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Autore: Nadine_Rose    19/09/2011    0 recensioni
Questa è la storia di un amore nato tra la peggiore delle violenze e maturato per il desiderio inconscio d’amare, un amore capace d’intenerire il duro cuore di un soldato e di confondere l’animo di una prigioniera.
“Guardandomi attorno, mi resi conto che ero l’unica senza compagnia e di nuovo m’invase la tristezza. Mi avevano detto che per ogni persona sulla faccia della terra c’era un’anima gemella e la mia in quale parte del mondo si nascondeva? Mi domandavo chi fosse e cosa stesse provando in quel momento l’uomo che dall’alto mi era stato designato” [Rosa De Santis; tratto dal capitolo 5, False speranze].
“Mi voglio arruolare, voglio portare la Germania, la nostra Germania alla vittoria. Fra qualche mese tutta l’Europa saprà chi sono gli Von Hennen” [Karl Von Hennen; tratto dal capitolo 6, Orgoglio patriottico].
Storia scritta insieme a un mio amico.
Genere: Drammatico, Guerra, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Guerre mondiali
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Capitolo 6

 

Rosa De Santis

 

Ottobre 1943

 

Risveglio in un incubo

 

“ Rosa, svegliati! ” fece mia madre concitata, scuotendomi il braccio. Mi svegliai di soprassalto: dalle persiane della finestra non entrava nemmeno un fioco raggio di sole. Fuori era ancora buio e il volto di mia madre pallido per la paura. “ Che c’è?! ” risposi nervosa e lanciai uno sguardo all’orologio sul comodino: erano le cinque del mattino. “ Alzati, mettiti qualcosa addosso, dobbiamo scappare! ” Di scatto, mi liberai dalle coperte e sollevai la schiena dal letto. “ Ma che succede?! ” ripetei più agitata. “ I tedeschi stanno arrestando gli ebrei del quartier Testaccio, presto arriveranno a Trastevere! ” Gelai. I nazisti non avevano mantenuto la loro promessa e, in quel maledetto sabato mattina[1], iniziava la grande razzia degli ebrei romani. Balzai dal letto e, afferrato il vestito blu dalla sedia, lo indossai in gran fretta sopra la camicia da notte. Per la prima volta nella mia vita, insieme alla paura, avvertii un senso di morte imminente. Sentivo, infatti, che i nazisti ci avrebbero inseguiti e ammazzati. “ Dobbiamo raggiungere Città del Vaticano! ” esclamò mio padre preoccupato dal corridoio e velocemente abbandonammo il tepore della nostra casa e i ricordi di una vita poco goduta e apprezzata. Fuori l’aria era umida e per strada c’erano alcune persone, di sicuro ebrei, che vagavano in cerca di un rifugio. Appena uscii dal portone di casa, una ventata di freddo mi sferzò le gambe nude: nella fuga avevo dimenticato d’indossare le calze. E così io, mia madre, mio padre e mio fratello di diciassette anni iniziammo a correre diretti verso Borgo per raggiungere Città del Vaticano e lì chiedere asilo. Improvvisamente, un urlo seguito da uno sparo ruppe il silenzio dell’alba e c’indusse a fermarci sgomenti. “ Cos’è stato? ” domandai con voce tremante e mio fratello, impietrito, mi rispose: “ Stanno arrivando. ” “ Dobbiamo dividerci, così daremo meno nell’occhio. ” Alla proposta quasi delirante di mia madre tutti esprimemmo il nostro disaccordo con un no corale e deciso. “ Ma è l’unico modo per salvarci! Ci ritroveremo davanti alla Chiesa di Sant’Anna dei Palafrenieri[2]. ” Ci convinse e subito ci dividemmo. Rimasi da sola io, una ragazza di soli vent’anni, in una città assediata dai tedeschi. Correvo, pregavo mentre grosse e calde lacrime mi rigavano il viso. Non volevo essere scoperta, non volevo essere arrestata, non volevo morire. Mi sembrava di vivere un incubo: a ogni minimo rumore, mi voltavo con aria terrificata senza però fermare la mia corsa per la sopravvivenza. La mia paura accresceva, il mio respiro diventava più affannoso, il mio cuore batteva all’impazzata e mi sentivo seguita. Col cuore in gola, arrivai finalmente al quartiere Borgo ma anche i tedeschi erano arrivati lì. Vidi da lontano un camion grigio fermo in mezzo alla strada con il motore acceso e vicino due soldati delle SS armati di fucili e prontamente mi nascosi in un vicoletto. Sbattei la schiena al muro e, rannicchiandomi a terra, tappai fortemente la bocca con entrambe le mani per trattenere le lacrime. La speranza e la forza di raggiungere il Vaticano e ritrovarmi con la mia famiglia si stavano affievolendo. Poco dopo, mi rialzai e ricominciai a correre lungo quel vicolo stretto e buio. Non potevo arrendermi. Udii urla di donna e l’inconfondibile voce dei tedeschi – alta e brusca – e il camion, che avevo visto pochi secondi prima, ripartire veloce. Di colpo, mi fermai: il vicoletto era terminato e dovevo scegliere da che parte andare, se a sinistra o a destra. Mi sentivo spaesata ma sapevo che non potevo tornare indietro, che per ricongiungermi con la mia famiglia (che forse mi stava già aspettando alla Porta Angelica) dovevo andare avanti e quindi scelsi la prima opzione. Prima di uscire dal vicoletto, guardai a destra poi a sinistra per assicurarmi che la via fosse libera ma non lo era. Un numeroso reparto di SS stava arrivando verso di me. L’incubo divenne orrore e mi resi conto che quel quartiere sarebbe stato la mia trappola. Vissi un momento di assoluto panico poi, di corsa, tornai indietro. Mi voltai temendo di essere seguita ma così facendo inciampai in un sampietrino e caddi violentemente a terra. Il mio viso si contorse in una smorfia di dolore e, sedendomi, portai le mani alla caviglia. Il rumore degli stivali dei soldati tedeschi in marcia era sempre più vicino e ogni loro tonfo sull’asfalto era per me un colpo al petto. Strinsi i denti e, con la caviglia sinistra dolorante, mi rialzai riprendendo la mia corsa. Sentii di nuovo il rumore di un camion, i nazisti erano dappertutto e pensai che la cosa migliore da fare fosse trovare un rifugio lì, a Borgo e aspettare che le acque si calmassero per poi proseguire verso il Vaticano. Correndo – a questo punto – senza una meta e guardandomi attorno, mi domandavo dove avrei potuto nascondermi. Pensai subito a una chiesa: i nazisti non avrebbero mai avuto il coraggio di profanare un luogo così sacro irrompendo con le armi. Entrai in un altro vicoletto e non appena ne uscii, come per miracolo, mi ritrovai davanti ad una piccola chiesa. Quasi non riuscivo a credere alla fortuna che avevo avuto. In lacrime, incominciai a bussare disperatamente alla porta della chiesa. “ Aiuto! Aiuto! Qualcuno mi aiuti, vi prego! ” dissi ma nessuno rispose alla mia disperata preghiera e quella porta rimase chiusa. Smisi di urlare e di battere i pugni e, ormai arresa, mi attaccai alla porta. Voltando la faccia a destra, notai a pochi metri di distanza una piccola porta che lentamente si apriva e da lì affacciarsi una figura vestita di nero. L’anziano sacerdote mi fece segno di entrare nella canonica. Non mi rivolse la parola e, poggiandomi la mano sulla spalla, mi guidò verso una stanza. Per un attimo mi sentii al sicuro. Entrammo nel soggiorno, una stanza dall’ambiente modesto ma accogliente, dove c’erano un armadio, due poltrone e un tavolo rotondo con due sedie. Sobbalzai: dall’armadio era uscito improvvisamente un giovane dall’espressione sconvolta. “ Padre! ” esclamò “ Sono andati via?! ” Il sacerdote disse di no con la testa che subito abbassò avvilito. Poi, aprendo un’altra porta, mi accompagnò in quella che doveva essere la sagrestia – una stanza con un mobile lungo tutte le pareti, un inginocchiatoio e al centro un tavolo sul quale erano poggiati alcuni paramenti sacri – e, infine, nella chiesa. Mi fece avvicinare a un confessionale e, aprendo la porticina, mi disse: “ Entra, qui sarai al sicuro. ” Entrai, ma dentro di me quel senso di sicurezza era già andato via e non sarebbe più tornato. Seduta, cominciai a tremare e a piangere sommessamente per la paura. Temevo, infatti, che i nazisti sarebbero entrati ugualmente in quella chiesa e a quel punto cosa ne sarebbe stato di me? Fissando la tendina viola del confessionale, mi misi ad aspettare rassegnata la fine della mia libertà che non tardò ad arrivare. All’improvviso, udii forti colpi alla porta e l’anziano sacerdote dirigersi velocemente verso l’entrata della chiesa. “ Andate via! Non potete entrare nella casa del Signore! ” disse con tono autorevole. “ Apri, prete o sfonderemo la porta! ” minacciò un tedesco dall’altra parte. Il mio cuore palpitava per la paura. I nazisti cominciarono a battere più violentemente alla porta ed io, a ogni colpo, sobbalzavo chiudendo gli occhi. Poi, a un tratto, si fermarono e nella chiesa piombò il silenzio. Mi meravigliai poiché non era dai tedeschi arrendersi così facilmente e, infatti, poco dopo quell’inquietante silenzio fu interrotto da un botto fortissimo: le SS avevano sfondato la porta. Portai le mani alle orecchie e ripresi a piangere. Sentivo in lontananza i passi veloci e pesanti dei tedeschi, il rumore delle panche buttate per aria, la voce del sacerdote supplicare invano pietà e le urla delle persone catturate dai loro nascondigli. Poi venne il mio turno. La tendina del confessionale fu strappata e mi ritrovai davanti la faccia di un nazista arrabbiato.

 

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Capitolo scritto da  Nadine_Rose

 

 



[1] Riferito al 16 ottobre 1943 giorno in cui, dalle ore 5:30 alle ore 14, i soldati tedeschi (300) arrestarono gli ebrei di Roma (1024).

 

[2] Chiesa situata in via Sant’Anna, nei pressi della Porta Angelica, il principale ingresso alla Città del Vaticano.

 

   
 
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