Fu la maestra Tsunade a insegnarmelo.
Pensandoci bene, fu lei a inculcarmi tutto quel che avrebbe
fatto di me un ninja e una donna.
Non che il maestro Kakashi non mi avesse dato abbastanza, ma
era quasi fosse scritto, da qualche parte, così minuto che a fatica avresti
potuto leggerlo, che solo una donna avrebbe potuto parlare al mio cuore di donna
– una specie di lascito della tradizione e della memoria – perché le donne sono
diverse, malgrado tutto.
Anche se possiamo vivere come uomini e a volte ci piace
fingere di non essere inferiori in nulla, la verità è che c’è sempre quel
qualcosa che ci rende uniche. Che ci rende fragili o fortissime. Per questo avevo bisogno di una maestra come Tsunade.
A volte, quando mi capita di ricordare con Ino quei giorni –
sembrano trascorsi eoni da che eravamo solo due ragazzine in competizione per
tutto – ripenso a quanto fosse più matura e consapevole lei, che pure non era
dotata come me.
Io decisi di scrivermi un destino che non avevo mai
immaginato in vista di un obbiettivo che non avrei probabilmente mai raggiunto.
Ino, per contro, si era guardata intorno e aveva compreso la storia meglio di
me. Non c’era nessuno che valesse più di un altro, solo un gran bisogno di
sopravvivere.
È con una punta di orgoglio, però, che penso a come per
Tsunade, dopo Shizune, ci sia sempre stata io – una specie di allieva
prediletta, diciamo. Oppure, com’è accaduto a Jiraiya con Naruto, uno strano
specchio in cui cercare l’emenda della memoria.
Io potevo essere più felice di come era stata la mia maestra
e il Quinto Hokage fece il possibile perché ciò accadesse. Non mi nascose mai la
crudeltà della lezione più importante che la vita possa dare, ma mi armò perché
potessi sopravvivere.
Tant’è che arrivai alla Valle della Fine assieme a tutti gli
altri.
La maestra Tsunade mi diceva sempre che la felicità è una
condizione soggettiva e volubile; che non potevo credere davvero che dipendesse
dal riprendermi Sasuke, perché Sasuke, per quanto potesse essere un pezzo del
mio cuore, non lo era anatomicamente. Non era mio, cioè. La felicità era una
forza personalissima, egoista e tutta mia. Potevo raggiungerla solo diventando
almeno un grande ninja, perché un grande ninja non ha bisogno di ricordare la
regola numero venticinque. È la regola numero
venticinque.
Per la verità, quando vidi in concreto cosa ciò implicasse,
ho pure capito che non m’importava diventare un ninja perfetto. Forse la mia
felicità poteva essere la disperazione di Temari, com’era quella di Kurenai:
portare nel grembo la creatura di un uomo che non sarebbe vissuto abbastanza da
darle un nome.
Volevo un figlio da Sasuke?
Non è qualcosa di scontato e lineare come appare, perché non
lo è la vita. Forse mi illudevo soprattutto di poter riscattare l’abisso che
viveva dietro ai suoi occhi; abbracciare il bambino ch’era rimasto solo a
soffiare il fuoco delle proprie illusioni.
Ma Sasuke era cresciuto e la sua felicità era diversa dalla
mia. Era vissuto nell’amore per la prima metà di una brevissima vita, poi in un
dolore tanto forte da consumare ogni suo ricordo. Da consumare persino il
futuro.
I due guerrieri che si sfidarono, si massacrarono, si
torturarono e ci torturarono con quella vista aberrante nella Valle della Fine,
erano quanto l’Accademia avrebbe voluto produrre: erano due macchine da guerra.
Senza sentimenti.
Di Itachi, in quegli anni, avevo sentito abbastanza per non
stupirmi davvero di niente. A sorprendermi, forse, fu il fatto di trovarmi
davanti agli occhi qualcuno che non era spaventoso, enorme e orribile come avevo
creduto.
Quel giorno Itachi si disfece dei paramenti dell’Akatsuki,
pur essendone l’ultimo superstite.
Quel giorno non entravano in conto né Alba, né Orochimaru, né
nulla: era un rito degli Uchiha, officiato nel nome di una memoria maledetta dai
giorni di Madara.
Quel giorno Sasuke non era né mio né di Naruto, eppure lo
sentivamo entrambi in noi come qualcosa che avevamo perso. Come qualcosa che
ora, soprattutto, comprendevamo di aver smarrito del tutto.
“Sasuke ha qualcosa di strano,” mormorò all’improvviso
Uzumaki – la sua vista acuta come quella di una volpe, ma animata da colori e
sentimenti che Kyuubi poteva solo immaginare. Anche Gaara, immobile al suo
fianco, strinse le palpebre sottili per fissare un orizzonte in cui tutto pareva
annientato dal chiarore abbacinante del sole e dal venefico splendore di quelle
aure.
“Qualcosa in più del solito?” provò a scherzare Sai, con
quella sua irritante e quasi commovente insensibilità ai climi, ai registri e
all’opportunità stessa. Nessuno ebbe modo di irritarsi, però, perché fu come se
un veleno si fosse diffuso nell’aria che respiravamo, quando gli occhi di Sasuke
si armarono della loro bellezza più segreta e pericolosa.
Lo Sharingan ipnotico.
Se Itachi – la sua voce controllata e freddissima – non gli
avesse domandato per primo come fosse riuscito a ottenerlo – lui ch’era un
coniglio al punto da non osare neppure sfiorare quelli che chiamava ‘amici’ –
forse avrei violentato sino in fondo il mio ego più morbido e vulnerabile e
gliel’avrei chiesto di persona.
Perché sono curiosa. Perché
ormai ero abbastanza consapevole di tutto quel che riguardava gli Uchiha da
sentirmi parte di una storia che non era la mia, eppure mi era entrata dentro
sino ad avvelenarmi.
Sasuke si era allontanato indolente la frangia troppo lunga
dagli occhi, quasi a mettere ulteriormente a nudo la crudele bellezza di quelle
pupille armate. Non eravamo noi il suo pubblico, ma suo fratello. Era l’unico
che desiderasse forse impressionare.
Itachi, però, era il solo che poteva guardare lo sharingan
senza abbassare il capo.
“Non credere, sono il primo che se n’è stupito.”
La sua voce suonava tanto fredda che avrei voluto non fosse
la sua. Come diceva sempre la maestra Tsunade, però, non basta negare la morte
per diventare immortali: così era inutile ingannarmi con il ricordo, se Sasuke
era lì. Era quel che vedevo. Nulla di meglio. Nulla di diverso.
“Sei stato tu a dirmi che avrei potuto ottenerlo. Dimostrarti
che potevo farlo a modo mio era il minimo che potessi fare.”
Un tempo, quando parlava di Itachi, Sasuke palesava sempre
una sfumatura rancorosa e viva nella voce. Considerando che si trattava pur
sempre di suo fratello, non era qualcosa che avresti detto piacevole, ma era
almeno umano.
La maestra Tsunade non mi ha insegnato a negare l’odio, ma a
non farmene sopraffare. Un rancore canalizzato come deve è forza. Un
risentimento senza costrutto, per contro, una trappola mortale. Quella in cui è
caduto Sasuke, in fondo.
Il tono che usava allora, innanzi al proprio fratello, era
depurato da ogni accento. Lo metteva a parte di un segreto che non era neppure
tale, con una leggerezza studiata – una freddezza sepolcrale, direi.
Naruto si mordeva le labbra e restava in ascolto. Non c’era
una sola di quelle parole che non lo pungesse nel vivo e lo ferisse come forse
Sasuke avrebbe preferito colpire la propria preda, ma Itachi era al di là del
bene e del male. Uchiha non aveva capito di averlo perduto eoni prima: si era
spinto troppo avanti persino per rendere pensabile una vendetta.
Avrebbe avuto senso, poi? Io dico di no.
Eppure fremevamo, perché il segreto di quegli occhi ci
apparteneva dal momento in cui avevamo giurato a noi stessi di non perdere un
compagno; di riportarlo indietro, qualunque fosse il costo.
Itachi non si scompose. Non gli disse quel ‘bravo’ che forse
Sasuke supplicava da sempre – lo stesso per cui si era venduto – ma neppure la
sua espressione mutò, come pure avevo sperato, il che stava a dire che ora
Sasuke era come Itachi.
Quello non era un vero dialogo: imbandivano un banchetto
dell’orrore delle loro ideali mercanzie.
E Uchiha svelò infine come aveva ottenuto lo sharingan
ipnotico. No, non aveva dovuto uccidere qualcuno che sentiva quasi parte di sé,
ma chi aveva odiato sino ad amare come il migliore dei maestri.
Era un ossimoro atroce, eppure, al contempo, quello che
l’aveva trasformato sino a quel punto.
Cos’era accaduto in quei quasi tre anni? Che rapporto aveva
costruito con Orochimaru?
Continuamente domandavo alla mia maestra del Sennin che aveva
tradito Konoha, perché mi dicevo che in quel gioco drammatico di rispondenze
forse avrei anche trovato la soluzione. Ma il Quinto Hokage mi ha dissuasa da
certi giochi, ricordandomi una volta in più che crede alla linearità e non alla
circolarità del tempo.
“Orochimaru non era come Sasuke.”
L’ha scoccato subito, impietosa. Non era così fragile e
neppure così emotivo.
Orochimaru aveva una bellezza non umana, degna dei rettili
che amava tanto, e come i rettili si insinuava tra le pieghe della tua
coscienza, ti possedeva e ti strangolava.
Cosa può darti un maestro del genere?
“Una pericolosa illusione, bambina,” mi ha detto Tsunade, e
la storia le ha dato ragione.
Nel covo di Orochimaru, Sasuke cresceva all’ombra e
nell’ombra. Come diceva sempre il Terzo Hokage, non puoi togliere la luce a una
pianta e credere che non crescerà storta, ma Orochimaru fece proprio quello. E
Sasuke, poco a poco, deviò.
Fu la maestra Tsunade a insegnarmelo: è così che ho esordito
in questa pagina da bruciare assieme a troppi ricordi inutili e dolorosi, ma non
ho detto cosa.
Fu lei a dirmi come la bestia più feroce, quando la domi,
rallenta poco a poco ogni proprio movimento. C’è qualcosa di languido e apatico
nei suoi gesti; qualcosa che sa di rinuncia e di una libertà perduta in modo
inevitabile.
Come tutti i Sennin evocatori, la maestra Tsunade conosce
molto bene gli spiriti della natura e delle forze animali: non avevo ragione di
dubitare di lei. Mi sorprendeva più applicare un simile insegnamento a quel che
stavo vivendo.
Sasuke somigliava a tratti a una belva domata. L’avevo
realizzato per la prima volta proprio quando ci rivedemmo – e la sua espressione
impenetrabile ci irrideva dall’alto.
C’era sempre stata un’imperturbabilità curiosa in lui,
persino quando lo vedevi allenarsi e combattere, ma era la lentezza che nasce
dalla riflessione e dal calcolo. Quella, per dire, che accompagna anche
Shikamaru quando gioca allo shogi o costruisce dal nulla un piano.
È una tranquillità virtuosa, laboriosa e vigile, non
quell’intorpidimento sinistro, quella totale atonia morale che trovammo in lui.
Sasuke era stato corrotto persino nei suoi tempi, che pure
erano un segno delle sue radici e della sua identità. Non mi stupirei nel sapere
che ha pure ucciso così, con quella strana abulia che coglievi dietro ai suoi
occhi, perché dietro ai suoi occhi non c’era la più piccola scintilla d’amore.
Non so quand’è morto Orochimaru e neppure mi interessa.
Senz’altro non avrei pianto per lui come fece Anko, che non è mai riuscita del
tutto a dimenticare l’uomo che coglieva i bambini quasi fossero fiori. Eppure
c’è qualcosa che posso dire, qualcosa che viene dal cuore stesso di Konoha e da
tutto ciò che ho imparato in questi anni.
Qualcosa che le lacrime di Anko raccontavano fin troppo bene.
Per quanto possa essere spregevole; per quanto sia un essere
repellente e crudele, tu non puoi uccidere il tuo maestro. Non puoi macchiare le
tue mani e la tua memoria con un’azione tanto vigliacca. Un maestro è un tuo
secondo padre, perché educa qualcosa che la famiglia non può cogliere.
Un genitore ti mette al mondo e non potrà mai fare a meno di
vederti come una sua proprietà. Il maestro, invece, è l’artista che sgrezza
l’idea contenuta nel granito informe. È il primo adulto che ti riconosce come
tale, che ti plasma, che ti aiuta a essere davvero te stesso, senza compromessi
e ipocrisie.
Per questo, però, tu non potrai mai avere il coraggio di
ferirlo. E se lo fai – Gaara lo sa bene – ti porti dentro quella ferita per
tutta la vita.
Eppure Sasuke aveva ammazzato Orochimaru; non solo per la
propria sopravvivenza, ma perché ormai era arrivato al punto da sentirsi
superiore a tutto, persino all’etica di Konoha.
Mentre eravamo in marcia verso la Valle della Fine, Gaara
raccontò a Naruto un po’ di sé. Lo fece per dargli coraggio, credo, e per fargli
capire che non era stata colpa sua, se Sasuke era deragliato senza rimedio.
Il Kazekage della sabbia narrò di come avesse ammazzato
l’unica creatura che gli avesse dato un po’ d’amore. Di come quello avesse
devastato per sempre la sua capacità di guardare al futuro, perché se realizzi
con orrore che la tua esistenza è uno sbaglio, qualcosa da combattere e svellere
come imperdonabile obbrobrio, allora ti abitui a vivere a dispetto di tutto e
tutti. A farlo, piuttosto, per sfidare tutto e tutti.
È nella reciprocità dell’affetto che impari a riconoscere il
valore della vita: Gaara c’era riuscito ed era diventato un eroe amatissimo.
Sasuke, per contro, aveva rinunciato a quella via per
percorrerne una inversa, una strada scellerata bagnata persino dal sangue di un
delitto orribile.
E quasi me lo vedo, il mio Sasuke, nell’ombra di quel covo
spaventoso, muoversi con la pigra indolenza di una fiera in caccia. Orochimaru
pensa solo al momento in cui ruberà il suo corpo, i suoi occhi maledetti e la
straordinaria invincibilità della sua giovinezza, ma Sasuke ha appreso fino in
fondo la lezione che quel Serpente gli ha inoculato con il suo veleno.
Orochimaru ha ammazzato il Terzo Hokage. L’ha fatto malgrado
sapesse di essere più potente di un vecchio guerriero che aveva sempre amato la
pace; malgrado quelle mani callose avessero accarezzato i suoi capelli e gli
avessero raccontato una storia felice per annichilire la solitudine di un cuore
orfano.
E Sasuke, che pure di quel farmaco orribile si è nutrito,
sino a farne il latte di una nuova crescita, si muove entro il ventre di una
terra sterile, incontro al destino e all’omicidio. Non gli importa quanto
indebolita sia la preda: è il rito di un’iniziazione orribile, perché forse sa
che se il suo polso non tremerà mentre il chidori diventerà la lama che
squarcerà il petto del suo mentore e della sua nemesi peggiore, allora neppure
Itachi sarà più un ostacolo insormontabile.
Lo sharingan brilla nell’oscurità, come un faro crudele.
Passo dopo passo, con lentezza esasperante, l’esecutore scandisce immobile gli
istanti e i metri che lo separano dalla preda.
E gode, dentro.
Gode di quell’attesa e gode al pensiero del teschio stravolto
dalla sorpresa e dal terrore di Orochimaru, quando comprenderà che il gioco si è
spinto troppo oltre ed è finito.
Ora è davvero finito.
Quei pensieri mi percuotevano come raffiche di un vento
invernale, gelato e minaccioso, mentre la brezza estiva faceva ondeggiare le
chiome nerissime di Sasuke e di Itachi.
Fissavo quei suoi occhi rossi per non vedere proprio niente,
perché oltre quelle due polle di sangue rappreso non c’era più nulla di quanto
avevamo diviso.
Dietro ai suoi occhi, forse, io non c’ero mai stata.
Nota: approfitto di questo spazio per ringraziare ancora una volta Erika e la casa editrice UR per aver fatto del mio racconto Pelle Nuda il biglietto da visita della pubblicazione imminente, e così ringrazio quanti lo hanno letto e hanno speso bellissime parole per commentarlo.