Il Dono Più Grande
Io intraprendo la narrazione di avventure che a molti parranno incredibili e della maggior parte delle quali sono stato io stesso testimonio oculare. Le Muse mi ispirino nel ricordare l’angoscioso timore di perdere la patria, le imprese del prode Leonida e l’astuzia dell’impavido Milziade.
L’ombra
di
Dario, re di Sumer e di Akkad, delle quattro parti del Mondo e
dell’intero
Universo, si era allungata sino ai confini dell’Ellade, non
sazia abbastanza
delle ricchezze in cui si pasceva. Per la sua avidità
minacciava la nostra
libertà, il dono più prezioso degli dei. Appena
era giunta la notizia del suo
enorme esercito che incombeva su Atene, la città era
sprofondata nel panico.
L’inquietudine aleggiava e, come una cappa di calore,
risaliva l’etere. A
quell’epoca io ero stato appena eletto membro
dell’Eliea, il tribunale popolare
al quale potevano partecipare tutti i cittadini, quando il mio compagno
d’armi,
nonché polimarco, Milziade annunciò che i
Persiani erano alle porte. Il gran Re
non aveva gradito l’insurrezione di Mileto nove anni or sono;
infatti era stata
rasa al suolo. Dicono fosse stata una delle più belle
città dell’Asia,
con templi, palazzi ed ogni dono
che Apollo potesse darle. Ora restavano solo rovine, vedove ed orfani
che
piangevano. A questa scelleratezza era seguito un boato di
disapprovazione,
alzatosi da ogni dove: Tassaglia, Acaia, Attica. L’unico modo
per sfuggire alle
truppe di Dario era allearsi tra di noi. Così era nata la
Lega del Peloponneso.
La presenza più
richiesta era quella
dell’invincibile Sparta, potenza terrestre. I suoi opliti
marciavano in file
serrate, una accanto all’altra; gli scudi sulla sinistra, a
proteggere il
compagno, la lancia sulla destra, per
trafiggere ogni nemico che avesse avuto l’ardire di sfidarli.
Erano allenati
sin da bambini a svolgere quel
mestiere;
all’età di sette anni lasciavano le famiglie e,
con solo una mantello ed un
paio di sandali, veniva imposto loro di procacciarsi il cibo da soli. A
chi,
rubando, veniva sorpreso spettava la frusta, che lo colpiva non per il
furto,
ma perché
non era stato abbastanza
scaltro ed era stato scoperto. Così fino
all’età di vent’anni, quando entravano
nell’esercito.
Tuttavia la nostra
più grande alleata non avrebbe
soccorso perché in quel tempo erano in corso i Sacri Giochi
dedicati al dio
Apollo e questo implicava che Sparta non sarebbe venuta a Maratona,
luogo dello
scontro. I Giochi per gli dei erano intoccabili. Se i Lacedemoni
avessero
trascurato la regola che vieta le guerre durante quel periodo, gli dei
si
sarebbero accaniti contro l’intera Grecia, scatenando la loro
ira e favorendo
la vittoria persiana, la nostra disfatta e decenni di carestie, dolori
e
sventure.
Dario giunse a Maratona in
una lugubre
giornata di pioggia, raggiungendo la costa con le nere navi silenziose,
che
strisciavano sull’acqua ed uscivano dalla nebbia, quasi
fossero degli spettri.
Gli uomini, ormai, non erano più così sicuri di
poter salvare i propri cari,
senza l’aiuto di Sparta.
Mi
dicordo di
quel giorno come se fosse stato ieri. Io ero aiutante di campo e vicino
a me
c’era proprio Milziade. I suoi nervi erano tesi. Un corno
risuonò da qualche
parte.
“Arrivano?”
La
mia voce era meno incerta di quanto pensassi.
“Arrivano.”
Nella sua, invece, vi era eccitazione ed angoscia al contempo. Morte o
vittoria. Feci un respiro e strinsi la lancia con più forza.
I
Persiani non
attaccarono subito; distesero le loro armate sulla spiaggia come una
leonessa
che si acquatta fra le stoppie prima di balzare sulla preda. Dal canto
suo, il
nostro comandante attendeva il momento propizio per sferrare il suo
attacco o, più
probabilmente, temporeggiava nella speranza che qualche altro disperato
si
unisse a lui nella battaglia decisiva contro l’invasore. La
Storia gli diede
ragione. Sotto lo scrosciare della pioggia udii un rullare di tamburi,
accompagnato dai flauti.
“Sparta
ci
aiuta!” gridarono alcuni. Il morale sul campo si faceva
sempre più alto.
Nonostante tutto Sparta ci avrebbe aiutati! Poi scorgemmo il verde e il
giallo,
simbolo di un’altra città. Platea ci era rimasta
fedele e marciava in nostro
aiuto.
Dopo
tre giorni
che sfuggivamo lo sguardo degli uomini di Dario, decidemmo di sfidarli.
In un
batter d’occhio Milziade mi passò davanti e, con
il sorriso sulle labbra, partì
all’assalto dei Persi che, sbigottiti, racimolavano le armi e
si schieravano,
pronti a ricevere gli onori di casa, offerti dal nostro polemarco.
Un
brivido
percorse l’intero schieramento, portando un sentore di morte.
Però ogni oplita,
ogni peltasta, ogni stratega, aveva in cuore la determinazione che ogni
uomo
possiede quando viene minacciato di perdere ogni cosa. Un fuoco che
ardeva in
ogni individuo, che portava coraggio, perché nessuno,
nessuno, in quel campo
aveva intenzione di sottostare alla tirannia di Dario. Nessuno voleva
perdere
la libertà. Nessuno si sarebbe ritirato di fronte al nemico.
Sguainammo
le
spade.
I
barbari furono
rispediti alle loro navi dopo qualche ora di combattimento. Sfiniti,
decimati,
furono costretti a battere in ritirata. Tentarono di circumnavigare il
promontorio sul quale sorgeva Maratona ed attaccare da lì,
prendendo di
sorpresa i danai alle spalle; tuttavia Milziade aveva preso in
considerazione
questa ipotesi e si presentò sulla costa allineando le fila.
I persiani non osarono
nemmeno avvicinarsi ma ripiegarono e tornarono in patria.
Immensa fu la gloria per gli eroi! Grande il compenso per i salvatori della patria! Sarà ricordata nei millenni a venire l’impresa impossibile di coloro che sfidarono il più grande impero del mondo per conservare il dono più grande: la libertà.
Note: Questa storia è stata scritta per un concorso letterario in cui, a partire da uno degli incipit di libri esitenti, decisi dalla giuria, bisognava trarne uno scritto.