Capitolo
6
Rosa
De Santis
Ottobre
1943
Risveglio
in un incubo
“ Rosa,
svegliati! ” fece mia madre concitata, scuotendomi il braccio. Mi svegliai di
soprassalto: dalle persiane della finestra non entrava nemmeno un fioco raggio
di sole. Fuori era ancora buio e il volto di mia madre pallido per la paura. “
Che c’è?! ” risposi nervosa e lanciai uno sguardo all’orologio sul comodino:
erano le cinque del mattino. “ Alzati, mettiti qualcosa addosso, dobbiamo
scappare! ” Di scatto, mi liberai dalle coperte e sollevai la schiena dal
letto. “ Ma che succede?! ” ripetei più agitata. “ I tedeschi stanno arrestando
gli ebrei del quartier Testaccio, presto arriveranno a Trastevere! ” Gelai. I
nazisti non avevano mantenuto la loro promessa e, in quel maledetto sabato
mattina[1],
iniziava la grande razzia degli ebrei romani. Balzai dal letto e, afferrato il
vestito blu dalla sedia, lo indossai in gran fretta sopra la camicia da notte. Per
la prima volta nella mia vita, insieme alla paura, avvertii un senso di morte imminente.
Sentivo, infatti, che i nazisti ci avrebbero inseguiti e ammazzati. “ Dobbiamo
raggiungere Città del Vaticano! ” esclamò mio padre preoccupato dal corridoio e
velocemente abbandonammo il tepore della nostra casa e i ricordi di una vita
poco goduta e apprezzata. Fuori l’aria era umida e per strada c’erano alcune
persone, di sicuro ebrei, che vagavano in cerca di un rifugio. Appena uscii dal
portone di casa, una ventata di freddo mi sferzò le gambe nude: nella fuga
avevo dimenticato d’indossare le calze. E così io, mia madre, mio padre e mio
fratello di diciassette anni iniziammo a correre diretti verso Borgo per
raggiungere Città del Vaticano e lì chiedere asilo. Improvvisamente, un urlo
seguito da uno sparo ruppe il silenzio dell’alba e c’indusse a fermarci
sgomenti. “ Cos’è stato? ” domandai con voce tremante e mio fratello,
impietrito, mi rispose: “ Stanno arrivando. ” “ Dobbiamo dividerci, così daremo
meno nell’occhio. ” Alla proposta quasi delirante di mia madre tutti esprimemmo
il nostro disaccordo con un no corale e deciso. “ Ma è l’unico modo per
salvarci! Ci ritroveremo davanti alla Chiesa di Sant’Anna dei Palafrenieri[2].
” Ci convinse e subito ci dividemmo. Rimasi da sola io, una ragazza di soli
vent’anni, in una città assediata dai tedeschi. Correvo, pregavo mentre grosse
e calde lacrime mi rigavano il viso. Non volevo essere scoperta, non volevo
essere arrestata, non volevo morire. Mi sembrava di vivere un incubo: a ogni
minimo rumore, mi voltavo con aria terrificata senza però fermare la mia corsa
per la sopravvivenza. La mia paura accresceva, il mio respiro diventava più
affannoso, il mio cuore batteva all’impazzata e mi sentivo seguita. Col cuore
in gola, arrivai finalmente al quartiere Borgo ma anche i tedeschi erano
arrivati lì. Vidi da lontano un camion grigio fermo in mezzo alla strada con il
motore acceso e vicino due soldati delle SS armati di fucili e prontamente mi
nascosi in un vicoletto. Sbattei la schiena al muro e, rannicchiandomi a terra,
tappai fortemente la bocca con entrambe le mani per trattenere le lacrime. La
speranza e la forza di raggiungere il Vaticano e ritrovarmi con la mia famiglia
si stavano affievolendo. Poco dopo, mi rialzai e ricominciai a correre lungo
quel vicolo stretto e buio. Non potevo arrendermi. Udii urla di donna e
l’inconfondibile voce dei tedeschi – alta e brusca – e il camion, che avevo
visto pochi secondi prima, ripartire veloce. Di colpo, mi fermai: il vicoletto
era terminato e dovevo scegliere da che parte andare, se a sinistra o a destra.
Mi sentivo spaesata ma sapevo che non potevo tornare indietro, che per
ricongiungermi con la mia famiglia (che forse mi stava già aspettando alla
Porta Angelica) dovevo andare avanti e quindi scelsi la prima opzione. Prima di
uscire dal vicoletto, guardai a destra poi a sinistra per assicurarmi che la
via fosse libera ma non lo era. Un numeroso reparto di SS stava arrivando verso
di me. L’incubo divenne orrore e mi resi conto che quel quartiere sarebbe stato
la mia trappola. Vissi un momento di assoluto panico poi, di corsa, tornai
indietro. Mi voltai temendo di essere seguita ma così facendo inciampai in un
sampietrino e caddi violentemente a terra. Il mio viso si contorse in una
smorfia di dolore e, sedendomi, portai le mani alla caviglia. Il rumore degli stivali
dei soldati tedeschi in marcia era sempre più vicino e ogni loro tonfo
sull’asfalto era per me un colpo al petto. Strinsi i denti e, con la caviglia
sinistra dolorante, mi rialzai riprendendo la mia corsa. Sentii di nuovo il
rumore di un camion, i nazisti erano dappertutto e pensai che la cosa migliore
da fare fosse trovare un rifugio lì, a Borgo e aspettare che le acque si
calmassero per poi proseguire verso il Vaticano. Correndo – a questo punto –
senza una meta e guardandomi attorno, mi domandavo dove avrei potuto
nascondermi. Pensai subito a una chiesa: i nazisti non avrebbero mai avuto il
coraggio di profanare un luogo così sacro irrompendo con le armi. Entrai in un
altro vicoletto e non appena ne uscii, come per miracolo, mi ritrovai davanti
ad una piccola chiesa. Quasi non riuscivo a credere alla fortuna che avevo
avuto. In lacrime, incominciai a bussare disperatamente alla porta della
chiesa. “ Aiuto! Aiuto! Qualcuno mi aiuti, vi prego! ” dissi ma nessuno rispose
alla mia disperata preghiera e quella porta rimase chiusa. Smisi di urlare e di
battere i pugni e, ormai arresa, mi attaccai alla porta. Voltando la faccia a
destra, notai a pochi metri di distanza una piccola porta che lentamente si
apriva e da lì affacciarsi una figura vestita di nero. L’anziano sacerdote mi
fece segno di entrare nella canonica. Non mi rivolse la parola e, poggiandomi
la mano sulla spalla, mi guidò verso una stanza. Per un attimo mi sentii al
sicuro. Entrammo nel soggiorno, una stanza dall’ambiente modesto ma
accogliente, dove c’erano un armadio, due poltrone e un tavolo rotondo con due
sedie. Sobbalzai: dall’armadio era uscito improvvisamente un giovane
dall’espressione sconvolta. “ Padre! ” esclamò “ Sono andati via?! ” Il
sacerdote disse di no con la testa che subito abbassò avvilito. Poi, aprendo
un’altra porta, mi accompagnò in quella che doveva essere la sagrestia – una
stanza con un mobile lungo tutte le pareti, un inginocchiatoio e al centro un
tavolo sul quale erano poggiati alcuni paramenti sacri – e, infine, nella
chiesa. Mi fece avvicinare a un confessionale e, aprendo la porticina, mi
disse: “ Entra, qui sarai al sicuro. ” Entrai, ma dentro di me quel senso di
sicurezza era già andato via e non sarebbe più tornato. Seduta, cominciai a
tremare e a piangere sommessamente per la paura. Temevo, infatti, che i nazisti
sarebbero entrati ugualmente in quella chiesa e a quel punto cosa ne sarebbe
stato di me? Fissando la tendina viola del confessionale, mi misi ad aspettare
rassegnata la fine della mia libertà che non tardò ad arrivare. All’improvviso,
udii forti colpi alla porta e l’anziano sacerdote dirigersi velocemente verso
l’entrata della chiesa. “ Andate via! Non potete entrare nella casa del
Signore! ” disse con tono autorevole. “ Apri, prete o sfonderemo la porta! ”
minacciò un tedesco dall’altra parte. Il mio cuore palpitava per la paura. I
nazisti cominciarono a battere più violentemente alla porta ed io, a ogni
colpo, sobbalzavo chiudendo gli occhi. Poi, a un tratto, si fermarono e nella
chiesa piombò il silenzio. Mi meravigliai poiché non era dai tedeschi
arrendersi così facilmente e, infatti, poco dopo quell’inquietante silenzio fu
interrotto da un botto fortissimo: le SS avevano sfondato la porta. Portai le
mani alle orecchie e ripresi a piangere. Sentivo in lontananza i passi veloci e
pesanti dei tedeschi, il rumore delle panche buttate per aria, la voce del
sacerdote supplicare invano pietà e le urla delle persone catturate dai loro
nascondigli. Poi venne il mio turno. La tendina del confessionale fu strappata
e mi ritrovai davanti la faccia di un nazista arrabbiato.
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Capitolo scritto da Nadine_Rose