[Fanfiction
classificata prima al concorso "Pair 520" indetto da
Setsuka per il RoyEd day --->
http://freeforumzone.leonardo.it/discussione.aspx?idd=9913488&p=1]
(MI SCUSO PROFONDAMENTE, I DIALOGHI NON SI LEGGEVANO. Grazie a nemesi06 per avermelo fatto notare)
(A
mia nonna,
il mio mentore spirituale).
“Today
I introduced myself to my own feelings.
In
silent agony, after all these years,
they spoke to me.
After
all these years...”
[Anathema ~ Fragile Dreams]
“Un
giorno -mentre il Sole giocherellava con l’Etere,
solleticandogli il dorso e attendendo ai suoi risolini- la Luna, presa
dalle sue riflessioni e persa d’amore per il Mare, il quale a
sua volta volgeva gli occhi al cielo in cerca dell’argentea
compagna, chiese come potesse starsene lì sospeso a farsi
baciare dai suoi raggi, mentre in Terra tanti uomini si disperavano,
per varie ragioni. Scintillante della sua materia ancestrale,
l’Etere guardò la bella madre splendente e sorrise
impudico. Tendendo gli invisibili orecchi, il Mare e la Luna cercarono
di carpire i rari e flebili sussurri:
< Come tu sei d’argento il tuo amore è incolore;
come tu sei del cielo, lui è abitante della Terra;
come voi siete distanti l’uno dall’altro così io separo gli uomini dagli dei e gli uomini tra loro, affinché non siano tracotanti e pieni di sé.
Dono
loro una maledizione
che li mantenga umili: perché se potessero ottenere sempre
tutto ciò che anelano, prima di tutto gli uomini
desidererebbero essere immortali.
Ma
la morte è loro rifugio, il più grande traguardo,
il più potente anatema >”.
*
Se ne stava in
silenzio,
senza accorgersi che
dentro sé -in realtà- gridava.
E
stava strillando così forte da sentire un fastidioso dolore
psicosomatico alle orecchie, come se i timpani al solo pensiero fossero
saltati sulla difensiva. Cercò di ricacciare la voce,
deglutendo, ma si rese conto che era inutile: non veniva dalle corde
vocali; era dentro, la voce era dentro, dentro
strillava come un ossesso e non riusciva a smettere.
Affondò
dunque la testa in quel cuscino troppo poco soffice per i suoi gusti,
abbandonando la mente all’apatia, per quanto potesse essere
utile in quel momento...
Si guardò un istante attorno: quella stanza era bella per gli standard della zona Ovest della città, nella quale senza ricordare il perché si era ritrovato a girovagare, ed era così silenziosa che i suoi demoni riuscivano a risuonarci benissimo, una sorta di cassa di risonanza dell’amplificatore che rappresentava or ora la sua scatola cranica. In realtà, avrebbe voluto tornare a casa quanto prima, ma un temporale allagava le strade e gli impediva di metter piede all'esterno: probabilmente, però, non era solo paura di bagnarsi quella.
Probabilmente era il
senso d'inadeguatezza e
impotenza che la pioggia gli trasmetteva ogni volta a bloccarlo
lì, a tenerlo senza difese. Provò a distrarsi,
mentre la commiserazione scemava in disinteresse forzato:
tornò alla stanza. C’era tanta luce
e l’arredamento era essenziale ma curato, in pieno stile
Luigi XIV, immerso però nel bianco panna
dell’intonaco, che dava un tocco fine ma ricercato,
sicuramente d’avanguardia; specialmente, amava il colore
delle
pareti, perché -a differenza di quel bianco quasi accecante-
nella sua testa era tutto grigio e confuso, un’amalgama di
percezioni, suoni, colori e sentimenti medi, banali, senza pretese; grigio, né
bianco, né nero: i mobili risaltavano all’occhio
come strappati con forza all’oblio, spezzati dal candore che
violentava la stanza. Era una violenza interna e inaudita, che
camminava sotto il bianco strato delle mura e serpeggiava
nell’ombra, fino ad aggredire la vista.
Gli ricordava come, al contrario, la sua vita fosse sempre stata costellata di banali sotterfugi, come quel giorno, in cui aveva dovuto scegliere lo smoking per il matrimonio di Hughes, quando qualcosa lo straziava dentro e lui taceva, se ne stava zitto e buono, ignorava, socchiudeva gli occhi...
Blu, aveva preso un
abito blu scuro, ma non era nero, non era bianco, era semplicemente un
c o m p r o m e s s o.
Nulla mai di
stabile, di definitivo, niente mai di solido e duraturo.
Non riusciva a
vedere altro nella trafila di giorni, mesi, anni; continuava a scorrere
tutto velocemente e in modo sconnesso.
Avrebbe voluto
raccontare tutto a quel comodino nell’angolo:
sembrava antico, in noce, di buona fattura; chissà quante ne
aveva viste, e quante avrebbe voluto dirne
sui tempi moderni corrotti, sui valori perduti della società
di massa. Ma se ne stava lì, sembrava non voler esser
disturbato: no, era troppo altezzoso, non meritava l’onore.
L’attaccapanni
laggiù invece vedeva tutto da una prospettiva
troppo diversa, perennemente così in alto, guardava davanti
a sé senza mai voltarsi.
La spalliera del letto era invece in ottone laccato, e rifulgeva dei raggi della lanterna: era oro sfavillante, magnifica e umile, infinita, inafferrabile nei suoi gioghi e nodi, agrifogli, fiori, un lussureggiare di fiori intagliati nell’ottone e laccati d’oro puro.
Lei avrebbe ascoltato, lei aveva un ché di familiare e nostalgico...
Piccola e fulgida, esile, fine ma sobria, era quasi un richiamo a qualcosa di originario,
come se
volesse ricordargli alcunché di assolutamente ovvio e
necessario, ma che per ora gli sfuggiva...
Cercava di non pensarci troppo; la testa doleva pesantemente e il senso di assopimento dominava le sue membra quanto la mente.
Intanto, le grida
si
affievolivano e giratosi su di un fianco fissava le finestre opache e
il cielo buio e senza stelle: la pioggia tornava a ticchettare contro
la vetrata, scandendo i secondi più o meno regolarmente; il
riflesso della stanza era distorto dalle minuscole increspature striate
dal vento, come piccole cicatrici che lambivano la sua invisibile
pelle. Ma mentre quelle sarebbero sparite ai primi raggi di sole, il
moro rammentava di conservare sul suo corpo -quanto nel profondo della
sua anima- ben altre cicatrici, i segni indelebili della sconfitta e
dell'umiliazione.
Aveva perso la verginità un pomeriggio di metà ottobre, dopo l’ora di ginnastica, sentendo il fiato voluttuoso del suo aguzzino sul collo, la sua bocca baciargli le spalle e le grandi mani lungo tutto il corpo: da quel momento, il collegio maschile St. Joseph non fu più lo stesso per lui. Le incursioni notturne nella sua stanza, quei giochi sadici, violenti, intrisi di piacere e dolore lo avevano cambiato: scoprire il sesso era stato qualcosa di mortificante, inumano, esattamente l’opposto di come l’aveva immaginato.
Come in un circolo vizioso, prese addirittura a necessitare di quelle sensazioni: di mani che scorressero la linea dei suoi fianchi e occhi eccitati sulla sua nudità, qualcosa che potesse scuoterlo e contemporaneamente distruggerlo.
Forse avrebbe voluto solo morirci, e basta.
Maledisse il suo
aspetto, il suo corpo, la sua anima intera.
Quando poi -per l’ennesima volta- Erick Strepps pretese di fare del sesso nello sgabuzzino del collegio, sbattuto violentemente contro i ripiani della dispensa, ansimando -troppo forte per il suo orgoglio- contro quella mano sudicia, il corpo che pulsava tra le mani del più grande e il fluido che scivolava lungo le sue cosce nude, il senso di sporco e appiccicoso, legato a quello strano piacere che lentamente lo invadeva...allora, non ne potè più.
Tutto divenne mellifluo e incolore: si lasciò prendere, con lo sguardo vacuo, triste.
Era stato in quel momento che aveva smesso di opporsi a quelle attenzioni, lasciando che il biondo compagno di stanza lo straziasse fino in fondo, fino all’umiliazione, venendo e gocciolando tra il suo corpo e l’oscurità.
Aveva
continuato a sanguinare per tutta la lezione di storia e anche per
quella di geometria, in silenzio, a gambe strette e senza versare una
lacrima; non lo disse mai a nessuno.
Con
l’età, la giustificazione per la quale
“era troppo giovane per opporsi a quella tortura”
gli era sembrata -col
senno del “poi”- poco più che una
sciocca e banale scusa, usata solamente per non ammettere la colpa
peggiore per il suo ego: l’arresa. Aveva addirittura pensato
che la sua omosessualità fosse una qualche forma di disturbo
post-traumatico, dovuto alle ripetute violenze che aveva subito.
Ma lui di qualche
uomo si era realmente innamorato.
Quando
Maes Hughes lo aveva salvato quella volta, in caserma, e aveva
appoggiato la sua rissa, beccandosi la sua stessa punizione,
imparò che non tutti gli uomini erano animali e che allo
stesso modo oltre al sesso poteva esserci amore. Il suo carattere
-all'epoca docile e nonostante tutto d'indole ingenua- si sentiva
attratto dalla matura esuberanza
del collega, e sapeva che questo molto probabilmente significava
qualcosa. Tre
settimane dopo infatti si ritrovarono corpo a corpo nei bagni comuni,
contro la porta cigolante, verde, con i pantaloni slacciati quel tanto
che bastava e l’erezione dolorosa fra le mani del
commilitone, mentre quello scivolava con foga dentro di lui, con uno
sguardo perso e denso che non ricordava di aver mai letto negli occhi
dei suoi uomini. Mentre la porta sbatteva contro il chiavistello e dei
piccoli baci si posavano accanto al suo orecchio, le mani del compagno
premevano cariche di passione contro le sue natiche e poi in vita, a
stringerlo a sé. Quella fu la prima volta che
percepì qualcosa di diverso dal ribrezzo, quasi si sentisse
seriamente disposto a concedersi, quasi lo facesse con piacere e non
semplicemente per voluttà. Andò avanti per un
po’, e piano quella passione scemò in una forte e
affettuosa amicizia: anche se, in fondo al cuore, Roy sapeva che quella
era stata una rinuncia per entrambi, per salvare le apparenze, per
lasciarsi vivere. Un uomo maturo doveva capirlo...
Poi
erano arrivate le donne, le sue donne, le loro donne, e avevano segnato
la linea di
confine fra le loro esistenze.
Chissà cosa avrebbero detto coloro che lo accusavano di essere un donnaiolo perditempo, se avessero scoperto il suo piccolo segreto...
Ma era certo
che Hawkaye lo avrebbe gelosamente custodito, a costo di sparare a
qualcuno.
Chiuse ancora un attimo gli occhi, sorridendo all’idea di star rievocando così liberamente quei ricordi, forse per la prima volta in tutta la sua vita.
D’un tratto però si rese conto di qualcosa che prima d’allora non aveva notato: la conformazione della stanza, il colore delle pareti, il mobilio...
C’era
qualcosa di stranamente familiare: si guardò
meglio intorno, stralunato, cercando di non perdere
l’equilibrio nello scendere dal letto.
Somigliava
incredibilmente a quella stanza, quella
in cui lui e...
Quella in cui lui e
quella persona
si erano amati per l’ultima volta,
ecco...
Qualcuno da tenere sempre accanto, qualcuno di saggio e forte...come un vecchio comodino in noce.
Qualcuno
che vedesse tutto da un’altra prospettiva e che gli mostrasse
la vita sotto un altro aspetto, qualcuno come un attaccapanni.
In fine, qualcuno da ammirare, nei cui gioghi
perdersi nelle notti insonni, mentre la candela illumina il buio della
stanza...qualcuno come una lucida spalliera da letto dorata.
Ma quel luogo era
stato distrutto anni prima dalle fiamme, durante una ribellione, e ora
non esisteva più.
Allora,
dov’era?
Dove si trovava e
che posto era quello?
Era simile
all’anticamera del suo cervello, come stare immerso da capo a
piedi nella placenta originaria che partorì il mondo:
sentiva lo stesso assopimento, la debolezza...e sebbene fosse solo, no,
non percepiva il familiare senso d’abbandono pervaderlo come
sul campo di battaglia, né le grida strazianti dei feriti:
lì dentro era tornato il silenzio. Tuttavia, non era il
silenzio che ci si aspetterebbe dalla notte profonda, non era un logico
susseguirsi di ricordi, emozioni, ma un flusso di coscienza che
scioglieva i nodi della sua esistenza e fluiva, scorreva via, lontano
dalla sua mente.
Ovunque fosse, era
come rinascere.
Era come essere
rimessi al mondo e avere la possibilità di rivalutare tutta
la propria vita: rimanersene
lì per un po’ a bagnomaria nel brodo ancestrale,
starsene a riflettere sulla propria esistenza e tirarne le somme. Ma
era davvero questo che stava succedendo? E perché,
perché c’era qualcosa di sfuggente e lontano che
non riusciva a ricordare?
Cos’era
successo al suo corpo? Era forse morto, così, nel sonno,
senza nemmeno rendersene conto, senza dare un estremo saluto ai suoi
cari? Era così, era morto da vigliacco?
Era morto, senza ammettere a se stesso e agli altri il suo essere
codardo, continuando a negare quelle le sue inclinazioni, quelle sue vicende,
che
un tempo avrebbe detto lo rendessero
un po’ meno uomo?
Ma soprattutto...
Perché quella stanza somigliava a quella in cui poco meno di un anno prima aveva amato quella persona anima e corpo, prima che il suo viaggio lo allontanasse ancora una volta da Amestris?
In uno spasmo, si strinse nella sua indistinta figura, al centro del pavimento: ricordò come egli avesse parlato in quell'occasione, come i suoi occhi scintillassero a quegli argomenti, ignorando beatamente i suoi sentimenti. Egoista, si era detto, come se stesse in quel momento compiedo il peggiore dei peccati: in fondo partiva anche per lui, per il bene della nazione e dell'umanità. Ma...
Quella
sensazione piacevole e ovattata si era intanto trasformata in un
pensiero
fragile e scarno, duro da assimilare, impossibile da ammettere: che
fosse morto senza rimettere alcun peccato, senza presentarsi alla sua
coscienza, un eretico nella chiesa delle anime lorde e redente..?
Oh,
ma quello poteva essere anche il suo Purgatorio, dove immemore avrebbe
cercato per un tempo incalcolabile di restituirsi a se stesso, avrebbe
continuato a ricordare, a distruggere quell’immagine che
aveva creato di sé; ammesso che potesse esistere il
Purgatorio, e che lui avesse i requisiti giusti per andarci...
Ricordò
in quel momento un pensiero, lo stesso che poco prima scappava come
rincorso dal vento: era più di tutto una specie di r
e d e n z i o n e ,
qualcosa che -diresti- val la pena di pagare con qualsiasi fio. Un
qualcosa, qualcuno di simile ai raggi di sole attorcigliati a quelli
della luna, in un’infrangibile catena di bellezza umile,
disincantata, incosciente della propria forza.
Biancolatte e miele...
Solo questo riusciva
a ricordare, il contrasto dell’oro contro la bianchezza
più accecante.
Se lo ripeteva
convulsamente, come fosse la chiave per dischiudere i cancelli della
sua mente a quella memoria instabile, avvolta da un
alone di candida innocenza.
Oltre la nebbia che
gli si parava davanti, si schiudeva la semplice figura ora
cristallizzata in quelle parole: spinse contro l’assopimento
delle gambe, cercò di alzarsi, di andare incontro alla
nebulosa per tastarne l’aura lucente. Mosse le braccia come
per nuotare in quel liquido incolore, tentò di spostare quei
fastidiosi vapori che ostacolano la vista, e in fine giunse a vederlo, etereo, avvolto dalla luce come un
cherubino: che al fine della sua vita, dopo tutta
quell’agonia, avesse davvero incontrato un angelo?
Era d’un
biondo dorato, la pelle chiara, le palpebre chiuse dalle ciglia
lucenti, e dormiva, o almeno così gli sembrava. Avrebbe
voluto avvicinarsi abbastanza da accertarsene, toccarlo, scostargli
quei biondi capelli dalla schiena, scoprire la sua nuca, quella guancia
piena e sicuramente morbida, ma il terrore che potesse sparire e
così gettarlo di nuovo nell’angoscia lo
bloccò.
Così
bello... Si ripeteva.
Fuori di
lì non era mai riuscito ad ammetterlo: ebbene, che fosse
quella l’occasione datagli da qualche essere primordiale e
supremo, qualcuno, qualcosa (non
importava il nome datogli dall’uomo) in grado di redimere la
sua anima e lasciarlo per sempre a godere di quell’immagine
celestiale? O più semplicemente eccolo, in un monologo
sciocco, insensato, un colabrodo di pensieri e azioni mancate: eccolo
che parlava a sé di se stesso, e tirava le somme della sua
infima esistenza. Ecco anche i suoi affetti riaffiorare piano,
altrettanto instabili, la sua parte irrazionale sopita tanto a lungo,
come il giovane avvolto dalla luce.
La sua anima, a
confronto con l’uomo che aveva deciso di essere,
isolando quanto di
umano risiedeva in un cuore vivo.
Era un dialogo muto
coi suoi sentimenti, mentre migliaia di immagini scorrevano davanti ai
suoi occhi, ricordandogli come e quando avesse iniziato a pensare che
una piccola percentuale di sé doveva essere votata alla
felicità.
Così
finì per ricordarsi davvero di Edward, di tutto quello che
gli aveva insegnato da quel giorno di tanti anni prima, quando monco,
mezzo morto, gli aveva trasmesso l’essenza vera del fuoco e
la sua inestinguibilità, prima con uno sguardo, poi con la
sua stessa esistenza. In confronto il suo sembrava un fuocherello
fatuo, una fiamma blu e opaca, artificiale e fredda: gli aveva
trasmesso che un vero fuoco è caldo, arde, si innalza al
cielo provocatorio e sfida le divinità per segnare il
proprio destino.
Poi, poi niente.
Poi
l’aveva lasciato crescere e vivere secondo i suoi desideri,
senza forzarlo mai, né lasciar affiorare quella parte tanto
umana, troppo umana, che avrebbe voluto gridare quanto e da quanto lo
amasse. Aveva soffocato prima la rabbia e lo sconforto,
l’angoscia, il rimorso di un assassino; poi allo stesso modo
aveva rinnegato la passione, lo strazio, l’amore di
un’anima sola: quindi, cosa rimaneva di lui, se non quel
fantoccio di carne, gettato nel buio pozzo della sua mente, o altrove,
privo di sentimenti e quindi, di vita?
Ed eccoli i primi
raggi, a far capolino dalla finestra: erano simili a quel giorno, nel
suo ufficio, quando lo trovò di fronte alla scrivania del
suo studio, col sole attorno, negli occhi, ovunque... Si
ricordò di quelle mani alzate verso l’alto, a
catturare un nastro di luce nel quale minuscoli granelli di polvere
danzavano a migliaia. Loro invece, soli, trasportati dal vento e dalla
vita.
Sì: non
attendere che la Vita arrivi,
perché
essa non aspetta mai...e ti corre avanti senza sosta, diventando
un’immagine sbiadita e
lontana.
Gettò un
occhio alla finestra ancora una volta: c’era qualche raggio
soffocato e pioveva, pioveva a dirotto. Quindi rivolse lo sguardo al
pavimento, dove una minuscola increspatura, una crepa, spaccava il
liscio e perfetto granito.
Se ne avesse avuto
la possibilità, chissà, magari anche in un'altra
vita, avrebbe voluto dirglielo a Edward, che l’amava, che
l’aveva amato sempre, anche quando non avrebbe dovuto e che
avrebbe
continuato pur non potendo.
*
Dal corridoio
echeggiavano i suoni lontani delle sirene, i campanelli delle stanze e
la voce dell’infermiera di turno al microfono. La camera
però era tranquilla, e le tende tirate permettevano a
qualche raggio lunare di filtrare quanto bastava per evidenziare i
contorni degli oggetti. Non che nelle ultime quattordici ore si fosse
mosso più di tanto, giusto per necessità
biologiche... Fatto stava che non aveva mangiato e nemmeno aveva
appetito: quello che si prospettava davanti ai suoi occhi aveva il
potere di chiudergli la bocca dello stomaco, e molto di più.
< Sta
male >.
Erano bastate queste
parole a gelargli il sangue nelle vene, proprio mentre lei continuava
affaccendata ad amalgamare quei suoi maledetti ingredienti.
< Hai capito,
Edward? Il Colonnello sta male >.
Gli occhi bassi,
sulle sue mani appiccicaticce, triste e imperiosa, quasi con
espressione mesta ma trionfante. Il Colonnello sta male...
Un telegramma aperto
sulla tavola, accanto alle mele sbucciate: lo prese titubante,
meccanicamente, senza collegare le parole al loro vero significato. Il
viso di Winry era contratto come sempre al nome di Mustang, ma lasciava
trasparire una fiera vena sadica, quasi avesse ottenuto gli esiti di
una vendetta. Quell’uomo tanto più grande gli
aveva tolto il suo Ed, e questo gli faceva meritare
il peggio dalla vita.
Gli ci volle qualche
istante per comprendere davvero, riprendersi e scappare, prendere il
primo treno e realizzare finalmente ciò che quelle parole
volevano lasciar intendere.
Se muore ha perso, dicevano, avete
perso tutti e due.
Quindi ora fissava
quello che non era né un padre, né un collega,
né un compagno d’armi...
Lo fissava e basta,
il capo fasciato fino agli occhi, i capelli neri arruffati sotto le
bende e un pallore così forte da contrastare col blu del
pigiama a tinta unita. Cos’erano loro in fondo? Se
l’era chiesto anche qualche ora prima, quando si era
rifiutato di lasciare il capezzale del moro: eppure, c’erano
tanti altri che avrebbero avuto mille e più ragioni di lui
per stargli accanto. Quest’idea lo innervosiva, o forse
più, lo nauseava: sapeva che -per come la pensassero gli
altri- il Colonnello avrebbe voluto ci fosse lui al suo fianco. O forse
questa era solo la sciocca pretesa che aveva di accaparrarsi non solo
il suo amore, ma anche i suoi ultimi attimi di vita.
Solo
perché avevano scopato un paio di volte, non significava che
fosse il suo uomo, in fondo.
Erano solo le sette
di sera, ma il buio li avvolgeva, il silenzio spezzato unicamente da
quel bip-bip che scandiva i battiti del cuore dell’uomo: se
mai si fosse svegliato, gli e l’avrebbe fatta pagare.
Prendersi un tumore al cervello a quasi quarant’anni, facendo
preoccupare tutti a quel modo. Ma sì, si disse, lui avrebbe
voluto che ci si scherzasse sopra, aspettando che finalmente aprisse
gli occhi e iniziasse a prendere in giro chiunque nella stanza...
Ma -ammesso sempre
che si svegliasse- avrebbe avuto molto da dire, entrambi avrebbero
dovuto.
“A Edward
Elric, L’Alchimista d’Acciaio, lascio il mio
orologio d’argento e i documenti sulle ricerche condotte fino
ad ora, per un valore complessivo di 520 centz”.
Aveva organizzato
tutto per bene, l’idiota... Il notaio, il testamento, sapeva
che tutti sarebbero accorsi alla notizia improvvisa della sua malattia,
e si era tenuto dentro quel segreto per chissà quanto:
tant’era, che nessuno era riuscito a vederlo cosciente. Era
andato in ospedale con le sue gambe e si era sottoposto a quella
maledetta operazione per asportare il cancro, da solo.
Edward tentava di
dar senso a tutto quello, al fatto che nonostante pensasse di
conoscerlo, quell’uomo assurdo continuava a stupirlo e a
fargli del male, con quei suoi gesti tragici e autolesionisti.
Chissà quante volte l’aveva pensato, senza
però accettare mai totalmente il significato di quelle
parole buttate lì, in un attimo di nuda
sincerità: l’amava, l’amava sul serio,
l’amava per tutto e per niente, senza giustificazioni, senza
una vera ragione, senza compromessi. Non che se ne rendesse conto solo
ora: più che altro, era come se solo in quel momento avesse
avuto il coraggio necessario per mostrarsi nudo ai suoi sentimenti,
pronto ad abbracciarli come una condanna, ma anche il dono
più bello. Non era stato solo sesso, non per lui almeno: se
gli e l’avessero detto qualche anno prima, che avrebbe perso
la verginità con Mustang, probabilmente sarebbe scoppiato a
ridere. Ma ora lo trovava tragicamente ironico.
Gli prese la mano, stringendola come se fosse la prima volta nella vita, con la stessa titubanza di chi teme di svegliare qualcuno che dorme: ci si adagiò con la guancia. Lo amava.
Lo
avevano fatto una sera d'inizio Dicembre, mentre fioccava e le luci dei
lampioni fendevano i marciapiedi ghiacciati. Lui tornava da una
missione a Xing, ed era lì per consegnare il rapporto: ormai
era tardi, tutti i soldati si erano congedati ed erano tornati nei loro
alloggi. Loro invece si erano trattenuti, parlando insolitamente
d'alchimia, spedizioni e viaggi e perdendo la cognizione del tempo: era
stato un discorso serio, ma piacevole come mai ne avevano fatti.
Probabilmente perché a quell'ora non era rimasto
più nessuno al Quartier Generale, e non avevano bisogno di
alzare le solite barriere o di indossare maschere; in quel
momento erano solo due amici che chiacchieravano tranquillamente.
Quando ormai il cielo era scuro e la luna alta, Edward decise che era
meglio tornare al suo alloggio, che ancora condivideva col fratello
Alphonse. Ma ad un tratto, mentre si accingeva a infilare le
maniche del cappotto, sentì la sedia del Colonnello
scricchiolare, poi i suoi passi veloci arrivargli alle spalle: per un
attimo, una frazione di secondo, ebbe un capogiro e il suo corpo si
bloccò, esattamente quando le braccia del più
grande si strinsero attorno ai suoi fianchi. Il suo cuore
tremò, non solo per il panico, ma soprattutto
perché riusciva
a capire benissimo non solo le intenzioni, ma anche le
motivazioni che spingevano il moro a quell'abbraccio, a quell'attimo
sconfortante, ambiguo, di debolezza. Questo gli impedì di
opporsi, e si fece amare: sapeva che qualunque cosa stesse succedendo,
era anche lui a volerlo. Caddero completamente le barriere, e in poco
tempo le grandi e calde mani di Roy gli affondarono vittoriose sul
petto glabro, sfiorando quella pelle meravigliosa ed eccitando il suo
corpo vergine: schiacciando tutti i punti giusti, riuscì a
spogliarlo, a farne un sensibile amante fra le sue braccia, facendolo
venire tra le sue labbra e rendendolo pronto ad accoglierlo. Fecero
l'amore più volte, tra la scrivania e il divano, col fuoco
che scoppiettava nel camino e la luce che andava via a causa della
bufera, in modo romantico e delicato; lo aveva toccato come si fa con
un fiore o una donna, con la gentilezza dei suoi tocchi, dei suoi
sguardi, dei baci che gli schioccava lungo la linea del collo. Edward
non aveva avuto dubbi che tutto quello fosse fatto con una certa
esperienza, impregnata però di sentimento: quale che fosse,
gli concesse di fargli l'amore fino in fondo, gli donò tutto
se stesso e ricevette il più grande piacere che avesse mai
provato. Sentì soddisfatto l'erezione che era riuscito a
provocargli, e piano percepì la penetrazione, il senso di
pieno, il movimento lento e intenso del suo bacino. Quando gli venne
dentro sentì i loro animi fondersi, mentre preso dai suoi
spasmi macchiava la moquette.
< Come se potesse cambiare le cose, neh... > Sorrise sconfortato, guardandolo in viso, gli occhi socchiusi e l’espressione vuota. Ora si sentiva davvero in colpa per averlo abbandonato così a lungo, anche se per una causa così importante: che fosse già consapevole della sua malattia all'epoca, e lo avesse lasciato partire comunque? Questa domanda lo assillava, assieme ai sensi di colpa.
< Sei un idiota...
>
Dovevano arrivare a quel punto per stare un po’ insieme e lasciare che tutto facesse da sé, che quelle sensazioni si lasciassero riscoprire e tutto fosse finalmente chiaro, alla luce?
Se ne voleva davvero andare così lasciandogli un secondo debito da saldare, nei confronti del suo cuore?
520...sapeva
benissimo, aveva
cercato, l'aveva capito sin da quell'abbraccio; 520 significava che
c’era ancora una speranza per
entrambi.
Tutto
però gli moriva nel cuore vedendolo lì inerte e
irriconoscibile.
Dentro sentiva straziarsi; l’impotenza -quella sensazione che aveva da sempre conosciuto così bene- iniziava lentamente a pervaderlo, fino a prendere il sopravvento sulla sua lucidità: meccanicamente si ripeteva “sodio, acqua, ammoniaca...”
E c’era altro che non riusciva a ricordare; “...ammoniaca e...”
Riprese a guardarlo: “e...”
Avrebbe potuto morirgli in grembo, proprio in quel momento, nel tentativo incosciente di commettere per la seconda volta quel peccato, ma questa volta non con l'incoscienza e il puerile desiderio di rivedere la propria madre, bensì con la matura disperazione di un amante dal cuore lacero.
Chiuse gli occhi, lucidi, continuando a stingere la sua mano: le palpebre erano pesanti e gonfie, avrebbe voluto dormire, avrebbe voluto piangere.
Il tic, tic del macchinario continuava a scandire i secondi, le ore; poi improvvisamente cessò.
Tutto ad un tratto
non sentì
più niente: non c'erano rumori né echi lontani;
tentò di combattere il tepore e
l’assopimento che dominavano le sue membra, cercò
di
alzare le palpebre, ma
tutto era così bianco e accecante...
Vide
Roy steso lì, nudo, concentrato su una piccola crepa del
pavimento.
< Sai > sussurrò
sentendolo arrivare < gli oggetti qui
dentro somigliano tanto alle persone... >
Sorrideva nel modo
stupido ma profondo di sempre. Non comprese appieno le sue parole.
< Gli
oggetti? >
Si guardò
intorno: in una stanza spartana, dalle pareti bianche, sulla destra
troneggiavano un letto e un comodino di fattura antica, mentre a
sinistra solo un semplice attaccapanni; sulla parete frontale,
infine, un’unica finestra si apriva su un boulevard
poco
illuminato; mancava anche la porta. Di fuori, notò,
c’era qualche raggio soffocato e
la pioggia disegnava strani profili sul vetro appannato.
< E
lì fuori? > Chiese il biondo,
avvicinandosi un po’ a lui, con la cautela di chi non sa a
cosa sta andando incontro.
Il moro lo
fissò per un secondo, quasi sconfortato dal vederlo
lì; fece
spallucce, tornando a passare l’indice sulla piccola
spaccatura. Edward istintivamente si accostò alla finestra e
osservò come la flebile luce del lampione fendesse il
marciapiede.
<
E’
bello, piove... Il profumo della pioggia e del terreno umido,
è così... > La voce gli
morì in gola, vedendo come lo ignorasse e chiedendosene il
perché.
Ma certo, la pioggia;
la pioggia
che tanto lo spaventava, che lo rendeva inutile, inerme...
Si zittì,
per tornare poi a guardarlo in modo interrogativo. Dove diavolo erano?
Era un sogno o quel posto esisteva davvero? Quel posto che somigliava
tanto a...
<
E’
per questo che non esci? >
Ma quello non
rispose, si rannicchiò meglio al centro della stanza, con la
spalla destra contro il pavimento candido, del colore dei fiori di
vaniglia: era come catalettico. Gli si inginocchiò
accanto: d’un
tratto si
rese conto di essere egli stesso nudo, ma cercò di non
lasciarsi andare, di mantenere il controllo della situazione; si
accoccolò quindi alle sue spalle, avvolgendo la
destra intorno alla sua vita e poggiando il viso contro la sua schiena.
< Ho freddo,
sai > disse noncurante
della sua indifferenza. < Mi
abbracceresti? >
Il moro,
meccanicamente, si
voltò verso di lui e lo strinse fra le braccia con
l’espressione sofferta di chi si sente ingannato.
< Sei
reale? > Chiese poi,
monotono,
stingendolo a sé abbastanza da far aderire i loro petti nudi.
< Tu lo
sei? > Rispose il biondo,
mentre qualche lacrima gli rigava il viso, sottile e mesta: era davvero
un sogno o quello che ora lo stringeva era l’uomo che amava
da sempre?
Non ricevette
risposta, sentì semplicemente la morsa stringersi e
l’ebano dei capelli scivolare sulla sua spalla, trovando
rifugio nell’incavo del collo.
<
Perché
sei qui? E perché ci sono anch’io? > Chiese, e ancora
una volta
Roy scosse le spalle.
< Non
so > sussurrò
a malapena.
Edward
ricambiò l’abbraccio, cercando di capire come
agire e se fosse davvero possibile abbandonare quel luogo surreale.
< E se
uscissimo? > Domandò,
come per
risvegliarlo da quello stato comatoso.
Il moro
gettò un’occhiata alla finestra, mentre
più copiosamente la pioggia scivolava, fitta,
incredibilmente fitta. Roy gli si strinse ancor più in
grembo, come non volesse staccarsi da lui.
<
Oh...capisco.
Quindi è per questo che sono qui? Son venuto a
prenderti? >
Ma perché io? Si chiedeva contemporaneamente.
Lo lesse lì, il perché, in quegli occhi neri così vacui ora rivolti al suo viso.
Era a quello che aveva pensato in tutto quel tempo, era quello che quella crepa nel pavimento gli sussurrava, mentre la osservava rapito?
E
quegli oggetti, quelli di cui parlava, somigliavano...a lui?
Gli carezzò il viso, spostandogli la frangia dalla fronte, per poi baciarlo dolcemente, come per dirgli “non devi avere paura adesso”.
Tenendogli stretta
la destra attorno,
l’aiutò a sollevarsi, accompagnandolo alla
finestra: si sedettero sul davanzale, a qualche candido metro di
distanza.
< Ti
amo... > Buttò
lì, molto serenamente. L’altro sorrise, gli occhi
bassi al pavimento.
< Lo so
> rispose poi,
corrispondendo alla sua stretta.
< Allora potrai sopportare un po’ di pioggia per me? > Aggiunse indicando la finestra, in un sorriso.
Roy
guardò l’uno e
l’altra, cercando di capire dove quell’illusione
volesse condurlo. Ma in fondo, cosa importava? Baciò il
fantasma di Edward sulla fronte, mentre con la mano libera forzava la
maniglia della vetrata alle loro spalle. Una folata di vento
scompigliò i loro capelli, mentre le gocce inumidivano le spalle e i
visi: lo portò a sé,
baciandogli le labbra.
<
Anch’io
ti amo >.
L’attimo successivo fu un baratro, la sensazione di cadere, di scivolare al suolo, ma piano, come una piuma trasportata dal vento.
Stava morendo?
Se davvero era così, ora poteva dirsi in pace con se stesso.
*
Era di nuovo tutto
oscuro: fuori c’era ancora la luna luminosa, sentiva i suoi
raggi infiltrarsi tra le ciglia degli occhi semischiusi; fortunatamente
la luce accecante di poco prima si era spenta, mentre un rintocco
familiare fendeva il silenzio. Sussultò, spalancò
gli occhi e si sollevò dal materasso dove si doveva essere
adagiato.
< Ed...
>
sussurrò
una voce roca.
La pioggia umida non
era altro che il passato, che fluiva come veleno nella sua mente e
ammalava quel corpo già martoriato: era la linea di confine
fra l’uomo che era stato e quello che Edward gli
aveva insegnato ad essere, una maledizione che bloccava la sua alchimia
e il suo cuore. Ma se ci si fosse immerso, affrontando il vuoto, la
paura, lo sconforto, avrebbe potuto convertirsi in un farmaco
miracoloso contro la solitudine. Per questo, gli urgeva la sua
metà, l’anima che aveva perso e ritrovato,
l’essere che aveva lui stesso risvegliato e riportato alla
vita tanti anni prima.
< Dottore!!!
Infermiera!!! >
Oh, poteva davvero un anatema salvare la vita?
[Fine]
Scrivere le note è sempre la parte più difficile, almeno per me, almeno per certe storie.
Questa è un one shot psicotica, basata su molti dei principi della scrittura schizofrenica d'avanguardia del primo '900: quindi, non ho pretese, se non quelle di spiegare come e cosa vuole intendere.
Roy è malato di cancro, e vede e sente le cose in maniera diversa, con una semplicità che una persona sana non può realizzare. Poiché ho preso come modello una persona che realmente è in questo stato, credo di potermi prendere la licenza poetica che ho assunto e cercato di portare a termine con coerenza. Edward invece viene immerso nel mondo del suo amato, viene quasi assorbito dalla malattia assieme a lui, e lo riesce a trarre fuori dal baratro... Ovviamente ambientata dopo la fine del manga, circa tre-quattro anni dopo (non sono brava nei calcoli, la matematica per me è ostrogoto antico): a dogni modo, è ambientata all'incirca un anno dopo l'inizio del viaggio di Ed e Al separatamente, a fine manga, regolatevi! Non sono donna di scienza, non ho voluto fare riferimento alla religione o alla trascendenza, credo soltanto che due anime legate si cercheranno sempre, si troveranno, si desidereranno (e Platone lo diceva ben prima di me). Quindi spero di non aver annoiato nessuno, e anzi, di aver fornito un nuovo punto di vista, in uno stile che -davvero- non mi appartiene e che è frutto di un personalissimo esperimento.
Love, kisses and angst <3