Salve. Come sempre metto in gioco me stesso e quindi non posso far macare la colonna sonora di questa ff. Se avete voglia di leggerla come si deve, ascoltate QUESTA.
Battiti.
Ero
convinto di non avere
una meta, ma, come sempre, sapevo dove sarei andato, sapevo dove mi
avrebbe
portato il mio vagabondare. Sapevo che alla fine di una giornata
quell'unico
posto era il mio sollievo, e sapevo, inoltre, che anche se volevo
evitare quel
luogo, anche se volevo farmi del male, la mia volontà
talvolta non era
abbastanza. E proprio per questo mi ritrovavo ancora su quella
scogliera,
quell'inutile, lunga, quasi interminabile scogliera. Vorrei sapere
perchè un
ammasso di rocce messe in sequenza fosse per me così
importante.. Del resto
erano solo grandi sassi, solo sassi. Iniziai a saltellare goffamente
per
raggiungere quelli più vicini al mare. Ad ogni passo sentivo
il mio lungo
cappotto di pelle scrosciare e, quasi come se fosse un meccanismo ben
preciso,
ci inciampavo.
Il
vento soffiava, i miei
capelli tinti, oserei quasi dire finti, ondeggiavano all'indietro e dei
lampi
rosso fuoco mi balzavano dinanzi agli occhi di tanto in tanto.. I
capelli non
erano l'unica "protesi" che avevo: la mia faccia era finta ogni volta
che sorridevo, le mie mani erano finte ogni volta che si muovevano in
gesti di
affetto, i miei piedi erano finti quando correvo per simulare
un'inutile fuga,
le mie orecchie erano finte quando giocavo ad ascoltare, il mio cuore..
NO,
quello non era finto: quello batteva, batte e continuerà a
battere.. Anche se
non lo capisco! No, non ci riesco: quale senso ha? Più di
due battiti al
secondo, quasi ottanta pulsazioni al minuto, ma per cosa?!
Batteva,
batte e
continuerà a battere per nulla.
Arrivato
su quella che
veniva detta 'punta della scogliera' mi sedetti, posai la borsa piena
di
inutili cose che mi pesavano su una spalla e lungo un fianco. Nonostante il caos che
regnava nella mia
sacca bianca, nera e rossa, sapevo precisamente dove mettere le mani
per
trovare ciò che mi interessava: aprì la cerniera
principale e con la mano mi
feci strada tra dei fili di auricolari, alcune cartacce con delle cose
appuntate a matita da me, cose che probabilmente avevo dimenticato
nonostante
il promemoria; spostai un profumo non mio, un album di foto.. quante
cose
inutili. Arrivai alla cerniera interna, quasi nascosta. Facendo leva
con il
pollice e l’indice aprii la tasca e ne tirai fuori
il contenuto: il mio
accendino viola e il mio solito pacchetto di sigarette. Lo
aprì delicatamente e
con dolcezza sfilai una sigaretta dall’interno. Non volevo
maltrattarle. Sono
sempre stato una persona facilmente infastidibile, dalle urla, dal
silenzio, dai
bambini, dagli anziani, dal sole di mezzogiorno e dalla luna piena di
mezzanotte, dai respiri flebili e dagli affanni, dall’amore..
ma non dall’odio,
quello è quasi sempre sincero, puro.
Sono
sempre stato una
persona facilmente infastidibile, da molte cose, ma, soprattutto, dalle
sigarette sgualcite.
Mi
portai la sigaretta tra
le labbra, con una mano riparavo l’accendino dal vento, con
l’altra giravo la
rotellina per fare attrito sulla pietra focaia, affinché
scoccasse quella
piccola scintilla che avrebbe dato origine alla fiamma. Mi avvicinai
con il
capo alla piccola scocca rossa che lottava contro le spire
d’aria che volevano
spegnerla. Accesi la sigaretta e sentì in quel primo tiro
tutto il gas ed il
catrame. Dicono che il primo tiro sia quello che faccia più
male, ma, in tutta
onestà, non me ne curo. Chiusi gli occhi e mi stesi, usando
la mia borsa come
cuscino. Percepivo
comunque i movimenti
dei gabbiani e delle nuvole sopra di me.
-Ordinai alla mia mano di
farmi fare un tiro. Buttai
la cenere.
Con l’altra
continuavo a
maltrattare il pacchetto delle sigarette giallo e la plastica che lo
avvolgeva,
ma solo il pacchetto.
-Feci
un altro tiro. Buttai la cenere.
Cacciai il fumo da una
stretta fenditura tra le labbra e dalle narici, lo percepivo pesante
posarsi
sul viso.
-Tirai
ancora. Buttai la cenere.
Sentivo il fumo che mi
circolava nell’apparato respiratorio; sentivo il sapore della
nicotina e del
catrame che mi sporcavano i polmoni; sentivo qualcosa dentro di me.
-Mi
inumidii le labbra seccate dal fumo. Tirai.
Buttai la cenere.
Ero lì a
fumare,
lamentandomi sugli affanni della vita, sbottando per la
stupidità delle
persone. Avevo davvero quindici anni?
-Aspirai
avidamente quanto più fumo possibile. Buttai
la cenere.
Aprii gli occhi per
osservare le occlusive nuvolette di fumo che mi accerchiavano. Fumavo
per il
semplice piacere di farlo. Fumavo come se avessi avuto anni di
esperienza alle
spalle, mentre era poco più di un anno che avevo quel brutto
vizio. Fumavo,
semplicemente, come una persona che aveva vissuto troppo, che non aveva
più
voglia di ripescare le impolverate memorie, di soffiare sui libri e
leggerne i
titoli mentre la polvere si libra tra i raggi di sole che, flebili,
entrano
dalla finestra di legno smaltata di bianco
e colpiscono una scacchiera lasciata in disordine, una
sedia a dondolo
in disuso, un baule con un collage di vecchi giornali. Non volevo
più pensare a
ciò che era già accaduto, ma, nello stesso
momento, non riuscivo a vedere nulla
nel domani, nessuna speranza, nessuna gioia, nessuna tristezza.
Ritrovavo solo
giorni inutili. E allora, perché sono andato avanti?
-Schiacciai il mozzicone
su uno
scoglio alla mia sinistra. Lo lasciai lì, abbandonai
ciò
che per circa sette minuti era stato il mio unico piacere.
Si, un perché c’è: il mio
cuore.
Batteva, batte e
continuerà a battere.