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Autore: My Pride    12/10/2011    5 recensioni
Forse lo scopo della nostra vita è il viaggio stesso, non la destinazione. Qualunque risposta mi attenda, oggi è l’inizio del mio viaggio.
La mia storia comincia qui.

Quell’occhiata avrebbe dovuto mettermi soggezione, probabilmente, ma in quel momento ero troppo preso dalla foga di quella che sperai sarebbe stata la mia prima avventura.
Di una cosa, però, ero sicuramente certo: non sapevo in che guaio mi ero cacciato.
[ Prima classificata al «Pirates Contest!» indetto da visbs88 ]
[ Vincitrice del Premio Coppia più originale al «Chi è normale non ha molta fantasia» indetto da Butterphil ]
Genere: Avventura, Drammatico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Curse of the sea'
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Oceani_2 ATTO II: PORTO RICO › MAR DEI CARAIBI, 1768
LANDLUBBER [1]
 
    Ogni cosa che vedevo, dal mobiletto con la lampada ad olio alle tende alla finestra, era avvolta da un pallido alone grigiastro, simbolo che erano da poco passate le nove di sera.
    A svegliarmi era stato il continuo latrato del nostro cane, Nesh, seguito dalla voce sommessa di mastro Garrington, che mi richiamava insistente e con una nota di irritazione. Mugolai, coprendomi la tes
ta con il cuscino e bofonchiando qualche parola a mezza voce nella vana speranza che, sentendomi, quel fastidioso borbottio cessasse e mi lasciasse al mio riposo per altri cinque minuti. Avevo fatto proprio male a mettermi nuovamente a letto per riposare, dopo la tornata delle otto.
Ero quasi pronto a sprofondare nuovamente nel sonno quando un tonfo sordo mi fece sussultare, e mi ritrovai praticamente sul petto le grosse zampe di Nesh, che uggiolava come non mai. A malincuore dovetti alzarmi per quanto concessomi, sbadigliando e posando al tempo stesso una mano sul dorso peloso del mio cane, che per tutta risposta allungò il muso verso di me per leccarmi il viso.
    «Sono sveglio, Nesh, sono sveglio», borbottai con voce impastata, cercando di allontanarlo inutilmente da me. Era un grosso cane da pastore dal pelo lucente, pieno di voglia di giocare sebbene non fosse più un cucciolo. Anziano ma vispo, ripeteva sempre mastro Garrington. E da come lo vedevo agitare la coda e tirarmi un lembo della camicia da notte che indossavo, non potevo non dargli pienamente ragione.
    Con uno sbuffo divertito riuscii a liberarmi dalla sua morsa, scansando le lenzuola per poggiare i piedi oltre il bordo del letto e stiracchiarmi tranquillamente. Nesh se ne approfittò subito, infilando il muso sotto le mie braccia per strofinare il naso contro di me, facendomi ridacchiare. «Andiamo, smettila», lo ammonii in tono scherzoso. «Mastro Garrington ci striglierà entrambi se non mi metto a lavoro alla svelta».
    Mi giunse in risposta un breve abbaiare prima che, probabilmente capendomi, Nesh scendesse dal letto, trotterellando svelto fuori dalla camera mentre agitava la coda. Quel cane era peggio del suo padrone. In senso buono, ovviamente. Dawson Garrington era stata la sola persona che aveva deciso di prendersi cura di me. Cinque anni prima mi aveva trovato sulla spiaggia privo di sensi, e a niente era servito chiedermi chi fossi o quale fosse il mio nome una volta risvegliatomi. Tutto ciò che avevo ricordato in quel momento era stato un immenso bagliore infuocato, difficile capire se rappresentasse un incendio o solo un tramonto sulle coste dell’arcipelago. Avevo provato a sforzarmi, ma la mente mi si era affollata di voci confuse e grida, facendo solo in modo che mi smarrissi di più. Mastro Garrington aveva così deciso di accogliermi nella sua casa, sebbene non avesse mai voluto avere a che fare con i mocciosi. Ero stato lui molto grato di quella gentilezza offertami, anche se spesso e volentieri avevo l’irrefrenabile voglia di andarmene da lì.
    A quei pensieri, scossi la testa, affrettandomi a darmi una lavata e a cambiarmi, legandomi in fretta e furia i capelli in un codino. Non ero mai stato uno di quei ragazzi dalla grazia e dai lineamenti femminili, anzi, forse il mio volto si presentava un po’ più duro di quanto in realtà non fosse. Portavo i capelli lunghi solo per una questione d’abitudine, ma non mi ero mai soffermato a curare il mio aspetto più del necessario.
    Mi allacciai la casacca alla gola e indossai gli stivali, arraffando quella vecchia patacca con cui ero stato trovato e che ormai mi portavo sempre dietro. Grande quanto un doblone, sopra vi era raffigurato un animale molto simile ad una tigre e, intorno ad essa, vi era inciso qualcosa in una lingua che non conoscevo, ma non mi ero mai soffermato a capire cosa volessero significare quelle scritte. Per me rappresentava solo un qualcosa legato alla mia vita passata, per quanto non la ricordassi. Era più che altro un portafortuna, se la si voleva mettere in quei termini.
    Scesi le scale e giunsi al piano di sotto, trovando mastro Garrington già a lavoro: quella sera c’erano stranamente parecchi clienti, e non sapevo dire se la cosa fosse da considerare un buon segno o meno. Di solito nessuno gironzolava da quelle parti se non a notte ormai inoltrata, dunque vedere qualcuno seduto a quei tavoli malmessi durante i primi bagliori della sera era una bizzarra novità. I nostri clienti abituali si presentavano per lo più dopo la mezzanotte, quando il sole era ormai calato oltre l’orizzonte da un bel pezzo e le ronde di guardia si spostavano nella parte ricca della città. In cinque anni avevo imparato a conoscere la maggior parte di loro e il lavoro che svolgevano, e non tutti erano rispettosi delle leggi. Tra mercenari, malfattori e pirati, lì, quasi mi meravigliavo che non ci fosse ancora scappato qualche morto. Di risse ce n’erano praticamente ogni sera.
    Nonostante fossi felice della vita che conducevo, però, negli ultimi tempi avevo cominciato a sognare di navigare libero per i sette mari, senza leggi né regole da rispettare. Ero rimasto a dir poco incantato nell’ascoltare le favolose avventure narrate dai pirati che, quando attraccavano da quelle parti, venivano a rifocillarsi nella taverna del vecchio mastro Garrington, e non era raro che mi soffermassi per ore ed ore accanto ai loro tavoli per non perdermi una sola parola, chiedendomi al tempo stesso che effetto avrebbe fatto assaggiare fino all’ultima goccia l’ebrezza di quella loro libertà. Avrei voluto solcare gli oceani a bordo di una grande nave che scivolava sull’acqua a vele spiegate, vedere l’effetto che faceva osservare il sole morire oltre l’orizzonte, e fissare la bandiera nera che veniva sferzata dal vento durante quelle traversate. Però sapevo che quelle sarebbero solo rimaste delle mie fantasie, purtroppo. Non avrei mai lasciato quel posto.
    «Patrick! Ma che diamine hai oggi, ragazzo? Scattare, coraggio!» La voce di Mastro Garrington, proveniente dalle cucine, mi fece sussultare, poiché mi ero talmente perso nei miei più disparati pensieri che avevo praticamente dimenticato il motivo per cui ero stato chiamato laggiù. Basta fantasticare su storie di pirati e grande avventure. Ero lì per lavorare e servire ai tavoli, nient’altro. La mia immaginazione avrebbe potuto navigare sulle rotte dei Sette Mari in un altro momento.
    Mi misi a lavoro con un sospiro, stando attento a dove mettevo i piedi mentre mi incamminavo nella ressa di quella locanda trasandata. I tavoli che avevamo erano sempre stati sudici e malfermi, e a niente valeva lavarli ogni singolo giorno per tentare di eliminare almeno uno strato del sudiciume che li ricopriva; le sedie non se la passavano meglio, tra l’altro, giacché la paglia con cui erano state intrecciate si era ormai ridotta ad un ammasso aggrovigliato di fili indistinti e sporchi. Persino il pavimento faceva letteralmente schifo, e più volte avevo richiamato Nesh perché arraffava tutto ciò che vi rimaneva appiccicato sopra. Quella sera non era da meno: non appena vedeva qualcuno dei clienti far cadere inavvertitamente qualcosa dal piatto, lui accorreva come un fedele spazzino e ingurgitava tutto, senza lasciare neanche una briciola. Che cane ingordo.
    Proprio in quel momento lo vidi pararsi dinanzi a me come una freccia scoccata da un arco, correndo come un matto per raggiungere il lato opposto della locanda; tentai di restare in piedi per quanto concessomi, attento a non far cadere i piatti che reggevo con entrambe le mani, però persi l’equilibrio e caddi addosso ad uno dei clienti, sporcando me stesso e anche lui con la brodaglia che stavo trasportando. Non mi rimisi neanche in piedi che mi sentii afferrare per il colletto da una mano enorme, ritrovandomi praticamente faccia a faccia con quell’energumeno. Con quella stazza e quell’aria da armadio a quattro ante, ero più che certo che non me l’avrebbe fatta passare liscia neanche se gli avessi chiesto scusa.
    «Che diavolo fai, moccioso?» sbottò ad una spanna dal mio viso, appestandomi con il suo alito che puzzava di rum scadente e pranzi degni di una pattumiera. Quasi riuscì a farmi venire un capogiro, però non potei fare a meno di lasciarmi sfuggire un sorriso sarcastico.
    «Puzzavi così tanto che pensavo fosse la spazzatura», ribattei, maledicendo la mia linguaccia per quella battuta infelice, specialmente quando quel tipo mi sferrò un pugno in pieno viso con tutta la forza che aveva. Diavolo, se faceva male! Faceva maledettamente male. Mi ritrovai inginocchiato a terra con una mano premuta contro la bocca, sentendo il sapore del sangue sulle labbra; mi passai due dita su di esse e, portandomele davanti agli occhi, le vidi macchiate di rosso. Beh, perfetto. Solo un labbro spaccato ci mancava.
    Ebbi appena il tempo di voltarmi che un altro colpo ben assestato mi centrò in pieno stomaco, lasciandomi paonazzo e senza fiato. Mi accasciai su me stesso e boccheggiai, probabilmente nel vano tentativo di ricordarmi come si faceva a respirare. Fui quasi tentato di chiudere gli occhi quando vidi quel tipo pronto a colpirmi ancora, ma davanti al mio campo visivo si parò un braccio nascosto da un pesante cappotto con jabot. «Il ragazzo non l’ha fatto apposta», esordì una voce calma e pacata. Aveva uno strano accento straniero che non riuscivo a definire, però ero certo che fosse la prima volta che il possessore di quella voce capitava da quelle parti. «E accanirsi contro di lui non ti servirà comunque a niente».
    Restai lì per lì interdetto, osservando il tipo che era venuto in mio soccorso: indossava un logoro giaccone rosso dalle maniche a sbuffo, al di sotto del quale era visibile un angolo di una camicia che un tempo era sicuramente stata più pulita di quanto non apparisse in quell’esatto momento; i lunghi pantaloni erano dello stesso colore dei suoi capelli, d’un castano così chiaro da sembrare vagamente biondo; non potei vederlo con attenzione in viso, ma mi parve di vedere sul suo occhio sinistro uno scorcio di quella che sembrava una cicatrice. Ciò che non lasciava dubbi era il cappello piumato sulla sua testa: avevo visto soltanto una categoria di persone con quello stesso copricapo, e ciò poteva solo significare che quell’uomo era un pirata. Più lo guardavo, però, più mi sembrava di averlo già visto da qualche parte; era impossibile, lo sapevo, ma allora perché provavo quella bizzarra sensazione?
    Feci per aprire la bocca quando vidi l’energumeno che mi aveva aggredito scansare malamente il braccio di quel pirata, e non potei fare a meno di indietreggiare come la restante clientela nel momento esatto in cui avanzò minaccioso. «Chi diavolo credi di essere, tu?» sputacchiò con voce roca, digrignando i denti gialli. «Vedi di farti i cazzi tuoi, stronzo».
    Quel tipo sospirò, scuotendo poi il capo con fare sconsolato. Era stato l’unico a restare fermo in quella stessa posizione, come se non temesse minimamente la rappresaglia a cui avrebbe potuto dar vita quell’armadio a quattro ante. «Non ho intenzione di battermi con te per colpa del moccioso, omaccione, quindi datti una calmata», lo spronò tranquillamente, sollevando appena un angolo della bocca in un sorriso cordiale.
    Lo fissai con tanto d’occhi. Quel tipo era pazzo o cosa? Aveva una bella stazza anche lui, certo, ma non era nulla se paragonato a quell’energumeno che aveva dinanzi. Avrebbe potuto stritolargli la testa con una sola mano, e l’avrebbe di sicuro fatto se in quell’esatto momento non fosse stata scardinata la porta della locanda; lo schiocco sordo dei cardini fu sovrastato dalle voci altisonanti e perentorie delle guardie, che avevano fatto irruzione a baionette spianate. Tra loro era presente anche la possente figura del Commodoro Waine, che si guardò intorno con aria spavalda e austera. Quel tipo non mi era mai piaciuto, e il fatto che facesse parte della marina c’entrava ben poco; era un uomo viscido e infido, come un serpente dagli occhietti neri che squadrava la sua preda in attesa di inghiottirla. Si vociferava persino che avesse fatto impiccare chiunque fosse in disaccordo con lui. E con i pirati non aveva la benché minima pietà.
    «Lui dov’è?» domandò con voce tonante, bloccando tutti i presenti in un attimo di etereo stupore. Non una mosca volava nella locanda, e l’atmosfera d’odio e di rissa che aveva aleggiato fino a quel momento sembrava essere sparita nel nulla, quasi non ci fosse mai stata.
    Non capii cosa volesse intendere il Commodoro con quelle parole, e, dalle espressioni dei clienti, neanche loro si capacitavano di ciò che stesse tentando di domandare. Ci guardammo tutti nello stesso e identico istante, come se volessimo cercare una risposta nel volto di qualcun altro, ma fu proprio nel far questo che mi accorsi che mancava una testa all’appello: dov’era finito il tipo che mi aveva appena salvato? Era forse lui l’uomo che il Commodoro stava cercando? Beh, se era scappato così velocemente, evitando anche una sicura scazzottata, non poteva essere altri che lui.
    «Pagherete anche voi le conseguenze, se lo nascondete!» continuò il Commodoro Waine, fissando ogni uomo presente dall’alto della sua superbia. Il naso aquilino tremò, simbolo che stava iniziando a spazientirsi. Gettò un’occhiata ai suoi uomini, serrando la mascella in modo convulso. «Guardie! Mettete a soqquadro questa topaia!»
    I suoi commilitoni non se lo fecero ripetere due volte, anch’essi impauriti dalla reputazione che il Commodoro si portava sulle spalle; cominciarono dunque a rivoltare i tavoli, a rompere le bottiglie, come se quello potesse aiutarli in qualche modo a trovare l’uomo che stavano cercando. Non esitarono nemmeno ad entrare nelle cucine, cacciando a pedate mio padre e ignorando i suoi impropri rivolti alla loro persona. Con il coltellaccio che reggeva cercava di intimidirli, agitandolo a destra e a manca come se fosse una vera e propria arma, ma avrebbe fatto davvero ben poco contro le baionette di cui ognuno di loro disponeva. L’abbaiare di Nesh si confuse con le esclamazioni e gli epiteti che venivano lanciati contro i soldati del Commodoro, senza che nessuno di essi si prendesse la briga di starne a sentire qualcuno; quando finalmente se ne andarono, tutto ciò che ci rimase fu una bottiglia di rum ancora intera sul bancone e più della maggior parte dei tavoli rovesciati su loro stessi, con il pavimento colmo di cocci e bicchieri.
    «Che Dio li fulmini, perdiana!» ringhiò mio padre, stringendo il manico del coltellaccio con una tale furia che fui certo gli si fossero disegnate le mezze lune delle unghie sui palmi. «Cosa diavolo volevano questa volta?»
    Stavo aiutando ad alzare i tavoli quando vidi che uno dei nostri clienti abituali, Jonathan, aveva scoccato una rapida occhiata nella sua direzione. «Forse quel tipo che se l’è squagliata, Garrington», lo informò, e sbattei le palpebre nel sentire che aveva avuto la mia stessa opinione. «Se l’è filata non appena ha visto la porta sradicata».
    «Che clientela malfidente», esordì una voce proveniente dal lato destra della locanda, nel punto esatto in cui le lanterne ad olio avevano smesso di illuminare la zona già da un pezzo. Dalla penombra spuntò il cappello piumato di quel tipo, e il sorriso sulle sue labbra fu capace di irritare tutti i presenti. Me incluso. «Quei loschi figuri non cercavano mica me, eh».
    Mastro Garrington gli corse incontro, afferrandolo per il colletto con una mano mentre con l’altra lo teneva sotto tiro con il coltellaccio. «Tu, piccolo diavolo, non venirci a raccontare cazzate» sibilò, avvicinandogli la lama al collo. Il pirata la guardò per quanto concessogli e deglutì, reclinando un po’ la testa all’indietro come se in quel modo potesse evitarla. «Non voglio guai con il Commodoro, quindi ti conviene sparire prima che decida di cavarti del tutto l’occhio».
    Sapevo con completa certezza che le parole di mio padre non sarebbero state vane. Non era la prima volta che minacciava qualcuno in quel modo - aveva persino minacciato un tipo, tale Josh il Rosso, di strappargli gli attributi solo perché tempo addietro aveva infastidito l’unica cameriera che avevamo -, dunque ero certo che dicesse sul serio. Però qualcosa mi diceva che quel pirata aveva detto la verità. Beh, rettificai, se non tutta, almeno parziale. «Mastro Garrington», tentai quindi di chiamarlo, non ottenendo la tanto agognata attenzione che avevo desiderato. Allora ci riprovai, riuscendo soltanto ad irritarlo maggiormente. Mi scoccò difatti una veloce occhiata senza allontanare la lama dalla gola di quel pirata, e ci mancò poco che con quel brusco movimento gli tagliasse la carotide.
    «Sta’ zitto quando gli adulti parlano, ragazzo», mi ammonì in tono duro e autoritario. «Vedi piuttosto di darti da fare con gli altri per rimettere a posto».
    «Ma...»
    «Niente ma, ragazzo, e ora muoviti».
    Dovetti obbedire malgrado tutto, ma non prima di aver lanciato un’ultima occhiata al tipo con il giaccone rosso. Se n’era rimasto lì ad osservarmi con quei suoi occhi verdi, per nulla preoccupato della lama che aveva quasi rischiato di ferirlo mortalmente. Il suo sguardo parve indagatore e irriverente, come se stesse cercando di leggere la mia anima anziché soffermarsi solo sul mio aspetto fisico. La cosa non mi piacque per niente, forse perché quel modo di fare mi aveva messo in agitazione; però fu proprio nel vederlo con attenzione in viso che aprii la bocca per dare vita ad un’esclamazione sorpresa. «Ah!» lo additai. «Tu sei il tipo di oggi pomeriggio!»
    Lui sorrise maggiormente. «Proprio io, ragazzo», rimbeccò, venendo però immediatamente richiamato all’ordine quando la lama gli segnò parzialmente una guancia.
    «Sono io il tuo interlocutore, furfante», riprese mio padre in tono aspro. «Perché la marina ti cerca? Chi diavolo sei?»
    Malgrado tutto, quel pirata ridacchiò. «Capitan Gale, messere. Per servirla», si presentò in tono di scherno, e con la coda dell’occhio lo vidi abbozzare persino un altro sorriso. Allora quel tipo era davvero stupido. Però non potei fare a meno di dar vita anch’io ad un sorriso, puntando gli occhi sul pavimento per far finta che fossi concentrato a pulirlo. «E non ho la benché minima idea del perché quei quattro marinaretti mi stiano dando la caccia, ho appena attraccato».
    «Vedi di non prendermi per il culo, pirata».
    «Och, non lo farei mai», si affrettò a chiarire. «Non sarebbe neanche il mio tipo, messere».
    Mastro Garrington lo strattonò in malo modo, puntandogli la lama vicino all’occhio parzialmente sfregiato prima di spingerlo lontano da sé. «Fuori da questo posto, feccia», gli ringhiò contro. «E guai a te se ci rimetti piede».
    Il Capitano tossicchiò e si portò una mano alla gola, toccando il punto in cui si era trovato il coltello; alzò poi lo sguardo su mio padre, togliendosi il cappello per rivolgergli un saluto galante con esso. «A mai più rivederci, allora, mio buon locandiere». Sembrò non resistere dal prenderlo in giro ancora una volta, e fu solo per miracolo se riuscì a scansare il coltellaccio che mio padre gli lanciò contro mentre si defilava verso l’uscita.
    Nel vederlo andare via, però, il mio cuore sembrò quasi perdere un battito; mi alzai in piedi senza neanche essermi reso conto di averlo fatto, lasciando cadere la pezzuola che stavo usando su quel pavimento incrostato di sudiciume. Non volevo che se ne andasse. Non volevo che scomparisse per sempre dalla mia vita. Il modo in cui mi aveva guardato aveva risvegliato in me delle strane emozioni, e fino a quel momento non avrei mai pensato che esse esistessero. Feci dunque qualche passo avanti con fare esitante, cominciando poi ad aumentare la mia andatura mano a mano che mi avvicinavo alla porta.
    Quando la imboccai sentii appena mastro Garrington urlare «Patrick! Dove credi di andare, ragazzo!», ma io non vi diedi peso, cominciando a correre nel momento esatto in cui vidi la stoffa rossa di quel familiare giaccone scomparire oltre il vicolo di una stradina. Se volevo raggiungerlo dovevo affrettarmi, e fu esattamente quello che feci; non ci pensai due volte ad inoltrarmi nella città per seguire quel pirata, ansimando a metà strada perché non ero abituato a correre così tanto. Lo vidi qualche istante dopo, rendendomi conto che si stava dirigendo verso il porto. Voleva forse salire sulla sua nave? L’avrei del tutto perso, se l’avesse fatto.
    «Ehi, Capitano!» lo chiamai, aumentando il passo per riuscire a stargli dietro. Era velocissimo, e da un uomo della sua stazza non me lo sarei mai aspettato. Grosso com’era, difatti, avevo quasi creduto che fosse piuttosto lento.
    Lo vidi voltarsi appena verso di me senza arrestarsi, rallentando però un po’ il passo per fare così in modo che lo raggiungessi. Non sembrava volersi sbarazzare di me, e la cosa fu quasi capace di farmi sorridere. «Che ci fai qui, ragazzo?» mi domandò scettico.
    Risposi solo dopo aver recuperato un po’ di fiato. «Vengo con lei, mi sembra ovvio!»
    «E come la metti con il tuo vecchio?»
    «Lui capirà», sussurrai in risposta, continuando a correre senza voltarmi indietro. Sentivo che se l’avessi fatto anche solo per un istante, avrei potuto cambiare idea e abbandonare quella mia fuga per tornare sui miei passi. «In fondo questo non è mai stato il mio posto, e lui che mi ha accolto dovrebbe saperlo bene».
    Mi lanciò una nuova occhiata, e quasi mi parve di vedere sul suo volto l’ombra di un sorriso. «Ti ha accolto, eh?» ripeté. «E va bene, allora. Come vuoi tu, ragazzo», ridacchiò con fare divertito, afferrandomi per un braccio come se volesse far sì che mi affrettassi, «ma guai a te se provi a fare qualcosa di stupido», soggiunse, guardandomi attento con quei suoi occhi verdi e lasciandomi ben intendere che non scherzava.
    Quell’occhiata avrebbe dovuto mettermi soggezione, probabilmente, ma in quel momento ero troppo preso dalla foga di quella che sperai sarebbe stata la mia prima avventura. Di una cosa, però, ero sicuramente certo: non sapevo in che guaio mi ero cacciato
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[1] Persona che non conosce il mare o l’arte della navigazione. Il termine non deriva da “amante della terra”, bensì dalla radice di fede, che significa goffo e scoordinato.
Un marinaio d’acqua dolce, ovvero il “Landlubber”, è dunque uno che è inutile in mare a causa della sua familiarità sulla terra. E’ specialmente usato per insultare le scarse capacità di navigazione di un uomo, e la scelta del titolo sarà chiara solo durante la lettura del capitolo, o almeno questa è l’intenzione


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