Mio fratello cadde ferito a morte ed i nemici entrarono furiosamente in città.
Combattemmo per le vie, nelle case, ma invano. La rocca cadde e noi potemmo
appena salvarci con pochi fidi e con una precipitosa ritirata a Coutray.
Ditemi signora, avreste voi perdonato a quell'uomo?
Emilio Salgari, Il Corsaro Nero, Capitolo XVIII.
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IL GIURAMENTO
I lamenti dei feriti e le lugubri preghiere che s’alzavano dalla chiesa della città ammorbavano l’aria come un miasma malevolo che poteva, da solo, portare morte e disperazione nei cuori di chi li udiva; il cielo minacciava tempesta e il vento gelido, proveniente dal nord, spazzava le vie e le piazze deserte.
Courtray sembrava una città morta, e forse già lo era.
Benché fossero passati ormai alcuni giorni dall’ignobile tradimento e dall’infausto assalto che Tholen aveva subìto e gli spagnoli, soddisfatti, avessero rinunciato a inseguire i pochi fuggitivi superstiti, la guerra non era ancora finita.
Una figura era comparsa sul sagrato della cattedrale, scrutando le nuvole cariche di pioggia e offrendo alle raffiche il proprio volto pallido: non poteva avere oltre venticinque anni, anche se le ferite che gli solcavano il viso sembravano quasi invecchiarlo, e nei suoi occhi si potevano leggere tutta una serie di sentimenti che però non ne affliggevano l’espressione severa: dolore e rancore, questo si scorgeva nel suo sguardo fisso.
L’ampia casacca scura che indossava era strappata in parecchi punti, e sotto si potevano scorgere le bende candide, punteggiate di sangue, che ne bloccavano l’uscita, mentre al fianco teneva la sua spada.
Chi l’avesse visto, tra i soldati, non avrebbe potuto non riconoscerlo.
“Mi avevano detto che ti eri alzato, ma non immaginavo di vederti così in forma.”
Una voce risuonò alle spalle del giovane che non si voltò a vedere chi fosse; non ne aveva bisogno “Sono pochi graffi” replicò secco, senza staccare lo sguardo dal cielo plumbeo. “Le condizioni tue e di Amedeo erano molto più gravi.”
“Non siamo noi ad essere rimasti privi di sensi per una giornata intera.” L’accondiscendenza del tono dell’altro ne tradiva la stanchezza: “Dopotutto, tu eri…” Il nuovo venuto si morse il labbro inferiore, incapace di continuare a parlare.
“Vicino alle porte quando Wan Guld le aprì? È vero, ero con nostro fratello, ed è anche vero che sono stato colpito subito dopo di lui, però io sono ancora vivo, mentre Pietro giace ancora tra quelle rovine, insepolto.
Il nome del primogenito dei Ventimiglia portò con sé silenzio e dolore sui due suoi giovani fratelli.
“E per colpa di quel demonio, siamo stati costretti a fuggire come topi e a ritirarci con la coda tra le gambe, fuggendo disordinatamente. Abbiamo disonorato la bandiera che avevamo giurato di servire fedelmente.” Il tono del venticinquenne era amaro.
“Emilio, non siamo noi ad averla disonorata, è stato Wan Guld ad aver gettato il fango sul glorioso stendardo di Francia e su quello della sua stirpe. Abbiamo concesso la nostra fiducia a una serpe e per questo abbiamo pagato un prezzo altissimo, ma non gli permetteremo di farla franca. La guerra non è ancora finita, ci saranno altre occasioni.”
Emilio guardò negli occhi il fratello: anche a lui costava dolore dire una cosa del genere, glielo leggeva dentro.
“Enrico, di certo Wan Guld non sarà più con l’esercito spagnolo anzi, avrà già certamente lasciato l’Europa e si sarà rifugiato da qualche parte. Forse nelle colonie.”
L’affermazione del fratello non lo stupì molto: in fondo la sua era quasi una sorta di illusione a cui aggrapparsi nella convinzione di poter, un giorno o l’altro, fronteggiare quell’assassino che aveva strappato loro forse la persona più importante fra tutte.
“Andiamo a cercare Amedeo, dobbiamo parlare.”
§§§
Il vento freddo spirava impetuoso quel giorno come soffio di fiamma di un drago, portando con sé i lamenti di coloro che erano morti tra quelle che erano le rovine di una città un tempo ridente e florida.
Il fiume scorreva impetuoso e gelido lambendo la pianura sassosa battuta da forti raffiche, mentre il cupo stridere di un corvo solitario su uno dei bastioni riecheggiava angoscioso, del tutto simile a un lamento di morte.
E qualcosa nell’aria faceva presagire che l’oscura Signora, dopo esser giunta sin lì, vi fosse rimasta, come a sbeffeggiare chi era rimasto, un gelo che scivolava sin nel profondo dell’animo, una lama di buio che squarciava la luce, strappando il sottile filo che la legava alla realtà; era una sensazione, eppure era così reale il gelo che attanagliava ogni cosa, il sentore di abbandono e solitudine che permeava il luogo era talmente intenso da soffocare.
Tra i resti della rocca perduta solo pochi giorni prima, i fratelli superstiti vagavano come spettri, alla disperata ricerca di qualcosa: non si parlavano, non si guardavano quasi in viso eppure ciascuno di loro pareva sapere perfettamente dove fossero gli altri, battevano palmo a palmo il campo di battaglia, fermandosi di quando in quando a seppellire i corpi che riaffioravano dai loro tumuli di rocce e piombo.
E infine, trovarono ciò che cercavano.
Riunitisi attorno a ciò che restava di Pietro di Ventimiglia, massacrato da una mano che reputava alleata, che aveva infierito su di lui fin quasi a renderlo irriconoscibile anche agli occhi dei suoi consanguinei più stretti, i tre non riuscivano ad aprire bocca.
Con un gesto lento Amedeo, che non poteva avere più di vent’anni e che quindi doveva essere senza dubbio il più giovane, si sfilò, pur se con difficoltà, la casacca e coprì il viso del morto, chiudendo gli occhi a sua volta per non mostrare i segni della commozione che lo aveva assalito.
Enrico stava seduto su un pezzo di marmo scheggiato, con lo sguardo fisso sull’elsa lucente della spada che Pietro teneva ancora in pugno: neppure la morte gliela aveva strappata di mano.
“Una volta finita la guerra, anche se ciò dovesse costarmi la vita, ho intenzione di vendicarlo.”
Le parole di Emilio giunsero quasi inaspettate per gli altri due, che lo guardarono per parecchi istanti senza capire intanto che lui s’alzava in piedi, ergendosi in mezzo a loro, dal fianco del fratello che non aveva lasciato dal momento in cui l’avevano trovato.
“Con che coraggio posso lasciare che Wan Guld la faccia franca, quando tanti valorosi sono caduti per il suo tradimento? Non è accettabile.”
Amedeo ed Enrico si guardarono ma non replicarono in alcun modo.
“Anche a costo di cercarlo per tutta la vita, io giuro che lo ritroverò. Non sarò io a giudicarlo, ma coloro che lui ha ucciso o ha contribuito a uccidere.”
Il volto di Emilio sembrava esser stato scolpito nel marmo, tanto era il pallore.
“Io la penso come te.”
Amedeo si era portato accanto a lui, invitando anche Enrico a fare lo stesso. “Non importa quanto ci vorrà, ma voglio scovarlo.”
Le loro tre spade s’alzarono verso il cielo, legate dal solenne giuramento della vendetta.
Da quel momento in poi i loro nomi rimasero sepolti lì, a vegliare in eterno sui cadaveri di coloro ai quali avevano promesso di fare giustizia.
Da quel momento in poi la loro strada era tracciata.
"Il giuramento" di SHUN DI ANDROMEDA (KungFuCharlie sul forum)
giudizio di Satomi
1. Grammatica e sintassi.
L’autrice usa tanto le subordinate quanto le coordinate, conferendo alla
narrazione un buon equilibrio che, però, comporta anche dei difetti che saranno
specificati nelle sezioni stile e trama.
Non sono stati riscontrati errori di grammatica, quanto piuttosto un uso non
sempre corretto della punteggiatura, specie nei discorsi diretti, dove il punto
a fine frase è inserito sia dentro che fuori le virgolette (quando di regola
dovrebbe essercene uno solo). Vi è inoltre una sovrabbondanza di virgole che
spezzano eccessivamente le frasi anche dove non è necessario - es: “mentre al
fianco, teneva la sua spada.” - e dove invece sarebbe richiesto un punto e
virgola o un due punti - es: “Non si guardavano quasi in viso eppure ciascuno
di loro pareva sapere perfettamente dove fossero gli altri, battevano palmo a
palmo il campo di battaglia”; dopo “gli altri” andrebbe un punto e virgola.
“E nei suoi occhi si potevano leggere tutta una serie di sentimenti che però
non ne affliggevano l’espressione severa, dolore e rancore, questo si scorgeva
nel suo sguardo fisso”; dopo “severa” ci starebbe bene un due punti.
2. Stile.
L’autrice si serve di un lessico semplice senza apparire trascurato, che però
tende a farsi più elevato nelle introduzioni a ogni paragrafo. Questo
espediente, oltre che ad alzare un po’ i toni, tende però a appesantire la
narrazione e a diluire ulteriormente il ritmo già abbastanza lento di suo, pena
i periodi piuttosto lunghi.
In un paio di casi sono stati usati dei termini inappropriati:
“Se le ferite che gli cospargevano il viso sembravano quasi
invecchiarlo”. Il verbo “cospargere” indica qualcosa che è distribuito su una
superficie in maniera uniforme, poco adatto quindi a indicare delle ferite che,
tutt’al più, solcano il viso come rughe più profonde (nel caso si tratti di
tagli dovuti a colpi di spada.
““Con un gran clangore, le loro tre spade s’alzarono verso il cielo,
legate dal solenne giuramento della vendetta”. Il clangore è un rumore metallico
di una certa entità che, però, sembra improbabile possa essere prodotto da tre
spade sottili, neanche se si incrociassero (azione che non viene peraltro citata
nel testo). Si consiglia di togliere il complemento di modo.
3. Trama.
L’autrice ha scelto di focalizzarsi su un momento che, ne “Il Corsaro Nero”,
viene narrato indirettamente solo nel diciottesimo capitolo, sebbene sia il
fulcro da cui si scatena l’intera vicenda: il giuramento dei conti di Roccanera
sul corpo del fratello maggiore ucciso a tradimento dal duca di Wan Guld, e che
va vendicato a ogni costo.
L’andamento della narrazione è piuttosto lento, e si sofferma non solo sui tre
protagonisti ma sull’ambiente che li circonda. Anzi c’è un parallelismo tra il
paesaggio e i sentimenti che albergano nei giovani conti: il senso di
devastazione, di rovina, di morte è insito tanto in Courtray quanto nell’animo
dei protagonisti. Un espediente narrativo di cui lo stesso Salgari si è servito
più di una volta - basti pensare al giuramento del Corsaro Nero sul corpo del
Corsaro Rosso, quando il suo animo tormentato si rispecchia nei flutti agitati
del mare, allo stesso modo di quando il conte scopre l’identità dell’amata
Honorata.
La trama si sussegue in maniera lineare, senza particolari picchi, anche nel
finale, che se appare solenne manca però di enfasi e pathos: proprio in questo
punto, in cui dovrebbero convergere la rabbia e il rancore dei tre conti di
Roccanera, i dialoghi peccano di incisività e sono invece velati di malinconia.
Il desiderio di vendetta è espresso attraverso le parole ma non attraverso i
gesti e i moti del viso, che purtroppo mancano e tendono ad appiattire quello
che dovrebbe essere il momento culminante della storia.
Il giudice, inoltre, ha riscontrato delle incongruenze: il missing moment è
ambientato a Courtray che viene descritta come una città morta e sconvolta dalla
guerra, quando invece è il luogo dove i tre Roccanera, con il loro contingente,
si sono rifugiati precipitosamente dopo la battaglia alla rocca nei pressi del
fiume Schelda; Salgari non parla di un altro scontro anche a Courtray, dunque le
rovine fumanti sono inspiegate.
A accentuare l’incongruenza è la questione del corpo di Pietro di Ventimiglia:
se la scena è ambientata a Courtray e NON nella rocca ove si è tenuta la
battaglia, perché il suo cadavere si trova fra le rovine come se nessuno, in
quei giorni, se ne fosse occupato? Ritengo poco plausibile il ritorno repentino
sul campo di battaglia, specie perché fra Tholen e Courtray, almeno secondo
Google Maps, vi è la bellezza di 151 km (che comportava perlomeno quattro-cinque
giorni di marcia forzata).
In questo caso è richiesta una spiegazione da parte della stessa autrice,
qualora vi fossero punti che il giudice, nella sua umanità, non ha compreso o ha
frainteso.
4. IC/caratterizzazione dei personaggi.
Essendo la storia ambientata dieci anni prima degli avvenimenti de “Il Corsaro
Nero”, i tratti salienti del futuro omonimo filibustiere risultano appena
abbozzati, quasi covassero sotto la cenere in attesa di uscire fuori; in fondo
siamo ancora all’inizio, e sarà il susseguirsi delle disgrazie (ovvero la morte
degli altri fratelli) a far sprofondare Emilio di Ventimiglia in un baratro
sempre più profondo. Questo giovane conte si mostra come un autorevole fratello
maggiore, pronto a ergersi come pilastro per i due più giovani Roccanera, ma è
ancora lontano dal suscitare quel timore e quel senso di forte autorità che
invece lo caratterizzeranno nella sua vita di corsaro: se il pallore è
evidenziato dall’autrice non lo è altrettanto il famoso lampo che più di una
volta comparirà nei suoi occhi negli anni seguenti.
I futuri Corsaro Rosso e Verde, che Salgari mai descrive, sarebbero potuti
essere un ottimo terreno su cui l’autrice avrebbe potuto sbizzarrirsi, in quanto
a caratterizzazione. Purtroppo non è stato così: Enrico e Amedeo (i cui nomi
riprendono quelli che Sergio Sollima, nel film sul Corsaro Nero del 1976, dà a
questi personaggi) non hanno una personalità ben definita che permetta non solo
di dar loro corpo, ma anche di distinguerli l’uno dall’altro.
Il secondo e ultimo personaggio a comparire, seppur solo indirettamente
attraverso i pensieri dei protagonisti, è Wan Guld, ma in questo caso si sfiora
pericolosamente l’OOC: viene infatti fatto intuire che sia stato lui a infierire
sui resti di Pietro di Ventimiglia, rendendolo irriconoscibile. Questo, a parere
del giudice, non è un atteggiamento consono al duca fiammingo: se è vero che
Salgari non manca mai di sottolineare il suo tradimento e la sua vigliaccheria,
non bisogna dimenticare che lo rende anche un condottiero di valore e con la
fierezza tipica di un nobile, un degno avversario del Corsaro Nero; un uomo che,
pur con tutti i suoi difetti, non si sarebbe abbassato a infierire su un
cadavere. Non si spiega altrimenti perché, nel primo romanzo del ciclo delle
Antille, non abbia in qualche modo torturato o umiliato il Corsaro Nero quando
lo ha catturato grazie al conte di Lerma, anziché attendere di essere a
Gibraltar per impiccarlo.
5. Giudizio personale.
La storia, seppur indaghi su un momento fondamentale nella storia dei signori di
Ventimiglia, manca di un degno approfondimento psicologico dei protagonisti e,
soprattutto, di un tono più grave, solenne e incisivo che sarebbe stato adatto a
una tale occasione. L’autrice ha dimostrato proprietà di linguaggio e una
discreta abilità nello gestire la narrazione, però coi difetti sopra citati ha
fatto sì che le potenzialità del suo racconto non emergessero, limitandosi a
restare appena sopra la superficie.
In conclusione un lavoro più che discreto che, se da un lato delude un po’ le
aspettative, dall’altro promette una maturazione dell’autrice nello svolgersi
della trama e nello stile.
Voto: 23/30.