Tra le lenzuola grigie un corpo, freddo e immobile.
Il petto è lievemente scoperto dalle coltri, le mani sono serrate sulle coperte, segno che ha sofferto, prima di andarsene; ma non un lamento è uscito dalla sua bocca, ovviamente. Un vero uomo romano non si lamenta mai.
Il viso è cereo, i tratti forti pronunciati ancora di più dal velo della morte, l’espressione arcigna. Così come era in vita è rimasto in morte.
Sulla sponda sinistra del letto c’è sua madre, quasi invisibile nell’ombra, piegata, grigia. Non riesce a capacitarsi della morte di colui che era al tempo stesso marito e padrone, amante e tiranno.
Sulla destra Livia, sua sorella, il volto troppo giovane per essere segnato dal dolore, dall’incertezza per il futuro. La complicata acconciatura d’ebano è sfatta, le gote segnate dalle lacrime, il trucco colato.
Ecco cosa provoca la morte di un pater familias, a Roma. Tristezza, lacrime, sollievo. Potere.
Potere, sì, perché ora è lui il pater familias, il padrone di tutto: donne, figli, schiavi, animali, clientes. Tutto.
 
“Madre, organizza il funerale” ordina alla vecchia consumata, che annuisce impercettibilmente.
Dopo aver visto l’assenso della donna esce dalla cameretta scura, lanciando un solo sguardo fugace al cadavere nel letto: un lampo di amore e odio lo attraversa, improvviso.
 
Finalmente, a trentadue anni, è libero della tirannica presenza paterna.
Con questa dolce sensazione si avvia verso il foro, per andare per la prima volta in tribunale da solo.