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Autore: Quintessence    13/10/2011    5 recensioni
Il Destino ci narrò storie di coraggio su Sailormoon, su quello che furono le Senshi, sulla venuta di Chaos. E ognuna di noi sapeva che l'umanità sarebbe vissuta. Che l'accecante potere del Ginzuishou avrebbe toccato tutti. Che Serenity avrebbe vinto anche l'ultima sfida, sconfitto anche la Catastrofe finale, creando la nuova e Luminosa Crystal Tokyo.
Il Destino aveva parlato. Noi avevamo creduto.
Oggi, però, il Destino è cambiato.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Ami/Amy, Makoto/Morea, Minako/Marta, Rei/Rea, Usagi/Bunny
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la fine
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17 ~ Giorno due
Il secondo giorno la battaglia è verbale. Non è fisica, perché la Natura da' tregua. O forse, si lecca le ferite anche lei. La battaglia è una battaglia che cerca la scelta giusta in mezzo a mille sbagliate, una tortuosa decisione da prendere. È una battaglia nello spirito, per trovare la convinzione che sia giusta la strada che si percorre. Perché chi non crede che la strada che sta percorrendo porti in un posto migliore, presto smetterà di camminare.

 

« Si può sapere che ti è preso? » -Le lanciò Rei. A Usagi sembrò una freccia del suo arco, tanto che si rannicchiò su se stessa come un riccio che cerca di nascondersi dietro i suoi aculei. Rei non si lasciò intimidire in ogni caso, e alzò il tono della voce di un'ottava al costo dello stridulo- « Allora? »
Minako entrò in quel momento con un vassoio su cui aveva ordinatamente poggiato cinque tazze piene di quello che sembrava caffè americano. Dal soffitto, una goccia cadeva a intervalli regolari sul pavimento, formando una piccola pozzanghera.
« Prendo i biscotti » -Fu il suo commento per rompere il silenzio che Usagi stava violentando con un grattante rumore di unghie su quello che rimaneva del copri divano. Rei la stava ancora guardando. Makoto guardava il pavimento. Ami era seduta per terra, pallida e stremata. Questa volta, nessuna aveva dormito. Nemmeno una.
La cucina aveva un buco enorme nella finestra, provocato dall'acqua. Avevano impiegato fino alle sei, per rimettere a posto tutto quel marasma. Avevano spazzato, tolto i vetri e tentato di riparare il riparabile. Minako aveva rifatto del tutto il soffitto e la parete che Makoto aveva sfondato. Si era riservata di fare la cucina più tardi. L'unico punto che le era sfuggito, gocciolava insistentemente sul pavimento. Poggiò sul tavolo il vassoio con le cinque tazze e lanciò a Rei un'occhiata eloquente. Lei prese in mano una delle cinque e un biscotto, e dopo avercelo inzuppato distolse finalmente gli occhi roventi da Usagi. Ami si strinse al petto la sua; non si poteva dire che facesse caldo, in quelle ore, e il piacevole tepore del caffé le riscaldò tutte. Alla fine, fu di nuovo Minako a parlare per prima, in quella malandata e mal riparata sala riunioni; al centro del tavolo troneggiava il suo solido di Silicio Policristallino a forma di cuore. Sembrava ancora pulsante e caldo.
« Usagi, vuoi dirci che è successo? » -Domandò con garbo, prendendosi il tempo di un altro sorso di caffé- « Perché non hai attaccato il Drago, quando Ami ti ha chiesto di farlo? »
Usagi serrò di più le dita intorno alla sua tazza. Minako aveva usato il servizio buono, l'unico che si era salvato. Tutte le tazze erano di un colore azzurro pallido, con un motivo di fiori di pesco. A Usagi fece pensare a casa. La sua casa, quella che era un tempo. Senza buchi nel soffitto, con i rumori molesti di Shingo e le urla di sua madre. Con la sveglia e con il suo letto caldo, non con un cerchio sgangherato di sedie e un fuoco incrociato di sguardi. Eppure, si rese conto, quella era casa. Le sue amiche. Non si lasciò sfuggire una lacrima che premeva negli occhi azzurri, e cacciò il bruciore della gola indietro, deglutendolo con un sorso di caffé bollente. Perché era una parola che la paralizzava. Perché non la sgridavano e basta, come sempre? Perché pretendevano da lei spiegazioni, le domandavano il motivo? Proprio a lei, alla più buffa pasticciona incapace di usarle, domandavano parole. Non gliele voleva dare, non ne aveva da dare. Non aveva idea di come spiegare il bozzolo che le aveva frenato il cuore in quei momenti. Non poteva spiegarlo, o forse non voleva farlo. Decise di provarci.
« L'ho sentito soffrire. Non volevo... Non volevo... fargli... male... » -Disse, e basta. Rei fece un gesto esasperato. Makoto lo tramutò improvvisamente in parole. Non arrabbiate, non alte. Non stridule. Calme e pacate, e che a Usagi fecero molta più paura di qualsiasi urlo precedente.
« Ascolta, Usagi. » -Allungò una mano e raggiunse il suo ginocchio- « Ci siamo tutte dentro. Sappiamo bene quanto sia difficile, per ciascuna, combattere il proprio elemento o comunque, in qualche modo... La Natura che dovrebbe amarci, che ci ha dato la vita... » -Si interruppe un momento per guardarla negli occhi lucidi- « Ma non possiamo permetterci che tu te ne vada. Dobbiamo sapere di poter contare su di te, questa volta. Questa volta, non puoi davvero abbandonarci di nuovo. »
Usagi gelò. Sussultò ed ebbe voglia di abbracciare Makoto.
« Mako-chan ha ragione. » -Aggiunse la voce di Rei- « Questa volta non possiamo permetterci nessuna distrazione. Nemmeno una. Se abbiamo deciso di fermare la Catastrofe, allora dobbiamo essere certi di avere Voluntas con noi. »
« E se non potessimo fermarla? » -Quattro paia di occhi si puntarono su di lei. E lei sollevò i suoi, azzurri e fieri, su ciascuna di loro- « Se questa fosse una vana battaglia? Stiamo facendo soffrire molto la Natura esattamente come gli uomini hanno fatto prima di noi. Cosa abbiamo di meglio da offrirle? Forse dovremmo salvare il salvabile. Ricreare Crystal Tokyo. Ammettere la sconfitta. » 
Per un minuto, ciascuna di loro soppesò la possibilità. Abbandonare il campo almeno in parte significava mettere in salvo tutti quelli a cui davvero tenevano. Prendersi venti giorni per riunire le forze e per prepararsi a creare le tombe di cristallo che le avrebbero protette fino alla fine della grande Catastrofe. Fino all'inizio del mondo che sarebbe venuto. Ciò cui stavano dicendo no con forza era un Destino scritto che ciascuna di loro aveva veduto sotto gli occhi. Fermare la Catastrofe poteva significarne uno peggiore. E soprattutto, provarci senza riuscirci poteva significare solo morte. Per tutti.
« Forse Usagi non ha tutti i torti » -Espresse Minako con chiarezza quello che tutte stavano pensando- « Forse dovremmo usare questi poteri almeno per evitare una morte totale... »
« Secondo me stiamo pensando in modo estremamente egoista » -Sottolineò invece Ami- « Perché chiami morte il grande trionfo di natura che ti ha donato la vita? Un mondo senza città forse sarebbe più vivo di quanto non sia adesso. Io l'ho sentito, quel drago. Rantolava. Faticava a respirare. E se l'acqua sta morendo, forse qualcosa che non va c'è. »
La stanza piombò di nuovo in qualche momento di silenzio. Ciascuna fece una riflessione su quell'ipotesi di resa sottobanco. Sdraiamoci tutte e dormiamo. Aspettiamo la morte, diceva quella frase. Potremmo vivere ancora, pensò Makoto. Forse nella prossima vita poteva essere un albero al vento, avrebbe vissuto per mille anni e mille ancora. Fuori, il pastello dell'alba annunciava per la prima volta dopo molti anni aria pulita. L'aria che si respira senza che nemmeno una macchina abbia camminato. Senza che nemmeno un aereo abbia volato. Il mondo stava tirando davvero un sospiro di sollievo. E Makoto poteva capire perché non si sarebbe arreso a nessun compromesso. Sentiva i suoi figli morire. Guardò la pancia di Usagi. Le sue motivazioni non erano poi tanto folli. E tuttavia, lasciar morire molte altre persone in ogni parte del pianeta non poteva che farle storcere il naso. Non negò d'essere combattuta. Desiderò Areté al suo fianco, per avere la forza di scegliere. La voce di Rei interruppe le sue riflessioni.
« Psyché ha detto con chiarezza cosa ci aspetta se ci proviamo. Non siamo forti abbastanza da ricreare Crystal Tokyo. Possiamo solo combattere e sperare che i nostri star seed non ci abbandonino... Possiamo solo stare insieme » -Usagi scosse leggermente la testa. L'idea di essere regina non era ovviamente la prima delle sue priorità. Anzi, probabilmente era una di quelle cose di cui avrebbe fatto volentieri a meno. Ma temeva davvero che un fallimento l'avrebbe uccisa, insieme a Chibiusa. Era lei, in fondo, il fulcro di tutto. La sua nuova vita, no? Sua figlia doveva vedere un mondo migliore, uno che fosse degno di essere veduto e vissuto così come aveva fatto lei. Voleva per lei delle amiche. Voleva per lei una vita in cui ridesse e piangesse proprio come qualsiasi ragazzina normale. Non voleva che avesse un passato come il suo, non voleva che dovesse soffrire per Helios, che dovesse vederlo morire o veder morire chiunque altro avesse amato, come era toccato a lei. Non intendeva per nessun motivo fare una scelta che avrebbe rovinato il mondo. Perché desiderava consegnarlo a sua figlia in tutta la sua interezza. Restò in silenzio. Minako si prese la parola.
« Ma per combattere, Usagi, abbiamo bisogno di te! Non possiamo credere che un giorno Voluntas verrà meno, o che tu non sarai forte abbastanza per uccidere o per salvare una vita... » -Usagi gemette, senza riuscire a trattenere tutte le lacrime che aveva ricacciato indietro fino a quel momento.
« Non sono abbastanza forte... » -Voluntas le aveva dato forza di vivere, ma il terribile peccato che le gravava sull'anima ancora la permeava del tutto, penetrandole nella pelle e rendendola fragile, vulnerabile, come di cristallo.
Ami la fissò, e lo fece così intensamente che Usagi ebbe l'impressione di essere trafitta da lame di ghiaccio. Tutte la guardarono. Per un attimo ebbe paura che sarebbe successo come quel giorno lontano e vicino, sul marciapiede. Invece, una voce si levò su tutte.
« Tu sei stata la nostra forza, un tempo. Adesso, vogliamo essere la tua » -Come non erano state in grado di fare per otto lunghi anni- « Il nostro compito è proteggere la Princess. È quello che abbiamo sempre fatto, e sarà quello che tutte noi faremo sempre. » -Makoto serrò il pugno sinistro e se lo portò sulla spalla destra, rizzando la schiena. A una a una, tutte le ragazze la seguirono, la imitarono. Si trovarono tutte affiancate, di fronte ad una Usagi che per la sorpresa aveva smesso di piangere; grottesche, con un'espressione di granito sul volto, quattro ragazze menomate le promettevano di combattere per lei. Di fermare una Catastrofe decisa dal Destino. Chi era, lei, per venire meno ad una così antica promessa?
Si sollevò lentamente, sulle ginocchia. Appoggiò la tazza sul tavolino, e si sollevò dritta sulla schiena. Non voleva supplicare, anche se lo sporco sulla faccia aveva lasciato che le lacrime le solcassero il viso, come una maschera di guerra. Non si preoccupò di cancellarne i segni. Al contrario, fieramente sollevò il mento e guardò le ragazze, una per una, questa volta senza averne paura. Promise a se stessa e a Chibiusa che non avrebbe lasciato un mondo morente. Che avrebbe trovato un modo di fermare la Catastrofe e che poi avrebbe anche trovato un modo di salvare la Natura. Che ce l'avrebbe fatta. Anzi, che ce l'avrebbero fatta. Sopra la pancia gonfia, sollevò il braccio sinistro con la mano stretta a pugno.
Se la batté sulla spalla destra.
« Noi siamo le Inner Senshi. Niente ci ha mai fermato. Niente ci fermerà. Vinceremo. » -Voluntas fu fiera di lei.

~

Areté era inquieta. Di nuovo. Sophìa quindi non si soffermò più di tanto sul fatto che avesse appena perso la sesta partita di scacchi consecutiva. Non che di solito ne vincesse –o anche solo pattasse- nemmeno una. Ma almeno, di solito, ci volevano sei ore. In mezz'ora l'aveva sbaragliata in modi che erano assurdamente stupidi anche per una principiante.
« Scacco matto » -Annunciò stancamente. Se ne stava seduta sul nulla, i suoi capelli vagavano per il piano astrale come onde. Appoggiò il gomito su un niente più solido e si rivolse alla sua compagna con più serietà- « Che hai che non va? »
Areté osservò la posizione del matto cercando di svicolarne. Forse Sophìa si stava sbagliando, per quanto raro fosse. Quella sesta partita le pareva di averla giocata un po' meglio, ma evidentemente il suo cervello la ingannava. Aveva fatto di nuovo fiasco. Si arrese all'evidenza e fece schioccare il dito sul Re bianco, che cadde con un tonfo addosso alla sua regina.
« Niente, pensavo alle ragazze. » -Allargò le braccia e si stirò, il sovraccarico molto meno evidente dell'ultima volta. Chi di loro non ci pensava? Un'allegra Kalìa le piombò alle spalle improvvisamente, gridando qualcosa di sconosciuto e aggrappandosi al suo collo e tirando per farla cadere. Inutile dire che Areté non si spostò di mezzo millimetro, ma si voltò lentamente per vedere chi fosse l'autore di quell'attacco indesiderato. Kalìa scese dalla sua schiena con l'espressione di un cane a cui sono appena stati negati dei croccantini.
« Qualche volta puoi anche fare finta di cadere » -Le disse lamentosa.
« Non oggi, Kalìa. Non oggi »
« Uffa » -Sbuffò lei- « Di che stavate parlando? » -Chiese con il suo fare luminoso e divertito mentre notava la scacchiera e il Re bianco rovesciato in una posa innaturale a ridosso della Donna. Sorrise- « Hai perso di nuovo. »
« Ah, stà zitta » -Sophìa ridacchiò.
« Ti sconsiglio di provocarla oggi, Kalìa. Potresti dover meritare un colpo di spada sul collo. O in faccia. Non sarebbe piacevole »
« Non rovinerebbe mai il mio bel faccino » -Areté sfoderò la spada con un'espressione cattiva, ma si vedeva che sul fondo nascondeva un sorriso.
« Vuoi scommettere? » -Scaturirono un paio urli e di risate fintamente maligne che spaventarono Psyché; la Nemesi accorse subito a vedere cosa stesse succedendo. Alla vista di Areté con la spada sollevata su una Kalìa scossa dalle risate e dalla paura fasulla, scosse la testa in disappunto.
« Che diavolo state facendo? » -Areté si voltò di scatto e si nascose la spada, grande due volte lei, dietro la schiena. Usciva da sopra la sua testa di un metro, ma lei sorrise come se non fosse assolutamente un problema. Sophìa si fece seria a una velocità superiore a quella della luce. Kalìa ci provò senza successo, scossa da risate silenziose più somiglianti ad un vago singhiozzo. Psyché si risparmiò la predica. Tanto, non sarebbe servita a niente. L'ottimismo che ultimamente prendeva tutti era un buon segno, tutto sommato, e aveva lei stessa visto le ragazze riunirsi poco prima. Insomma, forse qualcosa cominciava a funzionare. Si lasciò andare a un mezzo sorriso e si sedette accanto a Sophìa. Si rese subito conto che, nonostante il siparietto a cui aveva appena assistito, Areté era piuttosto strana e decisamente irrequieta. La posizione sulla scacchiera, con quel Re buttato a terra con secchezza, era prova ulteriore di quella sensazione. Nemmeno lei sarebbe riuscita a perdere in modo così platealmente idiota.
« Che cosa ti turba, Areté? » -Kalìa si era ricomposta e si era seduta con loro. Della risata di prima era rimasto solo un singhiozzo. Vero, però. Areté piantò la spada nel piano astrale e si decise a parlare.
« Pensavo alle ragazze » -Cominciò per la seconda volta- « Non siamo sovraccariche, ma Voluntas per una volta non ce la racconta giusta. »
Kalìa singhiozzò e fece un mezzo saltello. Psyché sgranò gli occhi. Sophìa non fece una piega. Tutte, con il loro silenzio, l'esortarono a continuare il discorso; la ragazza non le deluse. Prese a tirare i pezzi in piedi mentre parlava, rimettendoli nelle loro originali posizioni.
« Ecco, il fatto è che Usagi non ha tutti i torti. Il Destino parla, e parla chiaro. Distruggere una linea temporale, così... Sconvolgerla per sole cinque persone... Non so se è così giusto. Magari la natura dovrebbe fare il suo corso. O magari con impegno potremmo ricostruire Crystal Tokyo. » -Finì di aggiustare l'ultimo pedone bianco e rigirò la scacchiera. Toccava a Sophìa il bianco, e a lei il nero. Le piaceva di più, anche se sapeva che il bianco aveva un notevole vantaggio. Sophìa mosse distrattamente il primo pedone.
« Non possiamo... tenere... il piede in due scarpe... se mi capite... » -Partì Kalìa con un singulto ogni tre parole. Il proverbio non aveva nessuna contestualizzazione attuale, le Nemesi la guardarono con perplessità. Lei sbuffò, come se non avessero appena capito la cosa più facile del mondo, e con la pazienza di una maestra si apprestò a spiegarla- « Insomma... Voglio dire che... » -Un colpo sulle spalle la fece saltare di tre metri e perdere il respiro per qualche secondo. Areté le fece segno con il pollice.
« Adesso è passato. » -Kalìa la guardò con il terrore negli occhi, mentre muoveva l'alfiere. Areté se ne accorse e le sorrise- « Continua pure. »
Lei si prese un momento per fare la stizzita. Poi riprese il filo del suo discorso.
« Voglio dire che non possiamo scegliere entrambe le strade. O decidiamo di fermarla, o ci mettiamo a costruire una città che con tutta probabilità non esisterà mai, e se la Natura ci vince... Le riconsegniamo il mondo »
« E moriamo? » -La domanda di Psyché lasciò tutte un momento sbigottite. Sophìa finì di catturare un pedone, e poi si espresse in un mugolio che raccontava perfettamente tutta la sua perplessità.
« Senza umani, non siamo niente. » -Puntualizzò enciclopedicamente- « Tecnicamente sì, moriamo. Ma non la vedrei in questo modo. La vita è mutevole, e dovremmo ringraziare di questi anni insieme, non lamentarci se dovessero finire. Ci sarebbe nuova vita per noi, sono sicura. »
« Vuoi dire tipo resurrezione? » -Provò Kalìa.
« Voglio dire tipo rinascita »
« Vuoi dire tipo resa » -Sottolineò Areté. Sophìa restò zitta mentre Areté mandava avanti la Torre ad occupare una colonna aperta, visualizzando con precisione il suo piccolo campo di battaglia. Più Makoto diventava determinata, più sentiva la forza fluire via da se stessa. Si sentiva solo un'ombra, una custode. La verità era che quando era sovraccarica si sentiva un corpo. Utile. Adesso, sempre di più, era una fiasca vuota. L'unica cosa che poteva davvero fare era stare accanto a colei a cui dava vita. L'unica cosa che potevano fare, tutte, era proteggere nell'ombra. Vivere nascoste, come avevano sempre fatto, senza combattere. Senza entrare nel vivo dell'azione. Forse per lei combattere la Catastrofe era un modo per uscire da quel limbo fatto di Scacchi e di luce, e di parole e di siparietti comici. Sophìa le rispose istantaneamente prendendosi un suo Cavallo. Areté lo riprese con la Donna. Qualcosa le sfuggiva, sia dal campo che dalla scacchiera.
Psyché osservò la posizione ma rinunciò presto a una qualsiasi riflessione; a scacchi, non era affatto buona. Kalìa al contrario sembrava tutta presa ad elaborare strategie complesse e a dare suggerimenti una volta a destra, una a sinistra. Sophìa li smentiva tutti con garbo. Areté rimaneva in silenzio a pensarci. Poi, non li seguiva.
« Areté, non sempre la battaglia è combattimento. » -Areté sollevò la testa. Come aveva fatto a intuire quello che stava pensando? Ricordò che Sophìa aveva il dono dell'Empatìa. Pensare troppo, in sua presenza, era dannoso. Scosse la testa.
« Allora vuoi arrenderti, ho ragione » -Sophìa non disse nulla. Fece la sua mossa con calma, e poi guardò Areté.
« No, non voglio arrendermi. Ma comprendo la grande sofferenza che una grande scelta comporta. E sono sicura che la comprendi anche tu. La battaglia è anche strategia. La battaglia è anche tempo. La battaglia è anche posizione. » -Areté sospirò e portò la donna al centro del piccolo piano di gioco. Psyché e Kalìa guardavano estasiate, da una parte all'altra, aspettandosi un finale al cardiopalma.
« Sono filosofie da scacchiera. La battaglia è distruzione. La battaglia è impatto. La battaglia è fuoco. » -Psyché non era d'accordo con Areté anche se ne comprendeva le motivazioni. Anche lei voleva essere una nemesi attiva, anche lei avrebbe voluto aiutare Rei molto meglio che non stupidi consigli sussurrati. Avrebbe voluto alleviare meglio il suo dolore, che camminasse meglio nei suoi passi. Avrebbe voluto essere per lei necessaria. Invece, come Areté, si sentiva inutile e frustrata. Kalìa saltò su all'improvviso, in un modo che sorprese tutte e tre.
« Anche il Destino è una filosofia da scacchiera. Chi ha detto che l'alfiere si debba muovere in diagonale? Limitate di molto la sua personale libertà »
« Se non ci fossero regole da rispettare, Kalìa, ogni cosa cadrebbe in mano a Chaos. E sarebbe male. » -La corresse Sophìa con un sorriso scuotendo il dito, e fece la sua mossa.
« Era solo una metonimia, Sophìa! » -Sbuffò.
« Una metafora? »
« Sì, sì, e io cosa ho detto? Insomma, io non voglio muovermi solo in diagonale! » -Si lamentò con forza- « Io il Destino lo voglio sconfiggere. Non è di questo che stiamo parlando da otto anni? Di sbaragliare il Destino? Di muoverci come vogliamo e non come qualcuno ha deciso? » -Areté volle bene a Kalìa per quelle sgangherate parole. Sorrise divertita. Pscyhé ridacchiò, e Sophìa si prese la parola.
« Sì, è vero. È quello che desideriamo ma... non dobbiamo dimenticare quello che siamo. Anche io voglio cambiare il Destino, ma voglio anche fidarmi di Ami. Voglio che sappia che se cadrà, la prenderò. Forse voi credete che loro abbiano bisogno di principi o di armature scintillanti, ma non è questo il punto. Vi sbagliate. Hanno bisogno di qualcuno che attutisca la loro caduta quando sbagliano. » -Areté si fermò su quelle parole, mentre muoveva ancora il Re bianco sotto scacco. Improvvisamente, Sophìa non le sembrò tanto debole. Non le sembrò una persona arrendevole. Nei suoi occhi vide una caparbia determinazione che poteva essere anche più forte della stessa sua. E capì che forse, sulla battaglia, si sbagliava.
« Ed è così, che voglio fermare la Catastrofe. È così che voglio vincere. Ed è così che vinceremo » -Sophìa spostò la donna- « Scacco » -Areté prese il Re e lo spostò a destra- « Scacco Matto. »
Kalìa scoppiò in un grido ammirato, mentre Areté spalancava la mascella e Sophìa faceva cadere il suo re con l'indice, e saltellò battendo le mani. Psyché annuì con forza. E nemmeno la grande veemenza di Aretè poté contenere quelle parole. Se la battaglia è strategia, allora con Sophìa al loro fianco erano a cavallo. Le diede uno sguardo di approvazione, e lei capì. Con Sophìa nei paraggi, un pensiero era perfino troppo. Una quinta voce si unì ai gridolini di vittoria e di festa.
« Cosa state combinando, ragazze? » -Domandò Voluntas.
Tutte diressero gli occhi verso la loro leader, nello sguardo l'espressione del bambino appena pescato a rubare le caramelle o con le mani sporche di fango. Ci fu un momento di intesa. Kalìa sollevò le spalle.
« ...Niente! »

   
 
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