose rispetto ai miei genitori. No, anzi, la mia era una certezza.
Ma la cosa che più mi colpì fu il risultato finale: lo psicologo mi disse che, oltre a risentire particolarmente della mancanza di una vita familiare, io non ero del tutto umano.
Bhe, lui la mise su altri termini, ma ora che sono cresciuto, ripensandoci, quello che lui intendeva dire con ‘sei tanto umano da risultare fuori dal normale’, non poteva che significare che non lo ero affatto.
Secondo lui ciò che mi rendeva tanto umano era la mia curiosità: desideravo sapere tutto, lo desideravo troppo e troppo violentemente, portandomi a fare cose, possiamo definirle, innaturali.
E probabilmente aveva ragione.
 

Io non sono umano.
Ecco perché ho questa folle passione per gli umani.
Loro sono così naturali, normali. Sono tutti diversi, con caratteristiche diverse, aspetti diversi, caratteri diversi, e tutta questa diversità li rende tanto normali che mi rende quasi euforico l’idea di non essere come loro.
Io sono diverso, diverso dalla normalità, diverso da loro che sono tanto diversi gli uni dagli altri da essere diventati praticamente uguali.
La gente pensa di potersi distinguere dalla massa semplicemente essendo se stessa, non capisce che in realtà l’unico modo per differenziarsi davvero è vivere in modo diverso la vita.
Ho fatto della mia curiosità il mio motivo d’esistere: tutto ciò che devo fare è cacciare il naso negli affari degli altri, estrapolare informazioni alla gente, scambiarle per altre nuove più fresche, alimentare la mia sete di conoscenza.
Gli esseri umani sono frivoli, reagisco in modo diverso solo e soltanto quando si trovano in situazioni diverse. Nel campo della scuola, del lavoro e della vita tendono alla perfezione, ad essere importanti, alla fama, al denaro, alla comodità, e quando qualcosa di veramente grosso intoppa il loro percorso preferiscono semplicemente deviarlo oppure interromperlo.
In questo caso io sono l’ostacolo: sono ancora in piedi, vivo felice, molto più di chiunque altro, a prova del fatto che ho ragione.
Certo, la vita mi ha agevolato notevolmente. Mi ha permesso a soli otto anni di comprendere cosa sono, o meglio, cosa non sono, e ciò che avrebbe dovuto esserne di me. Mi ha regalato poi una famiglia abbastanza ricca, forse molto distaccata, ma questo è secondario. Inoltre ha fatto in modo che le mie prede cadessero sempre nella mia ragnatela: questo in parte per la mia intelligenza e furbizia (doti che col tempo si sono migliorate da sé) e in parte anche per il mio aspetto. Non lo dico per vantarmi solo, mettiamola in questi termini, mi rendo benissimo conto da solo di possedere certe doti attrattive che nel mio lavoro danno i loro vantaggi, tutto qui.
Ma non credo che il motivo che spinge tante persone ad odiarmi possa essere questo: essere diverso è così normale per loro che l’idea che io sia l’unico tra tutti ad esserlo veramente non li sfiora nemmeno.
 

A tredici anni ebbi la mia prima delusione amorosa. E’ una cosa normale, tutti ci passano prima o poi, e io, evidentemente, non faccio eccezione.
Ma, diversamente da come spesso accade, la mia storia finì prima ancora di iniziare, anzi, prima ancora che io mi accorgessi di essere effettivamente innamorato. A questo punto, non mi resta che raccontarvi il tutto.
Era il periodo estivo e di conseguenza io non avevo altro di meglio da fare che gironzolare per la città: i miei genitori non avevano certo il tempo di portarmi in vacanza al mare o in montagna, e non credo che la cosa potesse poi interessargli particolarmente, ma io trovavo Ikebukuro così interessante che stavo bene anche così, nonostante il caldo e i pochi ragazzini con cui scambiare due parole o divertirsi al parco.
Verso metà estate avevo iniziato ad addentrarmi pure nei luoghi un po’ più malfamati dove la gente spesso soffriva la povertà, e uno di quei giorni mi capitò di incontrare una ragazzina. Non riesco a ricordarmi il nome, anzi a dir la verità faccio fatica pure a crearmi un’immagine di come fosse il suo viso, ma ciò che non potrò mai dimenticare è il modo disperato in cui piangeva circondandosi con le braccia la pancia gonfia, in un angolo della strada dove passava del tutto inosservata (o meglio, ignorata); io fui l’unico ad avvicinarmi, più per il mio desiderio di sapere che per aiutarla o farla sentire meglio, e quando le chiesi cosa fosse successo mi disse direttamente che aveva male, un male assurdo alla pancia che da un paio di giorni non riusciva a farsi passare. Per un attimo pensai di ignorarla e andarmene. Non era niente di interessante, niente storie strappalacrime o morti di ogni genere, solo un banale mal di pancia.
Mi chiedo ancora adesso per quale motivo non lo feci: rimasi invece a fissarla per qualche secondo prima di domandarle dove fossero i suoi genitori e devo ammettere che la risposta mi lasciò alquanto stupito. Sua madre stava male, era malata gravemente mentre suo padre era un disoccupato, che rimaneva a casa dalla mattina alla sera a prendersi cura della moglie: quando la figlia aveva cominciato a piangere dicendo di sentir dolore quello la aveva cacciata di casa dicendole che con i suoi piagnistei rischiavano di far peggiorare la situazione della donna e aveva aggiunto di ritornare solo quando avrebbe smesso di lamentarsi.
“Ma io non ci riesco. Non riesco a smettere di piangere, mi fa troppo male!” Quelle parole mi colpirono profondamente e per un attimo, solo un misero attimo di tutta la mia vita, mi sentii triste per lei.
Rimasi con lei per tutto il giorno fin quando non cominciò a calare il buio ed infine le promisi che il giorno dopo sarei tornato con delle medicine: non so perché lo feci, ma era come se mi sentissi in dovere di aiutarla.
Il resto della serata e la mattina seguente li passai a cercare informazioni su quale potesse essere l’antibiotico migliore per qualcosa come un mal di pancia e quando finalmente trovai qualcosa di adatto nella scaffalatura medica in camera dei miei genitori uscii subito di casa quasi felice. Non so se fosse per il fatto di star facendo qualcosa per qualcuno o semplicemente perché era proprio per lei che lo stavo facendo, fatto stà che mi sentivo particolarmente euforico mentre camminavo svelto per Ikebukuro ripercorrendo i passi della giornata precedente.
Euforia che scemò appena giunsi lì, nella stessa stradina stretta e angusta dove l’avevo incontrata la prima volta. Lei non c’era. Così come non ci fu il giorno dopo, e quello dopo ancora. E quando chiesi informazioni agli abitanti della zona, mostrando la scatola dell’antibiotico che le avevo portato, mi dissero semplicemente che ormai era troppo tardi per qualsiasi medicina.
Quella fu la prima volta in cui ricordo di avere pianto.
 

Io non sono umano.
Ma non sono nemmeno un mostro.
Per le strade di Ikebukuro passo abbastanza inosservato (tranne quando incontro casualmente Shizu-chan che molto carinamente mi lancia addosso un bidone dei rifiuti, ovvio… Non è quel tipo di cosa che passa del tutto inosservata, ecco). Molti conoscono il mio nome ma quando mi incontrano, anche per puro caso, non hanno idea di chi io sia: questo gioca a mio vantaggio.
Non che io reputi la gente mia nemica, ovvio, solo che così diventa più divertente. Io posso osservarli senza che nessuno se ne accorga, mi basta semplicemente mantenere un espressione indifferente come la maggior parte di tutti loro.
A volte ci sono persone che quando si accorgono che li sto fissando si imbarazzano, principalmente nel caso delle bambinette di prima media (bhe, come tutte le altre in realtà) oppure che distolgono lo sguardo a disagio: non è una cosa divertente?
Mi piacerebbe sapere cosa passa per le loro teste in quei momenti, sapere che pensieri suscito nella mente delle persone che non mi conoscono, potermi beare dei loro sentimenti che mi hanno fatto innamorare dell’uomo. Non sanno che tutto ciò che mi interessa di loro non sono altro che informazioni.
Dati da vendere a caro prezzo, così come a caro prezzo sono stati ottenuti.
Il mio lavoro mi coinvolge completamente, soprattutto emotivamente: non tanto perché metto tutto il mio entusiasmo per svolgerlo al meglio quanto per il fatto che le informazioni che io vendo sono quelle che racimolo sul campo.
Notizie che si possono trovare tramite computer le lascio con gran piacere agli hacker e ai nerd, io preferisco creare legami finti con le persone, inventandomi personaggi da adattare a me stesso per relazionarmi con la gente a cui sono interessato. Ottengo le mie informazioni, scavo nei lori animi e ascolto in prima persona i loro sentimenti. Creo per loro situazioni favorevoli per lasciarsi andare e buttare fuori a parole tutto ciò che hanno da ridire sul mondo che li circonda. A volte vengono fuori facce dell’uomo che non avevo mai notato, e questo non fa altro che rendere il tutto più divertente ed eccitante, portando a termine il gioco.
Ed è a questo punto che la gente comincia ad odiarmi e temermi, vedendomi per ciò che sono realmente, fingendo di non capire che lì gli stupidi sono solo loro. Non hanno fatto altro che aggrapparsi a me nel momento del bisogno, e una volta risollevatosi, la colpa delle loro disgrazie sono diventato io (un caso lampante è quello di Kida Masaomi).
Alla fine io li ho semplicemente aiutati a vedere i loro sentimenti e a superare i loro problemi. Non credo che sia una cosa tanto sbagliata.
Ma amen, io ho ottenuto ciò che volevo e loro si sono fatti un nuovo nemico.
Il rischio c’è, nel mio lavoro: il pericolo che io mi affezioni sul serio a qualcuno. Certo, voi direte che non è roba da Orihara Izaya provare attaccamento verso una persona specifica, ma come ho già detto, io non sono umano, ma non sono nemmeno un mostro.
Sento il mio cuore battere, provo sentimenti, e soprattutto, amo la mia vita.
Ho conosciuto gente che non prova il minimo attaccamento verso la proprio vita, desidera morire e se non si suicida l’unico motivo è che gli manca il coraggio di buttarsi da un tetto (intendiamoci, non è paura di morire la loro, bensì paura di soffrire): ecco, loro sono i veri mostri. Pure io, che ho fatto la scelta di staccarmi da qualsiasi coinvolgimento sentimentale nei confronti del mondo se non per il mio amore verso l’essere umano, capisco che la vita è un dono fin troppo grande per buttarla via, che è qualcosa che va vissuto fino all’ultimo, indipendentemente dai problemi o dolori che si incontrano lungo il proprio cammino.
Ma non sono qui per fare questo genere di discorsi sentimentali: se qualcuno ha voglia di suicidarsi, faccia pure, la cosa non mi riguarda. Io non sono abbastanza per fermare un uomo che desidera morire.*

Alla fine la gente mi odia semplicemente perché io li aiuto a vivere meglio. Può suonare ironico detto da me, ma la cosa non mi crea grandi problemi. Io sono contento di ciò che faccio, non vivo nella monotonia come la maggior parte di loro; ogni giorno significa nuove esperienze, nuove informazioni e nuovo divertimento, e se il prezzo da pagare per questo è l’essere visto sottecchi, ben venga, odiami pure Ikebukuro.
In tutta risposta io sorriderò strafottente e continuerò a pestare i cellulari della gente e a salvare povere fanciulle che hanno deciso di suicidarsi. Così siamo pari.

Ma forse ora è meglio che vada, sono un paio di settimane che non mi faccio vedere ad Ikebukuro, e non vorrei mai che Shizu-chan sentisse troppo la mia mancanza.

 
 

Ti ho deluso abbastanza, mamma?
Tsè, che bello!
 

Izaya

 

 

*Frase detta da Izaya nel secondo episodio.

 





By Ming

 

 

  
Leggi le 3 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Durarara!! / Vai alla pagina dell'autore: Daifha