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Autore: mina_s    26/06/2006    12 recensioni
'Memorie di una geisha', di Arthur Golden. "Il presidente mi aveva detto che se Nobu non era riuscito a perdonarmi per quello che avevo fatto ad Amami, allora io non ero destinata a lui. In quel momento, per la prima volta, mi chiesi se era davvero così." L'ultimo, brevissimo incontro di Sayuri e Nobu.
Genere: Generale, Triste, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sakura

Era ormai da diverse settimane che non ero più una geisha.

Non portavo più gli eleganti zori neri laccati, i miei kimono non brillavano più sotto il sole come specchi, il mio obi non era percorso da delicati fili d’oro; non ero più un’attrattiva esotica per i passanti di Gion, né tantomeno una donna con cui passare le serate nelle case da tè a conversare e a farsi servire il sakè.

In un certo senso, provavo nostalgia per quel mondo così misterioso e raffinato, a cui sentivo ancora di appartenere pienamente.

Mi sembrava solo ieri il giorno in cui era avvenuto il mio mizuage, quella notte il quella graziosa locanda, assieme al Dottor Granchio. Erano passati davvero tanti anni, da quando era avvenuto il mio cambio del colletto?

Sorrisi amaramente al ricordo della mia casa ubriaca a Yoroido, alla morte dei miei genitori, ai continui maltrattamenti di Hatsumomo, alla mia caduta dal tetto e alle mie speranza infrante di diventare geisha.

E poi quel giorno, lungo il torrente Shirakawa, era avvenuto l’incontro con Il Presidente…

Quando si dice destino.

Ripensai al mio debutto, al generale che era stato il mio danna, agli anni passati ad inseguire e a sognare, giorno per giorno, il mio Presidente, a ciò che avevo fatto ad Amami per allontanare Nobu da me…

Mi venne un improvviso dubbio.

Avevo pensato a tutta la mia vita e l’avevo paragonata alla scalata di una montagna.

Tutto per me era stato in salita, niente per me era stato facile, da quel giorno, molti e molti anni prima, in cui il signor Tanaka mi aveva strappato alla mia casa ubriaca.

Aveva perfino pensato di lasciarmi scivolare giù per il pendio scosceso di quella montagna il giorno in cui, tentando di scappare dall’okiya, ero caduta dal tetto e la Madre aveva deciso di tenermi come un semplice serva. Avevo capito che non sarei mai stata geisha. Che senso aveva continuare a faticare, a camminare in salita, rischiando di scivolare sui ciottoli ad ogni passo? Tanto valeva interrompere la scalata e convincersi a vivere nella pianura.

L’avrei fatto, se il Presidente non mi avesse aiutato a continuare la mia scalata. Grazie al suo aiuto, ad ogni passo, sebbene il terreno diventasse sempre più ripido, mi ero fatta più forte, le mie gambe si erano abituate a faticare.

E ora, ora che avevo raggiunto la cima e che potevo riposare dalla scalata, ora che il Presidente era diventato il mio amante, ero in discesa, e stavo scendendo serenamente, tranquillamente, fiera di ciò che avevo fatto, fiera della mia forza e della determinazione.

Avevo commesso degli errori a volte, non avevo calcolato bene il percorso da seguire, ma chi non commette degli sbagli nella propria vita?

Credo che gli errori siano come le salse che vengono abbinate al sushi per renderlo più appetitoso; non sono indispensabili, eppure possono salvare da un’indigestione o, in alcuni casi, dall’avvelenamento.

Non avevo rimorsi, a parte…

Il conducente del lisciò si fermò di colpo, facendomi sussultare. Sporsi la testa per vedere cos’era successo. A quanto pareva, il lisciò su cui c’ero io aveva avuto un breve scontro con un altro, e ora i due conducenti la stavano facendo più lunga di quanto in realtà non occorresse.

Mi rimisi composta e presi a maneggiare il ventaglio che avevo ancora nell’obi. Avevo un appuntamento con Mameha nel suo appartamento, in viale Higashi-oji, e avrei desiderato occupare tutto il tempo che avevo a disposizione con lei.

Mi guardai. Com’ero diversa dai miei giorni di gloria!

Indossavo un semplicissimo kimono blu scuro con un obi cachi a piccoli rombi bianchi e avevo i piedi infilati in un paio di geta di legno.

Non che il mio Presidente mi considerasse meno bella di quando indossavo i kimono di Arashino e camminavo sotto un grazioso ombrellino arancione, con il viso nascosto sotto la cipria bianca e le labbra dipinte di rosso.

Io, per lui, sarei rimasta quella ragazza con gli occhi grigioazzurri che non aveva avuto paura di guardarlo negli occhi, quella piccola imbarcazione in balia della tempesta a cui lui si era posto come timoniere e che aveva tratto in salvo.

Volsi lo sguardo di lato per poter osservare quei magnifici ciliegi in fiore, i sakura, che fioriscono in primavera e per cui il Giappone è tanto conosciuto, quando il mio cuore fece un balzo.

Era come se, dalla mia mente, i miei pensieri avessero preso forma nel mondo reale.

Sotto a uno di quei ciliegi, con l’aria di una fenice del deserto, stava l’uomo di cui mi ero accinta a pensare poco prima.

Aveva un valigia di pelle nera in mano e indossava una cappotto grigioscuro molto lungo e un cappello del medesimo colore, ma io l’avrei riconosciuto in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo, pur non vedendo i suoi occhi.

Era Nobu, e mi guardava.

A bocca aperta, mi girai completamente verso la sua direzione per poterlo osservare meglio.

Notai che il cappotto era solo appoggiato alle spalle e intravidi, sotto, la manica rialzata fino alla spalla e fissata con una spilla d’argento. Il suo volto non era cambiato. E come avrebbe potuto? Povero Nobu, aveva ancora una parte del viso, il collo e l’orecchio deformati dalle cicatrici e dalle scottature.

Sembrava che manifestasse tutto il suo dolore e rancore attraverso lo sguardo. Alzò di un poco la testa, così che lo potei guardare negli occhi.

Mi sembrò che il mio stomaco, insieme a quello che avevo mangiato, si fosse ghiacciato, tanto fu il rimorso che provai nel rivedere l’uomo che mi aveva tanto desiderata per tutti quegli anni e che io avevo voluto raggirare per salvare la mia felicità.

Non sapevo esattamente cosa ci facesse lì in mezzo, di sicuro non mi aveva seguito dall’okiya fin lì, perché non l’avrebbe fatto di certo, dopo quello che doveva provare per me.

E in effetti quei suoi occhi erano… Beh, dire pieni di rancore, di disprezzo, di ira mi sembra banale e prevedibile, ma era così. Per rendervi conto, immaginate cosa potreste provare nel ritrovare un vecchio diario in cui avevate conservato memorie dolorose e che avevate sotterrato per non dover più rileggere. Forse, riuscirete almeno in parte a capire cosa stesse provando Nobu in quel momento.

Lui si aspettava di incontrarmi quanto io aspettavo di incontrare a lui, eppure la cosa non era così imprevedibile. Io, dopotutto, vivevo ancora a Gion, ma era ormai da diverso tempo che non vedevo né sentivo parlare di Nobu, e quindi incontrarlo per strada mi sembrava ormai impossibile.

Per diversi, elettrizzanti istanti rimanemmo a guardarci da lontano, senza salutarci, perché non avevamo motivo di essere felici del nostro incontro.

Io avevo trattenuto il fiato, lui sembrava del tutto tranquillo. Una persona che non poteva conoscere i fatti avvenuti tempo addietro non avrebbe trovato niente di strano nello sguardo di quell’uomo. Ma io, che sapevo quanto il destino era stato crudele con lui, e quanto io stessa, Sayuri, l’avevo fatto soffrire senza volerlo, potei in quell’istante intravedere gli occhi di uomo a cui la vita non aveva portato altro che dispiaceri, e di cui perfino l’ultima speranza si era spenta come una candela d’incenso, davanti ai suoi stessi occhi.

Nobu serrò le labbra. Non volevo salutarlo, non volevo tantomeno parlargli, non volevo neppure guardarlo, tanto era evidente il suo disprezzo nei miei confronti; ritornai a sedermi e abbassai lo sguardo. La vergogna mi si leggeva in faccia, e mi chiesi se Nobu, dentro di sé, fosse soddisfatto della mia reazione così penosa.

Nell’istante in cui chiusi gli occhi e il lisciò finalmente ripartì, una lacrima mi scivolò sulla guancia. Io la lasciai scorrere fino a sotto il kimono, prima di rendermi conto che probabilmente non avrei più rivisto il mio amico Nobu.

Improvvisamente in preda alla disperazione, mi sporsi dalla vettura e lo cercai con lo sguardo, scrutando fino a dove il mio occhio poteva vedere.

“Nobu-san…” bisbigliai, piangendo compostamente, mentre vedevo il punto in cui avevo visto il mio amico allontanarsi. Non riuscii a vederlo e tornai a sedermi.

Per tutto il tragitto i miei occhi continuarono a lacrimare e io ammirai i sakura in fiore, sperando che la visione potesse allietare il mio animo.

Ma non riuscivano a togliermi dalla mente l’immagine di Nobu di pochi minuti prima.

Ero talmente sconcertata che non mi asciugai nemmeno gli occhi con i fazzoletti di carta di riso che portavo sempre con me.

Il Presidente mi aveva detto che se Nobu non era riuscito a perdonarmi per quello che avevo fatto ad Amami, allora io non ero destinata a lui. In quel momento, per la prima volta, mi chiesi se era davvero così.

Certo era che, per tutta la mia esistenza, il mio scopo nella vita era stato l’avvicinamento al Presidente. Quello che avevo fatto sull’isola l’avevo fatto anche per poter stare vicino a lui, perché con Nobu la mia esistenza sarebbe stata… Mi limiterò a dire che non sarebbe stata come avrei desiderato che fosse.

Eppure, quando quel giorno rividi Nobu, non potei fare a meno di considerare me stessa senza cuore. Non avevo avuto altra scelta, eppure provai pena per quello che era sempre stato un amico.

Vederlo così distrutto- perché era distrutto, nonostante la collera verso di me- era stato come appoggiare la testa di piatto per terra avendo un’acconciatura tsubushi shimada: un…beh, ecco…un disastro.

I miei progetti sembravano sfaldati. Non avrei lasciato il mio Presidente per nulla al mondo, ora che, dopo tanto tempo, ero finalmente riuscita ad averlo, ma come potevo non pensare al mio povero amico Nobu, che avrebbe sacrificato tutto per me?

Ricordo che una volta, una delle tante sere che ci eravamo incontrati all’Ichiriki, lui aveva appoggiato un fiore di ciliegio sul tavolino, di fronte ai miei occhi; non ho mai saputo esattamente cosa avesse avuto intenzione di dirmi con quel gesto, ma quel fiore era così meraviglioso, così puro e giovane, che io l’avevo custodito gelosamente nella mia mano per diversi giorni, finché non era appassito.

E ora avevo rivisto lo stesso uomo sotto un albero dello stesso fiore.

Non esistevano scuse per quello che gli avevo fatto e per la delusione che gli avevo procurato e, anche se ci fossero state, lui non mi avrebbe certo perdonato.

Eppure desiderai avergli detto qualcosa, un’ultima volta, prima di vederlo scomparire per sempre dalla mia vita.

Non dissi mai del nostro incontro a nessuno, neanche al Presidente o a Mameha.

Eppure ora, quando rivedo un sakura in uno dei tanti parchi costruiti qui negli Stati Uniti per imitare i nostri giardini giapponesi, riappare sempre nella mia mente Nobu.

  
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