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Autore: braver than nana    20/10/2011    0 recensioni
Il generale invece, sistemandosi incrociando le braccia dietro la testa, si lasciò cullare dal ticchettio del temporale che diventava sempre più violento. Era un rumore che lo rilassava, riportandolo indietro nel tempo, dove la pioggia era sinonimo di abitudine, dove l’umidità sulla pelle era all’ordine del giorno e il correre sotto l’acqua era il maggiore divertimento che una cittadina come Darrington, piccola provincia nello stato di Washington, poteva offrire. [Thad Harwood x Elisabeth; Guerra]
Genere: Guerra, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Kurt Hummel, Warblers/Usignoli
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Missing.

 

Il cielo era carico di nuvole temporalesche che a est scagliavano lampi saettanti i quali, nella penombra carica dell’odore della pioggia, illuminavano i volti scavati dei quattro uomini raggiunti da assordanti tuoni, unici rumori della radura. L’ufficiale Thad Harwood si strinse istintivamente nelle braccia quando un rombo particolarmente potente investì il suo gruppo di vedetta, strofinando i palmi callosi delle mani sulla superficie scavata dalle cicatrici degli avambracci.

Un ragazzo biondo, che da una manciata di minuti aveva iniziato a camminare lungo il solco scavato davanti la tendopoli, gli rivolse uno sguardo frettoloso, abbozzando un sorriso di circostanza. Aveva quasi ventidue anni e veniva dall’Arizona, il volto abbronzato e le braccia muscolose raccontavano un passato trascorso tra i campi prima che la leva militare lo costringesse ad arruolarsi e ad arrivare nel suo plotone. L’ufficiale non ricordava il suo nome, non ricordava il nome di nessuno dei suoi uomini, forse anche per colpa dei soprannomi che affibbiava a tutti fin dal primo momento, conscio della sua scarsa capacità di memorizzazione.

Porcellana uscì in quel momento scuotendo la stoffa spessa che faceva loro da porta mettendosi a fianco del generale, incrociando le braccia pallide al petto.

«Pioggia.» aveva detto alzando gli occhi al cielo, riempiendoli del suo cupo grigiore «Non mi piace la pioggia.»

Thad gli rivolse uno sguardo vacuo, amareggiato dal suo tono di voce cantilenante che spezzava l’incantesimo del suo aspetto efebico. Aveva una certa predilezione per quel giovane che nonostante vivesse da più di cinque mesi in condizioni disparate, tra granate e bombardamenti aerei, aveva conservato una particolare lucentezza, come se la guerra non riuscisse a scalfirlo, a intaccare l’opaca delicatezza della sua pelle.

Socchiuse gli occhi sospirando stanco e, facendo un cenno ad Arizona, lasciò a lui il comando per quella sera; quello annuì, taciturno come al solito, e quando prese il suo posto fermando finalmente i tonfi dei passi pesanti, poté sentirsi tranquillo di lasciarsi alle spalle la desolata distesa che, a furia di guardare, gli aveva riempito gli occhi di steppa e polvere. Scosse con un braccio la tenda, entrando nei pochi metri quadrati adibiti a dormitorio dove una ventina di brandine erano accatastate e, salendo una scaletta a pioli un po’ scardinata, si abbandonò sullo scomodo ammasso di coperte sul suo letto.

Come previsto, dopo neanche un paio di minuti, il rumore martellante della pioggia iniziò ad echeggiare per tutta la stanza, svegliando chi ancora riusciva a dormire e facendo scattare chi chiudeva solo gli occhi, troppo teso o spaventato da quello che la mente poteva riportare a galla in momenti come quelli.

Il generale invece, sistemandosi incrociando le braccia dietro la testa, si lasciò cullare dal ticchettio del temporale che diventava sempre più violento. Era un rumore che lo rilassava, riportandolo indietro nel tempo, dove la pioggia era sinonimo di abitudine, dove l’umidità sulla pelle era all’ordine del giorno e il correre sotto l’acqua era il maggiore divertimento che una cittadina come Darrington, piccola provincia nello stato di Washington, poteva offrire.

Non pensava che allontanarsi da una città che lo aveva sempre fatto sentire fuori luogo lo avrebbe fatto soffrire così tanto, ogni volta che chiudeva gli occhi e che si abbandonava ai ricordi, sentiva le strade mal asfaltate passargli sotto le piante dei piedi, poteva vedere distintamente il piccolo bar all’angolo della grande piazza riempirsi la domenica pomeriggio, con le persone felici e incuranti della guerra che si scatenava nel resto del mondo, riusciva ad ascoltare il chiacchiericcio pettegolo delle vecchiette raccolte davanti la grande chiesa protestante nata negli anni venti.

Ogni particolare che tornava alla mente era come un colpo al cuore. Il susseguirsi delle immagini - la fontanella dietro casa sua, l’aratro di suo padre abbandonato in giardino, David e gli altri ragazzi del coro, la divisa rossa e blu della sua scuola - erano pugnalate che aprivano squarci dolorosi nel suo petto, ma non riusciva non pensarci. Poi, quando la pioggia si confondeva con il rumore dei suoi ricordi, arrivava lei. Elisabeth Hummel era stata il suo grande e rimpianto amore.

I lunghi capelli castani, mossi da larghe onde morbide creati per essere accarezzati dalle sue dita, gli occhi dello stesso colore del cielo subito dopo una tempesta e la pelle così chiara che nei rari momenti di sole sembrava brillare di luce propria. L’aveva amata dal primo istante, quando ancora il suo migliore amico la portava in giro come una bambolina, la fidanzata perfetta.

C’erano state le fughe romantiche, le litigate nate dai sensi di colpa e le riappacificazioni passionali. C’erano state tante lacrime a bagnare il volto perfetto della ragazza quando la lettera dell’esercito arrivò, tanto che anche Blaine, il suo ex migliore amico che in una notte piovosa come quella aveva trovato le lettere innamorate che si scambiavano quando non potevano vedersi, aveva messo da parte tutto il risentimento e tutto il dolore per consolarli quando i giorni prima della partenza diventavano troppo pochi e la loro separazione sempre più definitiva.

Lei non era andata alla stazione quando lui insieme ad altri diciotto ragazzi avevano preso quel treno. Non lo aveva salutato dalla banchina vestita con il suo vestito migliore e un fazzoletto bianco mosso dal vento, non aveva mandato nessuna lettera e per quanto la tentazione fosse forte, neanche lui era mai riuscito a scriverle.

Gli mancava ma non aveva mai avuto ripensamenti. Gli mancava come poteva mancargli il respiro un attimo prima di annegare, gli mancava ma non si era mai neanche concesso il privilegio di piangere per lei, perché un soldato -un uomo- non piange.

Un tuono lo scosse violentemente dal suo lieve stato di dormiveglia, troppo forte e troppo vicino per non aver messo tutti sull’attenti e il pensiero che avesse potuto provocare danni lo fece scattare seduto, pronto a saltare giù dal letto al primo avviso di pericolo. Le voci dei suoi uomini erano confuse fuori la tenda e nel caos del temporale non riusciva a scorgere che scorci di frasi.

Quando Arizona entrò affannato nella tenda, un altro boato esplose alle sue spalle e la sua voce era strozzata quando parlò poco prima di accasciarsi al suolo.

«A-attaccano. Tedeschi…»

Vederlo cadere con la giacca sporca di sangue e le labbra tumefatte dal freddo tremanti negli ultimi spasmi vitali, veder morire un altro dei suoi uomini davanti ai suoi occhi lo annullò, cancellando ogni pensieri coerente, scivolando nella freddezza che si imponeva con l’unico pensiero rivolto alla salvezza dei suoi uomini e all’orgoglio del suo paese.

«Maledetti tedeschi!»

Erano sempre le stesse parole che si perdevano nel buio e nella pioggia. Sentì l’acqua scrosciante bagnargli il viso e appesantirgli i vestiti mentre si avvinava a Porcellana, avvolto attorno alla sua arma che scrutava la notte.

«Come cavolo avranno fatto a trovarci?» disse con voce arrabbiata, sistemandosi tra lui e il muro che recintava la loro base temporanea.

«Non ne ho idea, dopo l’attacco di due giorni fa al loro accampamento di Posen qualcuno potrebbe averci seguito oppure...»

«Non abbiamo cimici nel nostro plotone, soldato!»

Stava con lui durante i momenti di pericolo perché era bravo anche se un po’ sospettoso, era un buon soldato e aveva ammazzato un sacco di tedeschi quando ce ne era stato bisogno, non aveva mai avuto un momento di titubanza ed era un perfetto secondo. E poi gli ricordava Elisabeth e voleva tenerlo al sicuro.

Quando il rumore assordate e infondibile di un Messerschmitt 162 sorvolò le loro teste stava ancora pensando a lei e questo lo distrasse quel poco che bastava per perdere il controllo. I rumori, i dolori, l’odore pungente del sangue e del sudore, tutto quello che lo circondava e dal quale solitamente cercava di estraniarsi per rimanere concentrato, lo investì in pieno petto.

Sentiva le raffiche di proiettili provenienti dall’alto e quelle che partivano a pochi metri da lui, poteva ascoltare le urla dei suoi uomini colpiti e riconoscere la voce di chi cadeva e di chi invece avrebbe potuto sopravvivere, sentiva tutto. Serrò gli occhi e con una mano si aggrappò al braccio del ragazzo che concentrato sparava verso gli uomini che nascosti dal buio cercavano di avvinarsi.

Lui si girò e un lampo squarciò il cielo illuminando tutta la radura e rivelando le posizioni dei tedeschi, illuminando il viso di Porcellana che lo fissava con un’espressione spaventata e con gli occhi azzurri splendenti che mostrava solo quando aveva il suo Browning M1919 tra le braccia.

Aveva lo stesso sguardo di Elisabeth e quindi Thad sorrise. Il dolore che lo aveva colpito alla schiena era quasi cancellato dalla sensazione che prima di morire avrebbe potuto avere fisso nella mente il colore limpido e trasparente delle iridi della sua splendida donna. Aveva sempre pensato che sarebbe morto con il cervello e gli occhi pieni di polvere e sangue invece era contento che quel fulmine fosse arrivato contemporaneamente alla raffica di proiettili che lo avevano trafitto facendolo sanguinare copiosamente.

La sua casa, la sua famiglia, il suo amore, tutto quello gli era sempre mancato, squarciato il petto negli ultimi due anni ed era quello che lo avrebbe accompagnato nella morte. Allontanarsi da Darrington e da Elisabeth era stata la decisione più dolorosa della sua vita e quando si accasciò al suolo con ancora gli occhi luminosi di Kurt - ecco, qual era il suo nome! si disse con un lamento - fissi nei suoi fu come esorcizzare ogni sofferenza.

Chiuse gli occhi.

 

Fine.

 

Cancelliamo nome, cognome e classe e scriviamo qualche appunto. Questa storia nasce per un tema per la mia prof di italiano dalla semplicissima traccia “Allontanarsi da un luogo o da una persona cara è sempre doloroso” che come al solito dice una cosa e poi ne fa un’altra, visto che dopo una domanda abbastanza esplicita “Posso scrivere un racconto?” lei mi aveva risposto di sì e invece mi ha messo sette con il punto interrogativo perché non inerente alla traccia in quanto non nella forma richiesta. Ma incazzatura a parte. Nasce, dicevo, nella mia testa come Hummerwood ma non sono stata capace di modificarla neanche dopo averla consegnata alla prof. Lascio Elisabeth e Kurt nel suo profondo OOC, ma perdonatemi per questa volta.

A me, sinceramente piace. E mi meritavo di più *modestia portami via*


Detto questo, baci, Nacchan
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