Missing.
Il cielo era carico di nuvole
temporalesche che a
est scagliavano lampi saettanti i quali, nella penombra carica
dell’odore della
pioggia, illuminavano i volti scavati dei quattro uomini raggiunti da
assordanti tuoni, unici rumori della radura. L’ufficiale Thad
Harwood si
strinse istintivamente nelle braccia quando un rombo particolarmente
potente
investì il suo gruppo di vedetta, strofinando i palmi
callosi delle mani sulla
superficie scavata dalle cicatrici degli avambracci.
Un ragazzo biondo, che da una
manciata di minuti
aveva iniziato a camminare lungo il solco scavato davanti la tendopoli,
gli
rivolse uno sguardo frettoloso, abbozzando un sorriso di circostanza.
Aveva
quasi ventidue anni e veniva dall’Arizona, il volto
abbronzato e le braccia
muscolose raccontavano un passato trascorso tra i campi prima che la
leva
militare lo costringesse ad arruolarsi e ad arrivare nel suo plotone.
L’ufficiale
non ricordava il suo nome, non ricordava il nome di nessuno dei suoi
uomini,
forse anche per colpa dei soprannomi che affibbiava a tutti fin dal
primo
momento, conscio della sua scarsa capacità di
memorizzazione.
Porcellana uscì in quel momento
scuotendo
la stoffa spessa che faceva loro da porta mettendosi a fianco del
generale,
incrociando le braccia pallide al petto.
«Pioggia.»
aveva detto alzando gli occhi al cielo,
riempiendoli del suo cupo grigiore «Non mi piace la
pioggia.»
Thad gli rivolse uno sguardo vacuo,
amareggiato dal
suo tono di voce cantilenante che spezzava l’incantesimo del
suo aspetto
efebico. Aveva una certa predilezione per quel giovane che nonostante
vivesse
da più di cinque mesi in condizioni disparate, tra granate e
bombardamenti
aerei, aveva conservato una particolare lucentezza, come se la guerra
non
riuscisse a scalfirlo, a intaccare l’opaca delicatezza della
sua pelle.
Socchiuse gli occhi sospirando
stanco e, facendo un
cenno ad Arizona, lasciò
a lui il
comando per quella sera; quello annuì, taciturno come al
solito, e quando prese
il suo posto fermando finalmente i tonfi dei passi pesanti,
poté sentirsi
tranquillo di lasciarsi alle spalle la desolata distesa che, a furia di
guardare, gli aveva riempito gli occhi di steppa e polvere. Scosse con
un
braccio la tenda, entrando nei pochi metri quadrati adibiti a
dormitorio dove
una ventina di brandine erano accatastate e, salendo una scaletta a
pioli un
po’ scardinata, si abbandonò sullo scomodo ammasso
di coperte sul suo letto.
Come previsto, dopo neanche un paio
di minuti, il
rumore martellante della pioggia iniziò ad echeggiare per
tutta la stanza,
svegliando chi ancora riusciva a dormire e facendo scattare chi
chiudeva solo
gli occhi, troppo teso o spaventato da quello che la mente poteva
riportare a
galla in momenti come quelli.
Il generale invece, sistemandosi
incrociando le
braccia dietro la testa, si lasciò cullare dal ticchettio
del temporale che
diventava sempre più violento. Era un rumore che lo
rilassava, riportandolo
indietro nel tempo, dove la pioggia era sinonimo di abitudine, dove
l’umidità
sulla pelle era all’ordine del giorno e il correre sotto
l’acqua era il
maggiore divertimento che una cittadina come Darrington, piccola
provincia
nello stato di Washington, poteva offrire.
Non pensava che allontanarsi da una
città che lo
aveva sempre fatto sentire fuori luogo lo avrebbe fatto soffrire
così tanto,
ogni volta che chiudeva gli occhi e che si abbandonava ai ricordi,
sentiva le
strade mal asfaltate passargli sotto le piante dei piedi, poteva vedere
distintamente il piccolo bar all’angolo della grande piazza
riempirsi la
domenica pomeriggio, con le persone felici e incuranti della guerra che
si
scatenava nel resto del mondo, riusciva ad ascoltare il chiacchiericcio
pettegolo delle vecchiette raccolte davanti la grande chiesa
protestante nata
negli anni venti.
Ogni particolare che tornava alla
mente era come un
colpo al cuore. Il susseguirsi delle immagini - la fontanella dietro
casa sua,
l’aratro di suo padre abbandonato in giardino, David e gli
altri ragazzi del
coro, la divisa rossa e blu della sua scuola - erano pugnalate che
aprivano
squarci dolorosi nel suo petto, ma non riusciva non pensarci. Poi,
quando la
pioggia si confondeva con il rumore dei suoi ricordi, arrivava lei.
Elisabeth
Hummel era stata il suo grande e rimpianto amore.
I lunghi capelli castani, mossi da
larghe onde
morbide creati per essere accarezzati dalle sue dita, gli occhi dello
stesso
colore del cielo subito dopo una tempesta e la pelle così
chiara che nei rari
momenti di sole sembrava brillare di luce propria. L’aveva
amata dal primo
istante, quando ancora il suo migliore amico la portava in giro come
una
bambolina, la fidanzata perfetta.
C’erano state le fughe
romantiche, le litigate nate
dai sensi di colpa e le riappacificazioni passionali. C’erano
state tante
lacrime a bagnare il volto perfetto della ragazza quando la lettera
dell’esercito arrivò, tanto che anche Blaine, il
suo ex migliore amico che in
una notte piovosa come quella aveva trovato le lettere innamorate che
si
scambiavano quando non potevano vedersi, aveva messo da parte tutto il
risentimento e tutto il dolore per consolarli quando i giorni prima
della
partenza diventavano troppo pochi e la loro separazione sempre
più definitiva.
Lei non era andata alla stazione
quando lui insieme
ad altri diciotto ragazzi avevano preso quel treno. Non lo aveva
salutato dalla
banchina vestita con il suo vestito migliore e un fazzoletto bianco
mosso dal
vento, non aveva mandato nessuna lettera e per quanto la tentazione
fosse forte,
neanche lui era mai riuscito a scriverle.
Gli mancava ma non aveva mai avuto
ripensamenti. Gli
mancava come poteva mancargli il respiro un attimo prima di annegare,
gli
mancava ma non si era mai neanche concesso il privilegio di piangere
per lei,
perché un soldato -un uomo- non piange.
Un tuono lo scosse violentemente
dal suo lieve stato
di dormiveglia, troppo forte e troppo vicino per non aver messo tutti
sull’attenti e il pensiero che avesse potuto provocare danni
lo fece scattare
seduto, pronto a saltare giù dal letto al primo avviso di
pericolo. Le voci dei
suoi uomini erano confuse fuori la tenda e nel caos del temporale non
riusciva
a scorgere che scorci di frasi.
Quando Arizona
entrò affannato nella tenda, un altro boato esplose alle sue
spalle e la sua
voce era strozzata quando parlò poco prima di accasciarsi al
suolo.
«A-attaccano.
Tedeschi…»
Vederlo cadere con la giacca sporca
di sangue e le
labbra tumefatte dal freddo tremanti negli ultimi spasmi vitali, veder
morire
un altro dei suoi uomini davanti ai suoi occhi lo annullò,
cancellando ogni
pensieri coerente, scivolando nella freddezza che si imponeva con
l’unico
pensiero rivolto alla salvezza dei suoi uomini e all’orgoglio
del suo paese.
«Maledetti
tedeschi!»
Erano sempre le stesse parole che
si perdevano nel
buio e nella pioggia. Sentì l’acqua scrosciante
bagnargli il viso e
appesantirgli i vestiti mentre si avvinava a Porcellana,
avvolto attorno alla sua arma che scrutava la notte.
«Come cavolo avranno
fatto a trovarci?» disse con
voce arrabbiata, sistemandosi tra lui e il muro che recintava la loro
base
temporanea.
«Non ne ho idea, dopo
l’attacco di due giorni fa al
loro accampamento di Posen qualcuno potrebbe averci seguito
oppure...»
«Non abbiamo cimici nel
nostro plotone, soldato!»
Stava con lui durante i momenti di
pericolo perché
era bravo anche se un po’ sospettoso, era un buon soldato e
aveva ammazzato un
sacco di tedeschi quando ce ne era stato bisogno, non aveva mai avuto
un
momento di titubanza ed era un perfetto secondo. E poi gli ricordava
Elisabeth
e voleva tenerlo al sicuro.
Quando il rumore assordate e
infondibile di un
Messerschmitt 162 sorvolò le loro teste stava ancora
pensando a lei e questo lo
distrasse quel poco che bastava per perdere il controllo. I rumori, i
dolori,
l’odore pungente del sangue e del sudore, tutto quello che lo
circondava e dal
quale solitamente cercava di estraniarsi per rimanere concentrato, lo
investì
in pieno petto.
Sentiva le raffiche di proiettili
provenienti
dall’alto e quelle che partivano a pochi metri da lui, poteva
ascoltare le urla
dei suoi uomini colpiti e riconoscere la voce di chi cadeva e di chi
invece
avrebbe potuto sopravvivere, sentiva tutto. Serrò gli occhi
e con una mano si
aggrappò al braccio del ragazzo che concentrato sparava
verso gli uomini che
nascosti dal buio cercavano di avvinarsi.
Lui si girò e un lampo
squarciò il cielo illuminando
tutta la radura e rivelando le posizioni dei tedeschi, illuminando il
viso di
Porcellana che lo fissava con un’espressione spaventata e con
gli occhi azzurri
splendenti che mostrava solo quando aveva il suo Browning M1919 tra le
braccia.
Aveva lo stesso sguardo di
Elisabeth e quindi Thad
sorrise. Il dolore che lo aveva colpito alla schiena era quasi
cancellato dalla
sensazione che prima di morire avrebbe potuto avere fisso nella mente
il colore
limpido e trasparente delle iridi della sua splendida donna. Aveva
sempre
pensato che sarebbe morto con il cervello e gli occhi pieni di polvere
e sangue
invece era contento che quel fulmine fosse arrivato contemporaneamente
alla
raffica di proiettili che lo avevano trafitto facendolo sanguinare
copiosamente.
La sua casa, la sua famiglia, il
suo amore, tutto
quello gli era sempre mancato, squarciato il petto negli ultimi due
anni ed era
quello che lo avrebbe accompagnato nella morte. Allontanarsi da
Darrington e da
Elisabeth era stata la decisione più dolorosa della sua vita
e quando si
accasciò al suolo con ancora gli occhi luminosi di Kurt - ecco, qual era il suo nome! si disse con
un lamento - fissi nei
suoi fu come esorcizzare ogni sofferenza.
Chiuse gli occhi.
Fine.
Cancelliamo nome, cognome e classe
e scriviamo
qualche appunto. Questa storia nasce per un tema per la mia prof di
italiano dalla
semplicissima traccia “Allontanarsi da un luogo o da una
persona cara è sempre
doloroso” che come al solito dice una cosa e poi ne fa
un’altra, visto che dopo
una domanda abbastanza esplicita “Posso scrivere un
racconto?” lei mi aveva
risposto di sì e invece mi ha messo sette con il punto
interrogativo perché non
inerente alla traccia in quanto non nella forma richiesta. Ma
incazzatura a
parte. Nasce, dicevo, nella mia testa come Hummerwood ma non sono stata
capace
di modificarla neanche dopo averla consegnata alla prof. Lascio
Elisabeth e
Kurt nel suo profondo OOC, ma perdonatemi per questa volta.
A
me, sinceramente piace. E mi meritavo di più *modestia
portami via*
Detto questo, baci,
Nacchan.