CAPITOLO PRIMO: KIMINOBU
Ed era di nuovo inverno.
Il secondogenito dei Kogure strizzò gli occhi per difenderli da una
folata di vento gelido.
Era di nuovo inverno. La stagione più odiata.
«Mio signore, non state alla finestra. Prenderete freddo.»
La voce premurosa gli giunse alle orecchie e alla comprensione con
abbondante ritardo. In tempo perché il capitano lo raggiungesse - passi di
soldato sul marmo guantato di tappeti - e chiudesse con delicatezza un'imposta.
«Guardavo la neve» mormorò, distante.
«Ancora un po' e ne sareste stato ricoperto» replicò il capitano, con
voce affettuosa, accennando ai primi fiocchi che cadevano lenti dal cielo.
«Non sarebbe stato tanto male...» sussurrò lui.
Al capitano si strinse il cuore nel petto. «Mio signore... che cosa vi
turba?» Prese la sua mano sopra il davanzale di gelida pietra, e pur attraverso
il cuoio dei guanti la trovò ghiacciata. «Allontanatevi dalla finestra, vi
ammalerete.» Senza abbandonare la sua mano, stretta saldamente nella destra, con
la sinistra chiuse anche l'altra metà della finestra. Poi condusse il
secondogenito del suo signore fino al divanetto basso vicino al camino.
«Sapete che, qualsiasi cosa vi turbi, io sono qui per ascoltarvi»
insistette, gentilmente.
L'erede dei Kogure chinò il capo, nascondendosi dietro i lunghi ciuffi
castani. Con un'audacia che chiunque, a castello, avrebbe disprezzato, ma che
per lui era il normale agire, il capitano gli sollevò il viso con due dita.
«Qualsiasi cosa» ripeté, sottovoce.
Kiminobu Kogure emise un flebile sospiro. «Proprio perché so che sei
pronto a condividere con me ogni... motivo di turbamento...»
«Qualsiasi!» ripeté l'altro, accorato.
«... non voglio parlartene, Hisashi.» Scosse la testa. «Perché sei
entrato?»
«Mi manda vostro padre» rispose il capitano, con una vena di tristezza
per il rifiuto appena ricevuto. «Vuole conferire con voi...»
«Il capitano delle guardie Hisashi Mitsui relegato al rango di
messaggero?» scherzò Kiminobu, dolcemente.
«Ho fatto in modo di essere la persona più vicina, in quel momento»
rispose Hisashi, con un sorriso. Strinse più forte la mano del suo signore tra
le proprie. «Vi attende nel salottino di lady Aya... nel salottino al primo
piano. C'è anche vostra madre.»
Al mezzo nome della sorella, Kiminobu alzò gli occhi di scatto. «So già
quello che devono dirmi. Ma perché lì?»
L'ultima volta che i reali Kogure avevano desiderato conferire con uno
dei loro figli nel salottino (Ayako, quella volta), le conseguenze erano state
disastrose.
Ma stavolta non sarebbe andata così. Lo sapevano, lord Takenori e lady
Haruko di Shohoku. Lui non sarebbe fuggito.
Si alzò. Purché gli lasciassero continuare i suoi studi. I suoi studi,
sì. Non contava nient'altro. Glieli lasciassero continuare, e avrebbe fatto come
volevano. Non chiedeva di più.
«Vengo con voi.»
Davvero non chiedeva altro? Guardò Mitsui e si sentì male, come mai fino
a quel momento. Avrebbe dovuto lasciare anche lui. Dèi. Si sentì straziare a
questo pensiero. «No.»
Il capitano Mitsui si bloccò, sorpreso.
«Non voglio che ci sia anche tu.»
«Mio signore...»
«No, Mitsui. Questa volta no.»
Il soldato chinò il capo, in un inchino formale. «Come milord desidera.
Mi è concesso almeno aprire la porta a milord?»
Kiminobu gli prese il viso tra le mani. «Quando mai ti ho nascosto
qualcosa, Hisashi? Eh? Ti conosco da troppo tempo. Tu e Hiroaki siete gli unici
di cui mi fidi ciecamente, e lo sai.»
Mitsui deglutì. «Ma non volete che vi accompagni.»
«Non ti piacerebbe ciò che vedresti.» Sconfitto. Piegato. Senza un
briciolo di volontà. Non voglio che tu mi veda così, Sashi. Non voglio.
«Saprai tutto prima di sera. È una promessa.»
«È un fatto così grave, mio signore, da togliervi la luce dagli occhi...
e voi non volete che io vi sia accanto» mormorò. «Come desiderate.» Andò alla
porta, l'aprì senza enfasi. «Dopo di voi, milord.»
Tre anni prima, nel salottino bianco, Ayako aveva chinato il suo
grazioso capo per la prima e ultima volta nella sua vita. Era stato
impressionante, per Kiminobu, vedere l'altezzosa sorella piegarsi con tanta
rassegnazione. Ma una fugace strizzatina d'occhio gli aveva dato l'esatta
dimensione della sua sincerità.
Cioè, nulla.
Nottetempo il bandito che le aveva rubato il cuore e la verginità, tale
Ryota Miyagi, capitano del vascello corsaro nascostosi nella rada più vicina, si
era infiltrato nel castello. I servi, corrotti a dovere, non avevano visto né
sentito nulla. Il corsaro aveva raggiunto in silenzio le stanze della
primogenita dei Kogure, l'aveva trovata vestita di morbidi calzoni di pelle, una
semplice camiciola bianca, i lunghi riccioli neri legati in una coda alla foggia
delle serve. Aveva una piccola valigia a mano, che poteva contenere sì e no un
decimo del suo guardaroba.
L'aveva baciata a lungo e stretta a sé fino a costringersi a credere che
sì, era tutto vero. Poi erano fuggiti insieme.
La mattina dopo, il vascello aveva abbandonato la rada, e Akira Sendo
aveva perso la sua futura sposa.
Tutto questo, Kiminobu lo sapeva perché la sorella gli scriveva lunghe e
frequenti lettere per informarlo della sua vita. Era felice. Miyagi l'amava come
il principe Sendo non avrebbe fatto mai - se pure quell'uomo era capace di amare
qualcuno oltre se stesso. La vita sul vascello pirata era stata dura, i primi
tempi, perché nessuno sembrava disposto a farle sconti per il suo retaggio: ma
Ayako non ne aveva chiesti e si era rimboccata le maniche. Si era fatta
accettare per qualcosa di più che per l'etichetta di «amante del capitano».
Fu a metà del secondo anno che arrivò a Kiminobu una lettera con uno
strano nastrino azzurro incollato alla busta.
Aprì e capì. Ayako era incinta.
"... Ryota ed io andiamo a vivere in Shoyo, fratellino! Hai capito
bene: abbandoniamo la vita di mare, i saccheggi e i combattimenti. Del resto, il
nostro bambino - me lo sento, è un maschio - non può mica nascere sul ponte
della Tempesta, ed era da un po' che Ryo ed io meditavamo di lasciare questa
vita. Con i soldi che possediamo potremo vivere più che bene: abbiamo pensato di
aprire una locanda..."
Il bambino era nato puntualissimo, nove mesi dopo.
"... non ho pensato al nome fino all'ultimo, come vuole la
tradizione. Ma quando Ryota l'ha avuto tra le braccia e ha guardato fuori,
l'acero che abbiamo piantato in giardino non appena siamo arrivati qui, l'ho
sentito mormorare: «Kaede». E ho deciso che quello doveva essere il suo nome."
A Kiminobu non sarebbe toccata una sorte altrettanto felice, ma lo
sapeva, lo sapeva già, sin da quando si era iniziato a vociferare - era stato
poco dopo la nascita di Kaede - che il principe Sendo avesse rifiutato tutte le
principesse che gli erano state offerte in moglie perché incapace di dar loro
figli. E, aggiungevano le voci più impudenti, incapace non perché sterile. Il
principe Sendo - malignavano le malelingue - da diverso tempo preferiva i
giovanotti.
Entrò nel salottino bianco, quello tanto amato da sua sorella, con la
morte nel cuore.
«Maledizione!» Il boccale, ancora colmo per metà, andò a infrangersi con
uno schianto contro il muro della cucina, e ricadde al suolo in mille cocci
innaffiati di vino.
«Mitsui, calmati» disse Koshino, posandogli una mano sul braccio.
«Calmarmi? Mi stai chiedendo di calmarmi?» ruggì il capitano.
«Ti sto chiedendo di fare appello al tuo buonsenso» ribatté Hiroaki,
senza accennare a diminuire la stretta. «Non otterrai niente facendo così.»
«Koshino, io lo ammm...!»
«Zitto! Sta' zitto!» sibilò il vice-capitano, tappandogli la bocca con
forza. «Hai bevuto troppo, e straparli. È meglio se te ne torni nella tua stanza
e ci dormi su.»
Mitsui si liberò della sua mano con un gesto violento. «Tu non puoi
capire!» ringhiò, tirandosi su dalla panca. «Tu non provi per lui un decimo
dell'affetto che io...»
«Stammi a sentire, capitano» sibilò Koshino, posando una mano pesante
sulla sua nuca. «Non sei l'unico qui che gli debba la vita. Non sei l'unico che
gliel'abbia consacrata. E non sei l'unico che vuole il suo bene! Quindi taci e
smettila di dire scempiaggini!»
Mitsui si scostò. Era leggermente ubriaco. «Tu non puoi capire, Kosh.
Non puoi capire!»
«Sei tu che devi capire. Non ha scelta.»
«L'avrebbe, se...»
«Se?» Koshino lasciò che la sua espressione si addolcisse un po', ma
solo un po'. Mitsui doveva comprendere che le sue ragioni non valevano nulla, in
quella circostanza. Anche a lui faceva male il cuore al pensiero di Kiminobu
sposato con quell'arrogante di Sendo, ma... loro non contavano nulla. «Non
fuggirà come sua sorella. Lo sai. Rassegnati,» le pupille di Mitsui si
dilatarono, «sarà meglio per tutti.»
«Ma che cuore hai, Koshino?» gridò il capitano. «Dopo tutto quello che
ha fatto per te... Dèi del cielo, ti ha accolto, ci ha accolti in questo
castello quando l'alternativa era la forca! Sei... sei solo un ingrato, Hiroaki
Koshino!»
Il vice-capitano, di molto più basso del suo superiore e amico, si alzò
e con flemma gli abbatté uno schiaffo sulla guancia. «Vai a dormire, Mitsui. Se
ti vedesse in questo stato, gli faresti solo schifo.»
CINQUE ANNI PRIMA
«Bene» ridacchiò Mitsui, appoggiando il capo contro la fredda parete di
pietra. «Ci siamo arrivati, alla fine.»
Koshino si mosse leggermente, facendo tintinnare le catene che gli
serravano i polsi. «Cosa c'è da ridere?»
«Nulla, Kosh. Assolutamente nulla. È per questo che rido.» Strinse i
denti. «Per non piangere.»
«Non è giusto!» esalò Koshino, chiudendo i pugni. «Per un tozzo di pane,
dèi...»
Mitsui respirò l'aria gelata e fetida di paglia bagnata della prigione,
tirando su col naso. Gli sarebbe venuta la polmonite, a stare lì... Ma non ci
sarebbe rimasto più di tanto, si ricordò con ironia amara. «Quanto manca?»
Koshino diede uno sguardo al cielo, tagliato a righe dalle sbarre della
finestrella. Era la decima volta in pochi minuti. «Quanto mancava prima, meno
qualche minuto» mormorò. «Finiscila di chiedermelo.»
«Così il tempo passa più lentamente, non lo sai?»
Koshino espirò. «Non lo sopporto. Vorrei dormire e non svegliarmi fino a
domattina... sarebbe meglio.»
«È l'ultima notte, Kosh...»
«Non ha niente di speciale, è solo l'ultima» borbottò.
Ironia della sorte, avevano dato loro come ultimo pasto del pane fresco
e fragrante, forse cotto apposta. E loro, che per rubarne un tozzo raffermo
erano finiti in quella segreta, non avevano più fame. Tanto, non ci sarebbero
arrivati comunque. La pagnotta restava, lontano tormento, a indurire da sola sul
freddo vassoio di metallo.
Lo Shohoku era un regno povero, e le sue leggi contro i ladri erano le
più rigide dei Quattro Regni. Ma se lo Shohoku e i suoi abitanti non fossero
stati così poveri, loro non si sarebbero ridotti a dover rubare una crosta a un
altro poveraccio.
«Che avresti fatto, in un'altra vita?»
Koshino si riscosse a malincuore. Era quasi riuscito a prendere sonno.
«Non lo so.»
«Io avrei fatto il soldato. Non il mercenario, dico il soldato in un
esercito regolare, con la mia bella uniforme e tutto, spada che luccica e
stipendio puntuale. Sì. Mi sarebbe piaciuto. Tu che avresti fatto, Kosh?»
L'amico si strinse nelle spalle, pensando. «Forse... il soldato, forse
sarebbe piaciuto anche a me.»
«Oppure?» insistette Mitsui, indispettito che l'altro gli copiasse il
suo sogno.
«Oppure... avrei imparato a suonare uno strumento. Avrei fatto il
menestrello. Mi sarebbe piaciuto anche questo.»
Mitsui sospirò, lentamente. «Sono contento di morire con te, Kosh.» Tese
la mano nella sua direzione, ma era inutile, l'altro non poteva raggiungerlo.
Erano incatenati ai lati opposti della cella. Non arrivavano neppure al
vassoio col pane, sadicamente posto al centro della stanza.
Nella penombra, Koshino tese la mano verso di lui. «Anch'io sono
contento di morire con te, Mit» mormorò.
«Padre?»
«Mmm?» Lord Takenori Kogure di Shohoku alzò gli occhi dalle sue carte.
«Cosa c'è?»
«Ripetetemi quello che avete appena detto, vi prego.»
Il Re calò gli occhiali sul naso, guardando con perplessità il suo
secondogenito. Aveva un rossore strano sulle guance, insolito per il suo
colorito pallido. Riprese l'ultimo foglio e rilesse: «Mitsui, Hisashi. Anni: 16.
Koshino, Hiroaki. Anni: 15. Furto di: viveri. Condanna: morte».
«Sono loro!» esclamò Kiminobu, strappando il foglio di mano al padre.
«Quelli che mi hanno salvato dai banditi l'altra mattina! Sono loro!»
«Ne sei certo, Kiminobu?»
«Assolutamente!» Kiminobu fissò gli occhi in quelli neri del padre,
risolutamente, e sostenne il suo sguardo indagatore per un lungo istante. Solo
in questo modo avrebbe potuto convincerlo. «Non li potete mandare a morte»
riprese, in tono calmo. «Sono in debito con loro.»
«Kiminobu.» Il Re si sfilò gli occhiali, posandoli sul tavolo. «Non è
possibile revocare una sentenza già emessa.»
«L'importante è che non sia già stata eseguita» ribatté il
secondogenito, con forza. «Qui dice che moriranno... questa mattina!»
«È troppo tardi, Kiminobu» disse il Re, accennando all'alba che si
affacciava nel cielo.
Aveva sempre trovato in Kiminobu un collaboratore eccellente e
instancabile, malgrado la giovane età. Quella era solo una delle tante notti che
avevano passato insieme, a vagliare i documenti più importanti che giungevano da
ogni parte del regno.
«Non è troppo tardi» ribatté, scattando in piedi. «Datemi il permesso di
revocare quella sentenza, e farò in tempo.»
«Kiminobu...»
«Dovete loro la vita di vostro figlio, mio signore. Dimostratemi quanto
vale. Vi prego.»
«Kiminobu, è la legge» disse il Re, riluttante.
«Voi siete la legge, padre. Sono solo dei ragazzi, hanno rubato del cibo
per non morire di fame.» Tese la mano. «Datemi il vostro sigillo. Vi prego.»
Con un sospiro, lord Takenori lasciò cadere sul suo palmo il grosso
anello d'oro che portava al medio della destra, quello con il quale siglava la
ceralacca dei messaggi più importanti. «Fa' presto.»
«Volerò, padre.»
Mentre correva fuori dalla stanza e lungo i corridoi del castello,
Kiminobu cercò di ignorare il senso di colpa che sentiva stringerlo al petto.
Non avrebbe voluto mentire a suo padre, ma non aveva avuto scelta. Non poteva
lasciare che due ragazzi morissero per aver rubato un pezzo di pane. Non
l'avrebbe permesso.
Esistevano le bugie, e le bugie a fin di bene. La sua, all'inizio, era
stata una semplice bugia. Si era attardato da solo, la mattina precedente, senza
scorta, a studiare una varietà di erbe medicinali che aveva preso a crescere
spontaneamente nel bosco appena fuori città. Così tanto che, quando era tornato
a casa, stanco e soddisfatto, si era trovato schierato a guerra l'intero suo
corpo di guardia.
Aveva dovuto inventare la storia che alcuni banditi avevano tentato di
derubarlo... ma due persone coraggiose l'avevano difeso e si erano poi dileguate
senza chiedere ricompensa.
Era stata una bugia meschina, perché la sua scorta era stata punita per
la sua negligenza. Suo padre li avrebbe fatti frustare tutti, dal primo
all'ultimo, se non fosse stato per le preghiere di Kiminobu. Cui, bisogna dirlo,
rimordeva terribilmente la coscienza.
Ma ora... questa era una bugia a fin di bene. Sì. Pronunciata per
salvare due vite. Non se ne sarebbe pentito.
Stringendo nel pugno l'anello, troppo grande per le sue dita sottili,
scese nelle stalle e, aperto il box di Hanamichi, il suo sauro dalla criniera
fulva, gli montò in groppa senza sella, posando il piede sul puntello che aveva
fatto conficcare nella parete di legno.
«Vai, bello» mormorò, malamente abbracciato al collo dell'animale.
«Dobbiamo salvare la vita a due persone, capito? Corri come se avessi in groppa
Ayako.»
Al nome della principessa, amazzone spregiudicata, Hanamichi diede un
nitrito e uscì al galoppo dal box. Forse nominarla non era stata un'idea
brillante, ma adesso era sicuro che il sauro avrebbe galoppato al massimo delle
sue possibilità.
«Kosh?»
«Mmm...»
«È l'alba...»
Hiroaki alzò il viso, stancamente. Un singolo raggio di luce tagliato
dalle sbarre batteva sui suoi occhi.
«Hai la faccia a righe, Kosh» mormorò Mitsui. Aveva voluto essere un
sogghigno, ma il tono era tutt'altro che allegro. «Sei riuscito a dormire?»
domandò.
«A tratti» rispose, con voce impastata.
Era la prima volta che vedere l'alba non gli procurava sollievo. Nella
vita che avevano condotto fino a quel momento, rivedere il barlume del sole al
mattino significava poter vivere ancora un giorno. Significava che nessuno ti
aveva pugnalato nel sonno, per derubarti o per il solo piacere di farlo.
Ma quell'alba era messaggera di morte, non di vita.
Chiuse gli occhi, stringendo forte le palpebre.
Non avrebbe pianto. No. Se l'erano giurati. Non avrebbe pianto.
«Io non ti sto guardando, Kosh» mormorò Mitsui, alzando gli occhi al
soffitto. «Non vedo e non sento niente. Quindi fai un po' come ti pare.»
Koshino annuì, confortato, e lasciò che scorressero, quelle lacrime
assassine che gli bruciavano gli occhi, dagli zigomi alla gola. Non ne avrebbe
ricavato un gran sollievo, ma almeno se ne sarebbe liberato.
«Stanno arrivando, Kosh.» La voce di Mitsui tremava. «Senti?»
Koshino chiuse gli occhi. I passi della sentinella al solito giro? No,
quella aveva attraversato il loro corridoio pochi istanti prima. Questi erano
passi diversi... concitati... più d'una persona, certamente. Avvertì il
tintinnio di un grosso mazzo di chiavi.
«È la fine» sussurrò, ingoiando le ultime lacrime. Si asciugò in fretta
il viso, deciso a non dare alcuna soddisfazione ai loro aguzzini, e inspirò
profondamente. «Addio, Mit.»
«... addio, Kosh.»
La porta si aprì con lentezza. Da dove si trovava, Koshino non poteva
vedere i nuovi venuti, finché restavano al di là della soglia. Mitsui invece li
aveva proprio di fronte.
Gli parve stupito.
«Che modo è questo...» esordì una voce giovane, vibrante e indignata,
«che modo è questo di tenere i prigionieri?»
«Mio signore?» Una voce profonda e riverente, catarrosa, di uomo. Il
secondino, probabilmente.
«Non sapete che la sporcizia è il modo migliore per favorire le
epidemie? Volete che muoiano tutti di peste?»
«Mio signore... devono morire comunque» osò protestare l'uomo, incerto.
«Questi no» ribatté la voce. Il giovane entrò lentamente nella cella. Il
sole lo gratificò subito con un raggio di luce più intenso.
Era un ragazzo di una quindicina d'anni, bello ma d'aspetto dimesso,
abiti di pregevole fattura, non sfarzosi, gli fasciavano il corpo magro, e corti
capelli castani gli incorniciavano l'ovale del viso. Unico simbolo della sua
condizione, un sottile codino castano partiva dalla nuca e si protraeva sino al
centro della schiena. Portava sul naso un paio di occhiali da vista.
Lo sconosciuto rivolse un lungo, attento sguardo a Mitsui. Poi si voltò
verso Koshino. «Che bisogno c'era di incatenarli?»
«Mio signore...»
«Questa, poi.» Il giovane giunse fino al centro della stanza, dove stava
il vassoio con la pagnotta ormai dura e fredda. «Ci arrivate?» Guardò Koshino,
poi Mitsui. «Arrivate a prenderla?»
Nessuno dei due rispose. «Ovviamente no» sibilò lo sconosciuto, tra i
denti. «Altrimenti non sarebbe ancora lì.» Si voltò verso il carceriere, con
cipiglio. «Liberali.»
«Mio signore?»
«Non sai dire altro? Liberali, è un ordine!» Tese nella sua direzione la
mano con l'anello stretto tra pollice e indice. «Di mio padre» sottolineò.
A Koshino tremò il cuore. Il principe. Il principe, dèi del cielo!
Avrebbe voluto chiedergli perché... perché li stesse graziando, ma non aveva più
saliva, né voce. Gli erano tornate solo le lacrime.
E senza riuscire più a controllarsi, riprese a piangere. Dall'altra
parte della stanza, Mitsui singhiozzava abbondantemente.
Il secondogenito dei Kogure guardò con un misto di tenerezza e sollievo
i due ragazzi sciolti in lacrime. Aveva avuto ragione. Erano solo due ragazzi
disperati. In quel momento più che mai, si convinse di aver fatto la scelta
giusta, adoperandosi perché fossero graziati.
E sapeva anche cosa avrebbe fatto di loro, adesso che erano liberi.
«Voi venite con me» disse, mentre i due si mettevano faticosamente in
piedi.
«Dove?» domandò il giovane più alto, con voce incerta.
Kiminobu gli rivolse un sorriso gentile. «Se preferisci, puoi sempre
restare qui.»
«No, no... Altezza!» esclamò il ladruncolo. «Vi seguo pure all'inferno,
ditemi voi!»
«Un po' meno in basso» disse il principe. «E tu?»
Koshino si limitò a chinare il capo leggermente, senza entusiasmo.
«Comandate» borbottò.
Sospettoso. Be', era legittimo. Solo il tempo avrebbe saputo dirgli se
non stava per commettere una delle più grandi sciocchezze della sua vita.
Kiminobu si era sempre fidato del suo intuito. Sempre. E non ne era
stato mai tradito.
«Seguitemi.»
Lasciò la prigione con i due ladruncoli che gli camminavano dietro. Ne
avvertiva i passi leggeri e... be', anche l'olezzo non propriamente fresco. Per
prima cosa li avrebbe costretti a un lungo, lunghissimo bagno, meditò. Il resto,
agli dèi.
«Andremo a piedi. Il mio cavallo non può portarci tutti e tre» li
avvisò, mentre una guardia strattonava Hanamichi per la criniera, guidandolo
nella sua direzione.
«Non dovrebbe tirarlo così» disse Koshino, seccamente. «Gli fa male.»
«È vero» assentì Kiminobu, leggermente sorpreso. Hanamichi mandò uno
sbuffo indispettito e si diresse verso il padrone, cercando nella mano e nella
sua tasca qualcosa da mangiare. «Abbi pazienza, Hana... Lo so che non hai ancora
fatto colazione, ma qui non ho niente, d'accordo?» mormorò al cavallo,
accarezzandogli la criniera rossa. «Andiamo, su...»
Si voltò verso i due graziati. Non gli piacque troppo il modo in cui
Mitsui guardava la bestia. Tornò a fissare la strada.
«Vi pregherei di non tentare di rubarmi il mio cavallo» scandì, con
calma. «Perché gli sono affezionato e perché lo ritroverei, e con lui voi. Ciò
che vi offro è di gran lunga superiore... scusa, amico mio» sorrise,
all'ennesimo sbuffo dell'animale.
«Perché?» Era stato Koshino a parlare.
Kiminobu si voltò. «Vi spiegherò mentre camminiamo. C'è un po' di strada
da fare.»
«Dove ci portate?»
«Naturalmente, al castello.» Sorrise. «Dove, sennò?»
«Non sono un ingrato, Hisashi» mormorò, rimasto solo nella grande cucina
del castello. Poggiò i gomiti sul tavolo, prendendosi il capo tra le mani. «Non
sono un ingrato. Dèi, datemi un modo... uno solo... per evitargli questa
tortura, e lo farò. Lo giuro. Lo farò.»
Muti o solo indifferenti, gli dèi evitarono di rispondere.
«Mio signore! Mio signore!»
Il bussare furioso alla sua porta e le grida straziate di Mitsui
destarono Kiminobu di colpo.
Si era disteso ancora vestito sul grande letto a baldacchino, la mente
svuotata, e nessun desiderio di pensare. Non aveva cenato e non era riuscito
neppure ad annullarsi nei suoi studi. Niente di niente.
La disperazione nella voce del suo capitano accelerò improvvisamente i
battiti del suo cuore. Girò la chiave, aprì con decisione la porta, e...
Mitsui gli cadde addosso, tanto pesantemente si era appoggiato al legno
solido dell'uscio.
«Perdonatemi, mio signore, io...»
«Hisashi? Piangi?»
Il capitano si tirò rapidamente in piedi, e tirò su anche lui. Poi si
accostò la porta alle spalle e lo abbracciò, di forza.
Kiminobu restò un attimo sorpreso. Poi, con un mesto sorriso, si
abbandonò tra le sue braccia.
«Non sposatelo. Non sposate quell'uomo. Akira Sendo non è degno di
baciare la terra su cui camminate!»
«È... è per questo che stai piangendo?» osò fiatare Kiminobu,
spalancando gli occhi. Non era possibile. Sarebbe stato troppo crudele.
«E per cos'altro, mio signore?» mormorò Mitsui, straziato.
«Non decido io, Hisa...»
«Neppure vostra sorella poteva decidere, eppure...»
«Lascia perdere Ayako.» Si staccò dal suo abbraccio, lentamente. «Lascia
stare mia sorella. Io... io non fuggirò come lei.» Alzò gli occhi. «Non ne ho
motivo.»
Vide una sofferenza improvvisa passare nello sguardo di Mitsui, passare
e subito nascondersi, tanto che credette d'essersela immaginata. Probabilmente
si era immaginato anche il resto.
«Io vorrei solo che voi foste felice...»
«Anch'io, ma non mi è dato.» Kiminobu andò a sedersi sul bordo del
letto, sospirando. «Non sarà una tragedia, Hisashi. Non potremo certo avere
figli, nessuno si aspetterà che dormiamo insieme. E sono certo che Akira Sendo
non è la bestia che...»
«È peggio, mio signore, e voi lo sapete!» esclamò Mitsui, gettandosi in
ginocchio di fronte a lui. Gli prese le mani nelle proprie. «Ripensate a quello
che vi scrisse vostra sorella... vi prego, pensateci!»
Kiminobu scosse la testa. Erano giorni che cercava di non pensarci. E
adesso, Mitsui... «... un pervertito, Kimi. Ringrazio tutti gli dèi del
cielo di avermi permesso la fuga. Non l'avrei sposato mai, mi sarei uccisa,
piuttosto. Che inferno sarebbe stata la mia vita con lui? Nei suoi occhi non
c'era che lussuria... il modo in cui mi guardava mi faceva accapponare la pelle.
Sarei stata il suo giocattolo, finché non si fosse stancato di me...»
«Basta, Hisashi» mormorò. «È già abbastanza difficile, senza che tu...»
«Io voglio che voi non dobbiate pentirvi mai di una decisione così
importante!» esclamò Mitsui, tendendosi verso di lui, accoratamente.
«Hisashi... hai bevuto, non è vero?»
«Sono sobrio, dannazione! Ascoltatemi!» Prese le sue mani e le baciò,
prima una e poi l'altra, procurandogli due brividi consecutivi lungo la spina
dorsale. «Voi vi fidate di me?»
Kiminobu annuì, pur non riuscendo a capire che legame avesse questo con
la discussione.
«Mi avete dato una possibilità una volta... ora... vi domando, mio
signore... mio splendido signore, volete darmene un'altra?» domandò, le lacrime
nuovamente affiorate agli occhi.
«Una possibilità... per cosa?»
«Rispondetemi!»
Kiminobu inspirò. «Sì. Sì, Hisashi, anche se non capisco cosa... cosa...
Hisashi, cosa stai facendo?»
Il capitano si tese nella sua direzione, asciugandosi con la lingua le
lacrime che gli bagnavano le labbra. Quella lingua... quel movimento rosa sul
pallido delle labbra avrebbe tormentato i sogni di Kiminobu a lungo, ne era
certo. Non riusciva a staccarne gli occhi.
Poi Mitsui gli posò le mani ai lati del collo e dolcemente lo baciò.
L'aria si spezzò intorno a loro, e da tiepida che era si fece torrida.
Kiminobu passò le mani intorno al collo di Hisashi e si strinse a lui
disperatamente, lasciando vagare i palmi sulla distesa infinita della schiena,
dischiudendo le ginocchia perché avvinghiarglisi meglio. Si sentì ardere.
Da quanto tempo aspettava quel bacio?
Non se n'era neppure reso conto.
«Non ti voglio lasciare...» gemette, ancora prigioniero della sua bocca
dolce di vino speziato. «Non ti voglio lasciare, Sashi...»
Stava piangendo. Non sapeva da quanto. Gli sembrava che il tempo li
avesse abbandonati, soli nell'infinità.
«Kiminobu... Kiminobu...»
«Trova un modo perché io non ti lasci, ti prego...» ansimò. «Ti
prego...»
Hisashi gli abbandonò le labbra, solo per un momento. «Quel cane non ti
avrà mai, Kiminobu! Mai! Lo giuro su questa vita che mi hai reso cinque anni
fa... Ad averti sarà solo colui che amerai!» Deglutì. «Se pure tu ti accorgessi
che non sono io, quella persona» aggiunse più piano.
Kiminobu lo abbracciò ancora più strettamente, appoggiando la fronte
contro la sua. «Giura di amarmi, Hisashi Mitsui, e per te sarò disposto a
commettere una follia. Giuralo!»
«Per gli dèi, sì» mormorò il capitano, senza fiato.
Il viso di Kiminobu era rosso per l'emozione e forse anche per
l'imbarazzo, ma era splendido come al solito. «Anch'io ti amo, Sashi...» Si
rituffò sulla sua bocca, con una furia che non gli era solita, e riprese a
baciarlo. Una furia non priva di disperazione.
«Fuggirai con me?» bisbigliò Hisashi, guidandolo disteso sul letto.
Kiminobu annuì, lentamente. «Troveremo il modo di... di non lasciarci...
Anche se il disonore...»
«È così importante?» mormorò il capitano, affranto.
Kiminobu scosse la testa. «Di fronte a... questo... niente è più
importante» sussurrò, lasciandogli lo spazio per intrufolarsi tra le sue gambe.
«Kiminobu...», com'era dolce il suo nome nella bocca, l'avrebbe
pronunciato fino a restare senza fiato, solo per il piacere di sentirne il
suono, «Kiminobu, non te ne pentirai, vero?»
«Non me ne sono pentito, la prima volta» mormorò il principe.
«La prima... volta?» ripeté Hisashi, sbarrando gli occhi. A chi? A chi
si era concesso, senza che lui ne avesse neppure il sospetto? Si sentì morire...
Gli occhi di Kiminobu ridevano dolcemente. «Mi hai detto che volevi
un'altra possibilità, capitano Mitsui... ed io della prima non mi sono
pentito...»
«Tu... vuoi farmi morire» sussurrò, appoggiando le labbra sulla sua
guancia. Con timidezza, quasi. «Vuoi farmi impazzire, Kiminobu...»
«È chiusa, la porta?»
Mitsui alzò gli occhi. «Sì.»
«Allora...» chiuse gli occhi, attirandolo a sé, le labbra sulla sua
gola, «Sashi... vuoi... vuoi insegnarmi a... fare l'amore?»
«Kiminobu... amore mio...» Con un ansimo struggente si riappropriò della
sua bocca, e lasciò che le mani agissero come sapevano.
Hiroaki era passato dalla camera di Mitsui, quella accanto alla sua, per
vedere come stesse. Era certo di trovarlo lì, probabilmente buttato sul letto
come una bestia ferita. Avrebbe cercato di consolarlo come meglio poteva, anche
se non era capace di consolare la gente. Forse la sua sola vicinanza gli avrebbe
comunicato un po' di calore.
Ma non l'aveva trovato.
In preda a un cattivo presentimento, fece di corsa le scale che
portavano al secondo piano, quello con le camere dei reali, e quasi si sentì
male al vedere che, nel corridoio in penombra, una debole lama di chiarore
proveniva dalla porta socchiusa della camera del principe.
Stava facendo qualche sciocchezza. Di sicuro, stava commettendo una
sciocchezza.
Giunse di fronte alla porta e si fermò. Non voleva origliare, ma...
«Trova un modo perché io non ti lasci, ti prego... Ti prego...»
«Quel cane non ti avrà mai, Kiminobu! Mai! Lo giuro su questa vita che
mi hai reso cinque anni fa... Ad averti sarà solo colui che amerai! Se pure tu
ti accorgessi che non sono io, quella persona.»
«Giura di amarmi, Hisashi Mitsui, e per te sarò disposto a commettere
una follia. Giuralo!»
«Per gli dèi, sì.»
«Anch'io ti amo, Sashi...»
Hiroaki osò sbirciare attraverso la sottile fessura lasciata aperta.
Trovò Kiminobu seduto sul bordo del letto, e Hisashi inginocchiato ai suoi
piedi, stretti nel bacio più intenso e furioso che avesse mai visto.
In silenzio, evitando anche di respirare, tirò a sé la maniglia e chiuse
del tutto la porta.
«Kimi... Kiminobu...»
«Sashi...»
«I muri... sono abbastanza spessi?»
Il principe guardò il suo amante con occhi già annebbiati dal piacere.
«Spessa pietra...» sussurrò. «Potremmo... gridare... non ci sentirebbe
nessuno...»
«Gridare...» ripeté Hisashi, martoriandogli le labbra tra i denti. Scese
sul collo, poi, repentinamente, passò a mordicchiargli una clavicola appetitosa,
facendolo sussultare. «No, mio signore... non ti puoi trattenere... dammi ciò
che mi hai promesso...»
«Devi fare di meglio... non mi sento in vena di grida...ahh... reeehhh...»
Kiminobu ebbe l'impulso di portarsi una mano alla bocca, e tapparla con
forza. Era un tiro mancino, quello!
La lingua di Hisashi battagliava silenziosamente con il suo capezzolo
sinistro, che non ne voleva sapere di tornare quieto e remissivo com'era sempre
stato. Un attimo dopo, la battaglia si spostò sul destro. Kiminobu cominciò a
chiedersi se i muri fossero davvero abbastanza spessi da contenere tutta la voce
che sentiva premere in gola... premere per uscire nell'aria torrida della sua
camera.
«Amore mio...»
Sentì la bocca di Hisashi tracciare un'umida scia lungo l'incavo appena
pronunciato dei suoi addominali... giù... la lingua riempire un istante
l'ombelico, strappandogli un primo grido... e poi... dèi, cosa aveva in mente
quel pazzo...?
Le dita di Hisashi si fecero strada tra i lacci dei suoi calzoni, li
tirarono a forza, li strapparono, fino ad allontanare quell'inutile schermo
dall'oggetto del suo desiderio.
«Hisashi... toglimeli...» supplicò Kiminobu.
Il capitano obbedì. Gli sfilò gli stivali e li gettò via con i calzoni
di pelle e la biancheria di Kiminobu, sul pavimento, lontani. Il caminetto
crepitava poco distante, ma se pure l'avessero spento non avrebbero patito il
freddo.
«Hisashi... che vuoi fare...» gemette.
«Intessere una conversazione brillante con questo vostro amico, mio
signore...» rispose Hisashi, e poi si chinò e ne baciò l'umida punta, facendo
fare a Kiminobu un balzo inaspettato.
«Oh dèi dèi dèi... non mi abbandonate...» implorò il principe, mentre il
capitano, ridacchiando, tornava a infierire con voluta lentezza. «Dèi!»
Se quello era fare l'amore, Kiminobu si chiese perché avesse atteso
tanto prima di concedersi di provarlo.
I miei studi...
Al diavolo gli studi!, pensò, intrecciando le dita con i lunghi
capelli di Hisashi. Nessuna delle piante che amava tanto gli aveva mai dato
quelle sensazioni. Nessuna delle piante che amava gli aveva mai restituito
amore.
«Sashi... mi stai uccidendo... Sashi...!» gridò, stringendogli i capelli
così forte da distoglierlo dal suo compito.
Gli occhi neri di Mitsui si posarono sui suoi, dolcemente. «Vuoi che
smetta?»
Kiminobu tentò invano di riprendere fiato. «Voglio... di più...»
Il capitano risalì il suo corpo, lentamente, strofinandocisi contro in
tutta calma. «Quanto...»
«Levati i calzoni...»
Hisashi obbedì ancora una volta, senza farsi pregare. Anche se
adorava sentirlo pregare.
«Io... io non ho mai... tu mi aiuti, vero, Sashi?» balbettò Kiminobu,
allacciando le caviglie dietro la sua schiena.
Hisashi lo baciò, intensamente. «Certo... se tu aiuti me...» E gli passò
le dita sulle labbra umide, per poi lasciarsele catturare dalla sua bocca. Un
dito alla volta, gli occhi di Kiminobu scintillavano.
Non era mai stato più bello.
Lasciò scivolare la mano giù, tra i loro corpi che non aderivano
perfettamente, non ancora, e spinse delicatamente un dito.
Kiminobu ansimò leggermente. Sussurrò un: «Ancora» che fece sorridere
Hisashi.
Quando ne aggiunse un secondo, l'espressione cambiò in fastidio. Non
molto pronunciato, ma presente. E quando azzardò aggiungerne un terzo, lo sentì
irrigidirsi completamente.
«Shh...» sussurrò al suo orecchio, senza accennare a muoversi. «Stai
tranquillo... Passerà presto...»
Kiminobu si rilassò.
«Non ti voglio fare male, ma un po' è inevitabile» mormorò. «Vuoi che...
rimandiamo a un'altra volta?»
«E... e se non ci fosse, un'altra volta?» replicò Kiminobu, stringendolo
a sé. «No... continua...»
«Ci sarà un'altra volta... ce ne saranno migliaia...» sorrise Hisashi,
portandosi le sue gambe sulle spalle, con cautela.
Non era mai stato più indifeso.
Kiminobu strinse i denti e i pugni, rilasciando tutto il fiato che
aveva. Dèi! Non l'aveva immaginato così... così... lacerante. Ma si costrinse a
tenere gli occhi aperti. Quelli di Hisashi erano puntati sui suoi, colmi di
premura e preoccupazione... Akira Sendo avrebbe avuto gli stessi riguardi?
L'avrebbe violentato come una bestia...
«Non ti preoccupare... sto bene...»
«Tra un po' starai meglio...» gli assicurò Hisashi, baciandolo. «Tra un
po' sarai in paradiso...»
Ci sono già... No, non riusciva a dirlo, con quel dolore
squarciante in mezzo alle natiche... dèi... Una spinta più avventata gli strappò
un grido, e il suo corpo lo avvertì che erano entrambi al limite... Hisashi del
suo corpo, lui del dolore. Ancora un po' e l'avrebbe implorato di smetterla.
«Tranquillo, amore mio... tranquillo...» bisbigliava Hisashi, immobile
dentro di lui. Ma la sua voce non era più tanto ferma. Per la prima volta
Kiminobu si rese conto che Hisashi era anche al limite della sopportazione.
«Ora... Sashi... non farmi... aspettare troppo...»
Non avrebbe neanche saputo dire in quale momento il dolore si era
sfrangiato in un piacere soffuso, gradito. Ma seppe esattamente quando questo
esplose in un alone di luce accecante. Fu quando si sentì violare in un preciso
punto. Un'estasi.
«Dèi!» gridò, avvinghiandosi al suo corpo. «Hisashi!»
Il capitano si avventò su di lui come se non avesse atteso altro,
incapace di controllarsi oltre, e come dargli torto? Nel sentirsi colpito dal
calore umido dell'amore di Kiminobu, prosciugato tra le sue braccia, mandò un
lungo gemito e si liberò nel suo corpo.
«Quando verrà quel bastardo di Sendo?» mormorò accarezzandogli
dolcemente la schiena, nuda sotto le pesanti coperte.
Kiminobu si strinse a lui. «Non verrà. Dovrò andare io in Ryonan.»
«Perché? La tradizione vuole...»
«La nostra, sì. Ma la loro vuole che la... la sposa... si rechi dallo
sposo portando con sé la propria dote.»
Hisashi lo guardò inarcando un sopracciglio. «Che dote porti, amore
mio?»
«Non l'hai capito?» Kiminobu ebbe un sorriso amaro. «Lo Shohoku.»
«Dovremmo diventare sudditi di quel... quel... maledetto?» esclamò il
capitano, facendo un balzo tra le coperte.
Kiminobu evitò di guardarlo. «Non finché mio padre e mia madre saranno
in vita. Ma dopo... sì. Andrà così.»
«Ma tu non lo sposerai, Kimi.»
«Che cosa possiamo fare? Io... la mia volontà non conta niente, Sashi.
Ho detto a mio padre che l'avrei sposato. Per il bene del regno, e...»
«Tu devi pensare al tuo bene» replicò Hisashi, sollevandogli il
viso. «No, niente storie. Niente storie sul fatto che sei prima un principe e
poi una persona, no, non credo più a queste stupidaggini. Tu sei Kiminobu, prima
di tutto. E sei mio. Nega l'evidenza, se puoi.»
Il principe scosse la testa. «Non posso. Sono tuo. E se Sendo scoprirà
che non sono più vergine... probabilmente mi ripudierà, e... sarà peggio. Peggio
di prima.» Inspirò. «Prego gli dèi che non abbiamo commesso una sciocchezza.»
«Avevi detto che non te ne saresti pentito...» sussurrò Hisashi,
addolorato.
«Non me ne pento. Ti amo. Tanto basta» rispose Kiminobu, baciandogli la
bocca. «Ma dobbiamo pensare a cosa fare...»
«Quando dovrai andare in Ryonan?»
«Domani, verso la nona...»
«Così presto! Bene, allora fuggiremo dal castello, domattina. Ripareremo
in Shoyo, da...»
«Non sarà così facile, Hisa... mio padre mi ha avvertito. Si fida di me,
dice, ma dice anche che, per evitare spiacevoli inconvenienti, non uscirò più
dalle mura del castello se non per andare a sposare Akira Sendo.»
«Così ti tratta?» replicò Hisashi.
«Non gli ho mai dato problemi, ma... neanche Ayako gliene aveva mai
dati. Pensa che la cosa potrebbe ripetersi, e...»
«E non sbaglia» disse Hisashi, con decisione. «Troveremo il modo di
fuggire. Io non ti lascio sposare quel porco, chiaro?» Gli terse due lacrime
fuggitive dagli zigomi. «Ti fidi di me, amore mio?»
«Come di nessun altro» rispose Kiminobu, appoggiando il capo sulla sua
spalla. «Come di nessun altro.»
(continua...)
Fiorediloto: Embè?
Kimi: >.< Devo sposarmi con Sendo???
Hisa: Lemon... sbav... Volevo dire... DEVE SPOSARSI CON SENDO???
Fiorediloto: Sì, ma... è in arrivo la sorpresina!!!
Kimi e Hisa: CHE SORPRESINA???
Fiorediloto: ^__- Non vi fidate di me???
Hisa: NOO!!!
Fiorediloto: Kimi!!! Amore mio!!! Almeno tu!!!
Kimi: Ehm...
Fiorediloto: Mi tradiscono tutti... ç__ç Ma io me ne vado e vi lascio
stuprare tutti e due da Sendo...
Akira: Ehi! Io non li voglio 'sti due sfigati!
Hisa: Sfigato a chi, maniaco porcospino???
Hiro (rimuginante): In tutto questo mi chiedo io che farò...
Fiorediloto (di nuovo allegra): Taaaaaante cose belle!! Sì sì sì!!! *__*
Hiro: ç_ç Significa che farai stuprare anche me, lo so...
Fiorediloto: Ma nooo!!! Da quando in qua faccio queste cose?!?
Tutti (+ Gregory in trasferta dall'omonima original): DA SEMPRE!!!
Fiorediloto: ç_ç