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Autore: Kokato    10/10/2011    5 recensioni
SECONDA CLASSIFICATA AL CONTEST "PAIR520- CELEBRATE ROYED DAY" DI SETSUKA, Premi Miglior Future-Fiction, Roy Side” e “Miglior interpretazione della citazione”.
Partecipante al “The One Hundred Prompt Project”: Prompt 71. Orgoglio
“Addio” aveva sussurrato, ancora.
Le urla di un ragazzino lo pungevano, l’odore di ferro lo stordiva.
Provò a descriverlo a sé stesso. Lo imprigionò come una creatura nella sua mente, nella consapevolezza ruvida e dolorosa che non l’avrebbe rivisto mai più.
Era bello… e… e… cos’era poi?
Avvenne il processo strabiliante col quale si forgia una leggenda.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altro personaggio, Roy Mustang, Sorpresa | Coppie: Roy/Ed
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Partecipante al “The One Hundred Prompt Project”: Prompt 71. Orgoglio

Seconda classificata, Premi Miglior Future-Fiction, Roy Side” e “Miglior interpretazione della citazione” nel Contest “Pair520- Celebrate RoyEd day” di Setsuka.

 

 

 

 

“Potresti averlo visto, sai?”.

Il ragazzo osservò l’uomo sulla poltrona, torcendosi il petto con il suo precoce intuito, senza arrivare a capire cosa esattamente intendesse. “Non capisco”. L’uomo sospirò, roteò gli occhi bianchi nelle orbite mentre congiungeva le mani. Ci si poteva aspettare un racconto di guerra da lui, di sangue e polvere da sparo, di commilitoni affogati nel fango insieme alle loro promesse, di eventi che non dovrebbero ripetersi ma che si ripetono continuamente nei racconti degli uomini come lui.

Il ragazzo non si era aspettato una storia d’amore.

Non da un Signore della Guerra, che le persone rifuggivano e che relegavano in un angolo oscuro del mondo, con rispetto e repulsione. La luce della finestra non lo illuminava, i libri negli scaffali dietro la sua schiena incombevano su di lui da una dimensione separata che, protendendo la mano, non avrebbe potuto toccare. Una storia d’amore non era prevista, strideva tra le pieghe del suo viso e pesava troppo sulle sue spalle curve. “Non lasciarti abbindolare, figliolo.Vorrei che nessuno più facesse il mio errore”.

“Com’era?”.

L’uomo accolse la sua domanda abbracciandola con il corpo che si piegava, collassava. Rise, tossicchiando. “Lui era l’orgoglio”.

“Era orgoglioso, vuole dire?”.

“No…” sorrideva, sfiorò il suo quesito con un respiro rantolante, assorbendolo quasi fisicamente, trovando insufficiente la sua ipotesi “Non era una parte, non era un frammento. Lui era tutto orgoglio, ne era pieno fino all’orlo, tutto ciò che rimaneva vuoto in lui ne veniva pervaso …“

Le parole non lo riempivano ormai, nello stomaco, nella mente, nello spazio vuoto che sentiva sotto la pelle da decenni. Una perdita che non accettava definizioni semplicistiche, che fremeva e non lo accontentava, che si adagiava sul giaciglio della sua gola rauca per un momento che sembrava definitivo, ma che non lo era mai davvero. Il ragazzo aveva intuito sufficiente solo a modellare una forma indefinita di lui, di metallo grossolano privo di meccanismi che sappiano mantenerla in piedi, che la rendano verosimile. La creatura prese forma nella sua mente in un istante definito, fuori da analisi, osservazioni, processi mentali.

“… Ed è questo che me l’ha portato via”.

He was more than beautiful

Closer to ethereal

With a kind of down to earth flavour

Anybody seen my baby?- Rolling Stones

 

 

 

Sarebbe dovuto accadere prima o poi.

Quel luogo era tetro e oscuro, pieno di suoni sibilanti e piante che frusciavano, misteriosamente, attaccandosi alle gambe e di pericoli che non valevano il compimento della sua impresa. Era solo un gioco, non meritava di essere divorato, e neanche di essere denunciato. Il ragazzo sapeva che una creatura sarebbe giunta a cacciarlo via, o a chiedergli cosa ci facesse lì -Umana, non umana, probabilmente non era un requisito importante, in ogni caso mostruosa, assurda, da cui non si poteva fuggire-. Con le liane attaccate alle braccia enormi, magari, penzolanti e pronte a ghermirlo.

Il ragazzo lo sapeva, l’aveva visto negli sceneggiati alla televisione, andava sempre a finire così. I suoi amici se n’erano lavati le mani, avevano ridacchiato e detto che toccava a lui recuperare il pallone che aveva spedito dritto nel giardino del maniero lì vicino. Il proprietario del prezioso giocattolo lo aveva fissato a braccia conserte, senza osare di andarlo a recuperare lui stesso. La ragazzina che gli piaceva sorrideva seduta sul muretto che cingeva il campo asfaltato, sgambettando con le gambe coperte da calze bianche fino ai polpacci, sotto una gonna a pieghe. Le scarpe rendevano minuscoli i suoi piedi, come una specie di monito alla sua pessima mira.

Non lo aveva fatto apposta, gli tremavano le ginocchia e lo avrebbe volentieri lasciato dov’era, se solo non si fosse sentito messo alla strette dalla promessa che, se non lo avesse ripreso, lo avrebbero denunciato. Non sapevano neanche cosa significasse, ma la parola non aveva un bel suono e sicuramente lo avrebbe intimorito. Il giardino era privo di cure, oscuro, folto e dava l’impressione di vibrare un po’ sotto i suoi passi, richiudendosi in sé stesso. Era entrato attraverso un buco nel muro di recinzione. Si diceva che lo abitasse uno stregone, o un Signore della Guerra accigliato e scorbutico che vedeva un nemico in ogni essere vivente, e che riservava ai suoi nemici le care, vecchie pene corporali cadute in disuso ai loro tempi -o almeno così aveva raccontato sua nonna, con il tono da storia dell‘orrore che s‘insinuava nelle ossa, strisciante-. Aveva la casa piena di arti presi in premio nelle numerose battaglie da questi combattute, capelli in piccole boccette appese alle pareti, qualche cadavere in una cella frigorifera giù nello scantinato, vestiti di tutto punto. C’erano due domande che questi rivolgeva alle sue vittime, ed una pretesa. Con la prima domanda, viscidamente, tentava di carpire il tuo nome, di confrontarlo con una misteriosa lista dei nemici e dei Generali nemici che doveva combattere, impressa nella sua mente indelebilmente e con precisione maniacale. Per qualche strana ragione, la vittima risulterà sempre essere il Comandante di un battaglione nemico, meritando un invito al duello di spada. A quella domanda non si doveva mai e poi mai rispondere, se si teneva alla vita. La seconda domanda esordiva con un sorriso, rassicurante. Il Signore della guerra borbottava, picchiava il pavimento con un bastone con il manico d‘oro, e chiedeva in quale stagione si fosse in quel momento. A quella domanda si doveva rispondere immediatamente, con un saluto militare, puntando le quattro dita della mano destra dritte, perpendicolari alla fronte. Quando il ragazzo chiedeva a sua nonna che cosa il Signore della Guerra pretendesse lei non rispondeva, infastidita come da una mosca o da un prurito insistente. Provò il saluto di fronte alla porta, cosciente che ne valeva della sua vita.

Poi prese il fiato, sentì il giardino simile ad una foresta agitarsi dietro di lui. Bussò.

Un borbottio giunse subito in risposta, con lo strascichio di legno sul pavimento. Non aveva trovato la palla, ma d’altro canto non poteva neanche dire di averla cercata attentamente. Aveva paura, ma era curioso. Sua nonna diceva che sapeva afferrare le storie e i racconti come un filo, e tirarlo a sé fino ad arrivare al capo opposto. Tremava, nel mentre, ma inseguiva la fine con impazienza, ed era un piacere sadico lasciarlo sospeso, nell’ansia di sapere.

Rabbrividì sentendo passi lunghi e rumorosi, il ticchettio di un oggetto appuntito che picchiava a terra. Poi tutto cessò.

“Ti ho visto. Puoi entrare, la porta è aperta”.

Le parole parvero essere rantolate nel suo orecchio. Fin da quando sua nonna gli aveva raccontato la storia del Signore della guerra, era stato indeciso su cosa desiderare. Era così con ogni cosa proibita, con ogni cosa che forse esisteva, forse no. La casa era tetra ed oscura, ma ordinata, quasi asettica. Una scala che portava al piano superiore, pochi ordinari quadri di paesaggi appesi alle pareti. La riempì solo il suono della porta che cigolava, forse aprendosi per la prima volta dopo molto tempo.

“Sono di qua, segui la mia voce”.

La voce era forte, chiara ma roca. Proveniva da una stanza piena di scaffali, di scaffali colmi di libri. Un vecchio uomo stava seduto accanto ad una scrivania, su una poltrona nera, con le ginocchia coperte da una coperta rossa. L’occhio destro era di vetro, roteava nella cavità in uno sciabordio leggero, appena udibile.

Nel complesso quadrava nell’ambiente, rassegnato ed adagiato in un primo pomeriggio primaverile con l’espressione di uno stregone, la rassegnazione di un vecchio uomo che fremeva per avere compagnia. La compagnia di un bambino da sacrificare, di un nipote da sgridare, di una truppa da comandare. Si nutriva di urla, di disciplina, di solitudine che mutava in film dell’orrore, poi in silenzio, poi di nuovo in solitudine. Il ragazzo fremeva e deglutiva, si fece avanti nella grande sala. Srotolò il filo di quelle prime ipotesi.

Nell’osservazione, nell’analisi delle cose, lui sapeva bene cosa andava fatto, e lui doveva vagliare ogni possibilità, ogni ingranaggio, la frastagliatura di un metallo e lo stridio minuscolo di un finale di racconto che poteva afferrare. Qualcosa da conoscere che sfuggiva, che non s’incastrava nella favola ascoltata con attenzione. Il Signore della Guerra, oggetto di tante supposizioni, era davanti a lui.

Cigolava il suo silenzio, strideva il suo viso, era impreciso il taglio del suo disinteresse. Era bianco, nero e rosso, e non portava su di sé nessuno di quei colori.

Un sorriso emerse dal reticolo di rughe del suo viso.

“Come ti chiami, ragazzo?”.

Il ragazzo, ovviamente, non rispose.

Aveva in mano un bastone, ma senza manico. Per quanto fissasse le sue mani aspettando che con quello colpisse il pavimento, l’uomo stette fermo. Sospirò.

“Siamo in autunno, non è vero?”.

Il ragazzo scattò subito nel saluto, maldestro. “Siamo in primavera, Signore”. L’uomo lo guardò un po’ stralunato, prima di scoppiare a ridere.

“Non ho bisogno di questa roba da parecchio tempo!”, tossicchiò, si tenne lo stomaco con una mano scricchiolando come una giuntura arrugginita. “Non vuole invitarmi ad un duello di spada?”.

“Perché dovrei? Ti sembro in grado di tirare di spada in queste condizioni? Siediti, piuttosto. Non ho compagnia da un bel po’ di tempo. Il mio giardiniere si è preso qualche mese di vacanza. Sai, per la festa nazionale di Ishval”.

Il ragazzo obbedì, e non trovando altro modo si sedette sul pavimento a gambe incrociate. L’uomo si scusò, ma comunque disse che ai ragazzi della sua età le sedie non erano così necessarie. Rimase in silenzio, con un lieve sorriso che stazionava sulla sua faccia. “Perché sei qui?”, chiese infine. Il ragazzo non aveva previsto quella domanda, ma rispose sinceramente. Non c’era nulla di sovrannaturale né pazzesco in quella situazione, perciò parlò come sua nonna gli aveva insegnato a parlare con tutti gli adulti. “Stavamo giocando a calcio nel campo qui vicino e… ho tirato la palla fino al vostro giardino. Non sono riuscita a trovarla…”.

“La cercherai più tardi…” tagliò corto l’uomo, sventolando una mano verso di lui “Mi sento solo, mi piacerebbe che tu rimanessi un po’ con me, se non ti dispiace. Faresti questo favore ad un povero vecchio?”.

“Certo, Signore”.

Alla sua risposta quello si protese in avanti, stringendo i braccioli della poltrona così forte da farsi tirare la pelle grinzosa sulle nocche. “C‘è qualcuno che ti piace, ragazzo senza nome?”.

Se era quella la sua pretesa, doveva ammettere di essersi aspettato molto di più e molto di meno allo stesso tempo. Si toccò il petto, sollevando le palpebre con uno scatto appena visibile, prima di proseguire con l’osservazione dell’ambiente circostante. “Pe… perché me lo chiede?”.

“Suvvia, ad un vecchio uomo come me puoi dirlo.”

“Non capisco cosa c’entri la sua età. I due elementi non sono… collegati” non sapeva bene come dirlo. Si accorse di aver focalizzato la sua attenzione sul volto beffardo del suo interlocutore, senza accorgersene, e che aveva trovato difficoltà nel trovare il modo di esprimersi. A lui non capitava mai, lui era il secchione che tutti ammiravano e che tutti consideravano il risultato del da poco ricostituito e ben funzionante sistema scolastico della nazione. Ma questo lo aveva detto suo padre, con un certo sarcasmo, e lui era troppo critico su ogni cosa per riconoscergli un merito.

“Sei intelligente, ragazzo” concesse, compiaciuto “Se non vuoi dirmelo non insisterò. Ma, poiché credo di non sbagliare dicendo che ti servirebbero, ti darò un po’ di consigli in materia” concluse, lisciandosi degli invisibili baffi sotto il naso.

L’altro si disse che avrebbe preferito essere torturato, dato che sapeva quanto esattamente un essere umano di quell’età potesse protrarsi in chiacchiere. Perciò, non sentendosi poi molto pressato da alcuna disciplina militare, lo fissò nel viso scarno.

“E voi signore?”.

“Cosa?”.

“Siete sposato? Dov’è vostra moglie?”.

Il vecchio uomo ridacchiò “Ne ho avuta una, una volta. Era bella” dichiarò ridacchiando, poco credibile, seguitando a sfregarsi il labbro superiore e constatando ogni volta che no, non c‘erano baffi a coprire quella porzione di pelle.

“Non mi pare molto dispiaciuto di non averla più, signore”.

“Oh no. Dico davvero, ragazzo”.

Il ragazzo scosse la testa, rimosse le rigide direttive di sua nonna riguardo al rispetto che si deve ad un adulto “Non ci credo”.

L’uomo lo fissò, per un istante interdetto “Ah, no?” cambiò espressione, la luce dalla finestra lo toccò, insinuandosi nella pieghe delle sue carni mentre quel cambiamento si verificava.

“Forse hai ragione ma sai…” il loro volti non furono mai più vicini. Odorava di noci, frutta secca, una fragranza ruvida che gratta e che si dipana in grumi “… ero troppo impegnato ad inseguire un folletto”.

Si adagiò, sospirando, con la testa che rimbalzava leggera “Potresti averlo visto, sai?”.

 

“Quella benda sull’occhio non le dona proprio”.

Roy Mustang lo aveva atteso, in una sorta di lungo istante congelato, che cadeva in scaglie e si scioglieva gocce lente, misurate, affilate. Gli aveva rimproverato il suo eccessivo orgoglio, lo aveva chiamato con la speranza infantile che la sua voce giungesse in un altro mondo.

Anche a distanza di mezzo secolo si rammaricava del fatto che il loro meraviglioso addio fosse stato spodestato da quell’istante incendiato, affumicato, meschino. Un istante di guerra sporco e miserabile che li vestiva perfettamente ma che non apparteneva a nessuno dei due.

Un desiderio che s’appellava ad un estetica, ad una perfezione che non cambiava le cose.

“Addio” aveva sussurrato, ancora.

Le urla di un ragazzino lo pungevano, l’odore di ferro lo stordiva.

Provò a descriverlo a sé stesso. Lo imprigionò come una creatura nella sua mente, nella consapevolezza ruvida e dolorosa che non l’avrebbe rivisto mai più.

Era bello… e… e… cos’era poi?

Avvenne il processo strabiliante col quale si forgia una leggenda.

 

 

 

“Lui era tutto orgoglio, ne era pieno fino all’orlo, tutto ciò che rimaneva vuoto in lui ne veniva pervaso … ed questo che me l‘ha portato via“.

Il ragazzo sospirò, protendendosi indietro, comprendendo.

Il vecchio è gay.

Il grande Signore della Guerra è tutto qui.

Il suo era l’odore dolce e pacato di un marito senza moglie, di un padre senza figli, di un’infatuazione senza speranza, che persiste nell’aria con un sentore di bruciato, di metallico, di guerra persa. Lo emana e lo riafferra mentre apre la bocca, schiudendo il luogo della sua anima dove ha conservato la sua immagine, gelosamente.

“Questo è un addio”.

Il volto gli si era deformato in un sorriso accennato, di quelli con cui il soldato si avvolge la testa, vi si barrica credendosi per un momento indifferente alla morte, all’abbandono, a quello stesso addio con cui adornerà il proprio eloquio. “Sì, questo è un addio”.

Scrisse questo, dentro di sé. Era dorato, leggiadro, divampante, il suo corpo era un mistero e le sue labbra un appiglio per la speranza e per gli ultimi grammi della sua colpa. Sottolineò, incise che non aveva mai smesso di dirgli addio, perché si respingevano come le cose troppo simili e si attraevano come i secondi di due minuti diversi. Si rassegnò a staccarsi, a collidere col muro del suo maledetto orgoglio che lo ammantava, e che per una volta si sentì di dover accettare.

“I folletti non esistono, signore”.

“Tu credi?”.

“E non ho bisogno di nessun consiglio” ora che aveva visto il fantomatico Signore della Guerra per quello che era voleva solo ritrovare la sua stupida palla ed andarsene. La sua amata dalla gonna a pieghe era sicuramente già rincasata, e non l’avrebbe rivista che l‘indomani, sgambettando sul muretto e canticchiando a bocca chiusa un indifferente motivetto monotono che l’avrebbe martellato per giorni. Con le braccia conserte smise di osservarlo, di annusare, di cercare qualcosa di straordinario in lui.

La nonna aveva cucinato lo stufato e non vedeva l’ora di tornarsene a casa. Ma il vecchio uomo rise, parve vedere qualcosa oltre il vetro della finestra che lo affascinò, lo quietò, apprezzò al punto di mugugnare. “Come vuoi, ragazzo. Ma poiché non morirò fin quando non avrò rivisto il mio folletto, credo che sarò qui a lungo. Quindi torna quando vuoi…” un gesto di congedo, militare e virile, che contraddiceva le sue parole “… ragazzo senza nome”.

Il ragazzo decise che il vecchio uomo era noioso, probabilmente un po’ folle. Fece un inchino poco educato, che sua nonna avrebbe punito scagliando la scheletrica, rugosa mano sul retro del suo capo, in un rumore di ossa che lo avrebbe fatto ridere e rabbrividire insieme. I suoi passi batterono sul marmo, pestarono l’erba di un prato che non era né una giungla né una foresta, che si modellò intorno alla forma del padrone come un giardino che non veniva curato da qualche settimana, ma che aspettava. Sputò fuori la palla da un angolo, indisponente e permaloso come se le poche cure ed il giudizio del ragazzino che lo calpestava lo avessero offeso.

Sua nonna era fuori dal cancello, con le mani giunte ed un espressione di rimprovero. “Lo hai visto, eh?”.

Annuì, immaginò l’odore dello stufato “Mi hai mentito, Nonna Winry…” balbettò “… è solo un vecchio pazzo che crede nei folletti!”.

Il colpo giunse così forte da fargli sballottare la testa sul collo “Sii educato…” ordinò “… è comunque non è pazzo affatto, dice la verità” sorrise, giocò con la lunga treccia di capelli grigi.

“Davvero?”.

“Non ti fidi?” rise “Quell’uomo ha davvero visto un folletto. Non credi che dovresti portargli rispetto?”. Il ragazzo pensò che, se lo diceva Nonna Winry, allora doveva essere vero. Annuì.

“Allora domani lo dirò a tutti quanti!”. Trotterellò in avanti, dietro alla palla che aveva calciato sconsideratamente verso il tramonto.

Ma c’era un argomento che gli premeva più di questo, più delle macabre storie, più dello stufato, più delle leggende:“Hai comprato il latte, vero?” urlò.

La donna sorrise, amara.

“Certamente”.

 

Note dell’autrice!

Ancora seconda, quel posto mi è troppo affezionato per staccarsi da me XD Non ho molto da dire, comunque… e spero possiate dirmi cosa ne pensate *O*

BUON ROYED DAY! *stappa spumante*

   
 
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