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Autore: Bran Lovecraft    13/10/2011    2 recensioni
Il buio, le tenebre, l'oscurità. Sono queste cose che terrorizzano la mente umana. Ma non tutte le paure nascono da situazione fisiche, a volte i meandri della mente sono assai più spaventosi di un pazzo psicopatico o di un mostro assetato di sangue. Questo è quello che scopre la protagonista di questo racconto. Buona lettura.
Genere: Dark | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il dolore alla testa era allucinante. Non fastidioso tanto quanto quel sapore di sangue e plastica che le inaspriva la bocca. Non riusciva a stendere braccia o gambe, si sentiva soffocare. Decise di aprire gli occhi per guardare dove fosse. Buio. Un buio angoscioso, claustrofobico. Lei detestava il buio. Almeno così credeva, perché a parte questa fobia verso l'oscurità non riusciva a ricordare nient'altro di sé stessa. Non ricordava come si chiamasse, perché si trovasse in quella situazione, con qualcosa che le tappava la bocca (e grazie al cielo non soffriva di attacchi di panico con conseguente asma che in questo caso le sarebbe stata fatale) . Aveva paura. Da una parte perché non ricordava più nulla di sé, dall'altra perché si trovava intrappolata in una specie di scatola buia, molto probabilmente imbavagliata. Riusciva comunque a percepire che quel qualcosa in cui si trovava era in movimento. Alla fine cadde di nuovo vittima della stanchezza e, nonostante lottasse per mantenere aperti gli occhi, Morfeo trionfò ed ella si addormentò. L'uomo fumava con cupidigia una sigaretta ormai quasi del tutto consumata, cercando di assorbire fino all'ultimo grammo di nicotina. Il fumo era sempre stato un suo vizio. Egli non aveva mai provato piacere nel bere quanto nel fumare. Le sigarette lo aiutavano a rilassarsi, a riflettere; si sentiva più sicuro. Stava guidando. Aveva trascinato la sua auto in una vecchia strada non asfaltata, circondata da alberi altissimi e, sebbene all'apparenza fossero silenziosi, all'uomo sembrava che gli sussurrassero qualcosa. Un ammonimento. Un invito a lasciare quella strada e a tornare indietro. L'uomo si diede del pazzo e ridendo tra sé e sé continuò dritto. Dopo un breve tragitto l'uomo fermò la macchina. C'era una specie di palude davanti a lui, avvolta da una nebbia fitta e angosciante. Aprì lo sportello ed uscì. Gettò la cicca a terra e la calpestò con la suola della scarpa, poi si mise le mani in tasca, estrasse un pacchetto e si accese un'altra sigaretta. Rimase lì a fumare, con la schiena appoggiata al cofano della macchina, osservando lo scenario che gli si calava davanti. Nella palude la vegetazione era meno rigogliosa, c'erano più arbusti e una melma verde che galleggiava a pelo d'acqua. I pochi alberi presenti erano privi di foglie e ricurvi su sé stessi, come dei vecchi ingobbiti dal peso degli anni e senza più la vitalità dei giorni verdi della loro esistenza. Di animali non se ne vedevano, a parte qualche sciame di insetti e il cadavere di uno scoiattolo le cui orbite, vuote e macchiate di sangue, erano diventate il pasto di alcuni corvi. Mosche e formiche, di certo molto meno schizzinose degli uccelli dalle piume blu-notte, si accontentavano della carcassa putrida e maleodorante. Sul pelo dell'acqua una libellula si spostava da una ninfea all'altra. Tip, tap, tip, tap, tip, tap. L'uomo aveva preso a tamburellare con le dita sul cofano della macchina. Finito di fumare, questa volta l'uomo gettò la cicca nella palude e il mozzicone di sigaretta annegò nelle torbide acque stagnanti. In seguito prese le chiavi della macchina e si diresse verso il bagagliaio e lo aprì. Al suo interno giaceva una giovane donna, addormentata. Era molto bella. Aveva un viso roseo e delicato come quello di una bambina, capelli biondi, dorati come il miele. Gli unici elementi che disturbavano quell'immagine serena erano il nastro che le copriva la bocca e il sangue secco che le imbruniva i capelli dietro la nuca. L'uomo la schiaffeggiò sulle gote, per svegliarla dal sonno. Presto le due palpebre si alzarono, rivelando occhi cerulei divorati dal terrore. “La mia bella bambina ha fatto il suo riposino?”, le chiese ironicamente l'uomo con un sorrisetto beffardo dipinto sul volto. “Ora paparino ti porterà a fare un giretto. Vedrai, sarà divertente.” La ragazza guardava l'uomo, spaventata e confusa. Non lo conosceva. Perché l'aveva rapita? Subito dopo si sentì palpare la schiena. Era la mano dell'uomo che voleva sollevarla per farla uscire dal bagagliaio. Un secondo dopo era accasciata a terra, polsi e caviglie legate. “Adesso il tuo papà ti toglierà il nastro dalla bocca. Potrai urlare quanto vuoi, tanto non ti sentirà nessuno. Siamo a miglia e miglia lontani dalla civiltà. Quindi risparmia il fiato.”, e con uno scatto l'uomo strappò il bavaglio dalla bocca della ragazza. Ella tossì e sputò un po' di sangue, alla fine fece un respiro profondo. Presto le narici furono inondate dall'odore disgustoso della palude. La ragazza cercò di trattenere un conato di vomito. Poi alzò lo sguardo sull'uomo. “Chi sei?”, sussurrò, la voce debole e raschiata. “Che cosa vuoi da me?” “Te l'ho detto, sono il tuo paparino e sono qui per farti fare un giretto.” La donna fece per parlare, ma si fermò. Il suo rapinatore aveva estratto qualcosa dalla tasca del suo giubbotto. Era un coltello. “No!! Ti prego, non farlo! Non uccidermi!”, cominciò a implorarlo lei. L'uomo la ignorò e si avvicinò alla sua preda. “No! Fermati! Ti giuro che farò qualunque cosa! Qualunque cosa, ma non uccidermi!”. Disperata, serrò gli occhi già sull'orlo delle lacrime. Secondi dopo gli riaprì per trovarsi con mani e gambe slegate. L'uomo non voleva ucciderla, ha solo voluto slegarla. “Ora alzati!”, le ordinò lui. Con fatica si rimise in piedi. Gli occhi scrutavano il posto in cui si trovava. Non lo riconosceva. E temeva che erano gli unici due esseri umani in tutta la zona, quindi era inutile gridare in cerca di aiuto o scappare. L'unica sua salvezza era la macchina. Ma come poteva rubare le chiavi all'uomo che l'aveva rapita e trascinata nel nulla? “Seguimi.”, disse l'uomo in modo autoritario. “Dove stiamo andando? Che cosa vuoi da me?”, gli chiese la donna. Il sequestratore la scrutò con attenzione per alcuni minuti, poi, con lo stesso sorriso beffardo di prima stampato sulle labbra, disse: “Vuoi sapere dove andiamo? Che cosa voglio da te?”. Lei annuì debolmente. Il dolore alla testa non era ancora scomparso. “Beh”, riprese l'uomo, “Tu lo sai cos'è questo?”. Stava indicando il coltello che teneva teso tra l'indice della mano destra e l'indice della mano sinistra. “Un coltello”, rispose fiaccamente la ragazza. “Esatto.”, disse, “E SE NON CHIUDI QUELLA CAZZO DI BOCCA, BRUTTA TROIA, GIURO CHE TE LO RITROVI DRITTO IN FACCIA. TI SQUARTO, PUTTANA! Tu non fai domande, hai capito? Tu fai solo quello che ti dico io, parli quando lo dico io. Sono stato CHIARO?” . Sotto il cielo nuvoloso e grigio il rapinatore era lì immobile, coltello in mano puntato contro la sua vittima, con gli occhi schizzati di sangue e quasi che volessero uscire fuori dalle orbite. La ragazza tremava, aveva paura. Sarebbe morta lì, pensò. Ma non poteva fare niente, se non ubbidire. I due si incamminarono su una piattaforma cigolante in legno che attraversava la palude, l'unico modo con cui si poteva raggiungere l'altra parte. Sotto di loro si udiva il gracchiare dei rospi e il rumore dei pesci che guizzavano fuori dall'acqua per catturare gli insetti. Dopo un paio di minuti giunsero dall'altra parte e davanti a loro si ergeva, maestosa e minacciosa, la figura austera di un vecchio maniero vittoriano. La vista di quella vecchia casa abbandonata da moltissimo tempo ricordava l'aspetto di un serpente. Le due fessure che fungevano da finestre erano i due occhi incantatori di un velenoso cobra, la rampa di scale che conduceva all'ingresso e che era rivestita da una tappeto color rosso scarlatto era la lingua biforcuta, e i mattoni e le tegole di un viola scuro erano le squame. L'uomo esitò un istante, poi prese il braccio della donna e la trascinò all'interno della casa. Tutto il pavimento, i muri e i mobili erano rivestiti da un folto strato di polvere. Non c'erano luci e il buio creò qualche problema alla vista, più dell'uomo che della donna che si era un po' abituata alle tenebre rinchiusa nel bagagliaio dell'auto. Il rapinatore trovò un vecchio candelabro e, con il suo accendino, fece un po' di luce. “Avanti, seguimi!”, ordinò alla ragazza. I due esplorarono il luogo fino a raggiungere un camino molto grande. C'era ancora della legna. L'uomo tentò di accenderlo, ma ben due volte i suoi tentativi fallirono. Si era dato per vinto anche la terza volta, ma con sua grande sorpresa la legna prese fuco e il camino illuminò la stanza. Subito un particolare catturò l'occhio della ragazza e del suo sequestratore. Un ritratto di un uomo appeso sopra il camino. Si trattava di un giovane, non doveva avere più di venticinque anni. Era di sicuro il ritratto dell'uomo che abitava il maniero, risalente alla fine del diciannovesimo secolo. La donna lo aveva dedotto dall'abbigliamento, dalla postura. Era un tipico dandy ottocentesco. Se sapeva queste cose (e dubitava che anche l'uomo che la teneva in ostaggio conoscesse queste cose), allora voleva dire che lei era qualcuno di importante, una donna colta, forse un'insegnante o una scrittrice. “Allora, dolcezza, che ne dici di dare inizio ai nostri giochi?”, la ricondusse alla realtà il rapinatore. “Che cosa vuoi dire?”, si azzardò a chiedere lei. “Beh, siamo qui per divertirci, no? Come mi sono divertito anche con le altre.” “Le altre?” “Sì, le altre ragazze come te. Le mie bambine. Io sono il tuo paparino, ricordi? “ “A dire il vero non ricorco molte cose. Non ricordo nemmeno come mi chiamo”, confessò lei. “Questo è perché ti ho dovuto dare una bella botta in testa per farti addormentare, baby. Non potevo mica rinchiuderti nel bagagliaio se eri cosciente.” La donna si portò una mano alla nuca e tastò la parte in cui era stata aggredita. Il sangue rarefatto, il dolore alla testa. Ora tutto aveva senso, o forse no. “Comunque il tuo nome non è importante!”, aggiunse l'uomo, “Questo mese mi sono divertito con altre due ragazze, in luoghi diversi ovviamente. Loro erano la Bruna e la Rossa. Tu, se non ricordi il tuo nome, sarai la Bionda.” “Ma tu chi sei?” “Che ne dici di L'UOMO CHE UCCIDE LE TROIETTE DEL CAZZO CHE NON SANNO TENERE LA LORO FOTTUTISSIMA BOCCA CHIUSA? Non ti avevo detto forse NIENTE DOMANDE?”. La pazzia tornò a dominare il suo sguardo, gli occhi iniettati di rosso, un filo di saliva sul labbro inferiore. La giovane era disperata, non sapeva cosa fare. Ma non poteva restarsene lì e aspettare di essere torturata, violentata, uccisa. Impulsivamente scappò via e raggiunse la prima porta nella casa. Quando si richiuse la porta alle spalle, il buio e il freddo la attraversarono fino a penetrarla nelle ossa. C'erano delle scale che portavano in basso. Doveva essere il seminterrato o la cantina. Sentì subito l'uomo menare contro la porta. Lei l'aveva chiusa a chiave, ma la casa era vecchia e lui era forte e non sapeva quindi quando avrebbe potuto resistere. Doveva uscire. Si fece coraggio e scese cautamente le scale, gradino per gradino, facendo attenzione a non scivolare. Sperava di trovare una finestrella, qualche passaggio che le permettesse di andarsene da quell'inferno. Maldestramente mancò gli ultimi gradini e finì con il cadere. Era atterrata su qualcosa di duro, sembrava legno. All'improvviso sentì la porta sbattere. L'uomo era riuscito ad entrare. Con candelabro a portata di mano, si fece strada fino a giù dove trovò la Bionda accasciata su una scatola di legno. No, non era una scatola. Si trattava di una bara. “Spostati, stronza!”, le gridò l'uomo e puntò il candelabro verso il sarcofago. La ragazza si era appoggiata contro la parete, ansia e panico la stavano mangiando viva. Riusciva a respirare a malapena. “Che cosa vuoi fare?”, chiese alla fine vedendo che il rapinatore stava cercando di aprire la cassa di legno. “Voglio vedere cosa c'è in questa bara e, nel caso fosse vuota, GIURO CHE TI CI METTO DENTRO COSI' NON SCAPPI PIU'!”, gridò lui. Con un po' di sforzo riuscì a sollevare il coperchio della bara. Un alone di polvere si alzò nell'aria e per qualche istante i due tennero gli occhi chiusi per proteggerli. Qualcuno giaceva nel sarcofago. Era la salma del giovane ritratto nel quadro. Indossava gli stessi abiti. Era molto pallido, quasi perlaceo, eppure il suo corpo era integro anche dopo così tanto tempo. L'uomo avvicinò il candelabro al volto del giovane per osservarlo più chiaramente. Anche la ragazza si sporse in avanti per la curiosità. Un colo di cera cadde dal candelabro e colpì il volto cadaverico del giovane. Poi tutto accadde molto velocemente. Due occhi, rossi come il fuco, si illuminarono nel buio del seminterrato. L'uomo urlò e barcollo indietro, ma con uno scatto felino il giovane si avvinghiò a lui e mordendolo gli strappò via il lobo dell'orecchio sinistro. Il sangue zampillò sul volto della ragazza, paralizzata contro la parete. Il rapinatore si accasciò a terra, agonizzante e ferito come un animale attaccato da un vorace predatore. L'appena risvegliato vampiro emise un urlo disumano e infine puntò alla carotide dell'uomo, canini affilati come sciabole, dissanguandolo fino al punto di morte. Dopo aver degustato la sua preda, il vampiro estrasse dalla sua giacca un fazzoletto di seta bianco e con una raffinatezza aristocratica pulì le macchie di sangue dalla sua bocca. La ragazza aveva preso a singhiozzare e guardava con occhi colmi di terrore il mostro che aveva appena divorato il suo sequestratore. Il vampiro si accorse della ragazza e, come un pipistrello, si avvicinò a lei, il volto del non morto a pochi centimetri dal volto dell'umana. Iniziò ad annusarne l'odore. Percepiva la paura, l'angoscia, la disperazione. E di ciò lui si rallegrava. Con la sua lingua il vampiro cominciò a leccare via tutto il sangue dal volto della donna. Disgustata, la ragazza respinse con la sua mano il viso del giovane. “Basta!”, implorava. Il vampiro sghignazzò. “Quest'uomo era il tuo fidanzato? Marito?”, chiese ad un tratto con voce soffice ed elegante. La donna scosse il capo come segno di risposta negativa. “Era un tuo cliente? Eri la sua puttana?”, insistette il non morto. “NON SONO UNA PUTTANA!”, si sfogò lei alzando di parecchio il tono della sua voce. “Ah, un bel caratterino vedo!”, commentò ironico il vampiro. “Ti prego, lasciami andare. Voglio solo andare via.”, lo supplicò. “Ma tu non hai idea di chi sei. Dove pensi di andare?”, la sorprese lui. In effetti non aveva tutti i torti. Non ricordava il suo nome, ignorava dove si trovasse e non aveva nemmeno un telefono o qualcos'altro per contattare un conoscente. Ben presto in lei si insinuò un senso di desolazione, che la portò alle lacrime. Il vampiro era apatico verso le emozioni della sventurata. La sua indifferenza caricava ancor di più la tensione nella stanza. Dopo un interminabile arco di tempo, il vampiro interruppe il silenzio. “Se me lo permetterai, posso dirti chi sei. Io ho il potere di farlo.” “Come?”, chiese la donna cercando di soffocare i singhiozzi. Il non morto non proferì parola, ma si limitò ad avvicinarsi alla donna. Con un gesto drammatico della mano egli condusse l'umana in terre sconosciute, i ricordi a lei tanto ignoti quanto ferventemente desiderati. Vedeva una sé stessa felice. Aveva realizzato il suo più grande sogno: quello di andare al college e studiare la tanto amata Letteratura inglese. Ma qualcosa stava cambiando. I suoi genitori non potevano più permettersi le spese universitarie. Lei doveva abbandonare i suoi studi. Era sconvolta, arrabbiata con il mondo. Poi l'idea barcollò nella sua mente, rapida come un dardo scagliato da un abile arciere. In fondo era qualcosa che voleva fare solo per continuare gli studi, non per altro. Così molti uomini cominciarono ad entrare nella sua vita, ed ognuno di questi ripagava giustamente il servizio ricevuto. Alla fine era arrivato il rapinatore. L'aveva incontrata in uno squallido motel e mentre aveva abbassato la guardia l'aveva colpita, un colpo di mazza da baseball alla nuca, la causa della sua temporanea amnesia. Il vampiro aveva ritirato la sua mano già da diversi minuti e la visione era scomparsa, ma i ricordi appena riottenuti tennero la donna con gli occhi chiusi, quasi non volesse più riaprirli per non affrontare le conseguenze di quello che la sua memoria aveva appena riacquistato. “Beh, dopotutto sei una prostituta.”, commentò ironico il non morto. Poi si mosse per attaccarla, ma qualcosa era scattato nella ragazza. Un senso di rivincita. “NOOO!”, gridò mentre il mostro mirava alla sua gola. Istintivamente afferrò il candelabro rimasto a terra e colpì il suo assalitore. La sua difesa le permise di rialzarsi, acciuffare le chiavi dell'auto dalla giacca del suo rapinatore e dirigersi sulle scale verso l'uscita. Correva, correva e correva. Infine si ritrovò fuori dal lugubre maniero a pochi passi dal ponte sulla palude. Purtroppo le tenebre erano calate ed ora anche l'esterno della casa era terreno di caccia per il famelico predatore della notte. Il dolore del colpo subito passò in un istante ed un arrabbiatissimo vampiro in un alone di fumo nero volò via dalla sua dimora fino all'esterno. Stava osservando possibili movimenti nella nebbia che copriva lo strato superficiale dello stagno. Si diresse verso la piattaforma di legno. Non c'era nessuno. Dove poteva essersi cacciata la ragazza? Non poteva aver percorso già tanto ed essere arrivata lontano in così poco tempo. Sotto il legno cigolante della piattaforma, nell'acqua ripugnante della palude, si nascondeva una figura dalla chioma dorata, cercando rifugio tra le ninfee e le canne. Ma c'era qualcos'altro lì, tra la melma. Era un serpente d'acqua, nero come la notte, viscido come la pelle di un defunto. La ragazza non riuscì a trattenere uno strillo alla vista dell'animale, ma era salva dal serpente. Due mani forti e fredde l'avevano trascinata sul ponte. Si trovava faccia a faccia con il mostro, pronto ad aggredirla bramoso del suo sangue. La donna strisciò indietro, gli occhi sempre puntati sulla minacciosa sagoma del vampiro. Poi qualcosa di appuntito le bucò il pantalone, tagliando leggermente la carne. E mentre il non morto le saltava addosso, ella afferrò l'oggetto. I due caddero nella palude. L'acqua nera e verde si tinse di rosso. Era il sangue di lei. Il sangue della sua ferita alla gamba destra, ma la ragazza era salva. Ora stava risalendo sulla piattaforma, lasciandosi alle spalle un corpo galleggiante. Era il vampiro, un paletto di legno conficcato nel petto in alto a sinistra. Il suo cuore era stato perforato, il mostro era distrutto. Zoppicando, la donna si diresse verso la macchina, salì a bordo e partì, abbandonando per sempre quel luogo di morte e orrore.
  
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