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Autore: saraviktoria    23/10/2011    1 recensioni
in memoria di Marco Simoncelli
e a me, Dio, a noi, cosa rimane?
Genere: Drammatico, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Quello che rimane

In memoria di Marco Simoncelli , per un  campione che rimarrà per sempre nei nostri cuori. Per uno sport spettacolare e pericoloso allo stesso tempo. Perché non bisogna dimenticare.

 

Stamattina, come molti di voi, stavo guardando il moto mondiale.

Un incidente assurdo, senza colpe. Una moto che ha sbandato, un casco che non si sa bene perché si è sfilato.

E poi quel corpo immobile sull'asfalto, che non si muoveva già più.

I piloti che rientrano, poi l'annullamento della gara. Vedere Rossi, Capirossi e Paolo Simoncelli che piangevano. Il padre del campione che scuoteva la testa, Kate in lacrime. Mi sono immedesimata in lei, in quello che poteva provare.

Ho pianto anch'io. Per quel ragazzo tanto simpatico che avevo avuto il piacere di conoscere qualche anni fa, a un gran premio italiano. Per quei ricci disordinati di un ragazzo poco più piccolo di me, che in fondo, aveva tutta la vita davanti.

E poi la notizia, dopo un'ora che il mondo stava con il fiato sospeso. Ho iniziato a scrivere, come sempre quando sono sconvolta e non so bene cosa fare. Questo è quello che ne è venuto fuori. So che non è granché, e che non è nulla in confronto alla sua morte, ma è il mio contributo. Per non dimenticare.

 

Desclaimer: la vicenda narrata è  ispirata a un fatto reale. I personaggi sono di mia invenzione.

 

Eravamo atterrati da poco più di mezz'ora e già aveva acceso la telecamera

"saluta, Sara" mi incitò, mentre trascinavo il trolley. Era la sua passione, immortalare tutto. Per poi riguardarselo centinaia di volte. Feci ciao con la mano all'obbiettivo e lo vidi sorridere.

Fuori dall'aeroporto di Doha c'erano centinaia di persone che aspettavano. Giornalisti, curiosi, amici.

Poco più in là Matteo ci aspettava.

"Sara! Francesco! Finalmente siete arrivati" abbracciò Francy. Il mio Francy, il mio amore.

"sai com'è, se non riprende ogni istante della sua vita si sente male" commentai, sarcastica.

In effetti, eravamo tra gli ultimi. Ai garage i meccanici stavano già sistemando le moto.

Adoravo le moto. Adoravamo le moto. A Francesco era sempre piaciuto correre. Non che a Marradi si facesse altro.

Nascevi con il Moto Mondiale nel sangue, e la minimoto in giardino. Era uno sport pericoloso, lo sapevano tutti, ma nessuno ci rinunciava. Dicevano che ci si faceva male, non era raro che qualcuno arrivasse con braccio o gamba ingessati. Cose da niente, rispetto a sentire l'adrenalina in tutto il corpo, sentirsi parte della moto per la frazione di secondo di una curva, provare l'emozione unica di tagliare il traguardo, la bandiera a scacchi che sventola.

Anch'io correvo da piccola. Crescendo -e facendomi male- avevo imparato a mie spese che era meglio stare ai box. Mi ero laureata in ingegneria, mettevo le mani in quasi tutte le moto che mi capitavano sotto mano.

Ma non Francesco, non  Matteo, non tutti i piloti come loro. Fu  grazie alla loro determinazione  se arrivarono lì. Grazie a quel 'io non mollo', con quell'intonazione che è propria della nostra zona, al 'cadi ma poi ti rialzi', al 'le ossa si saldano in fretta'. E di ossa se n'erano rotte tante, innumerevoli le nottate passate al pronto soccorso. Ma a loro non importava.

Solo pochi mesi fa, in Italia, era morto un pilota. Avevamo pianto il nostro amico, si erano impegnati a ricordarlo in pista, a stare attenti, a non fare cavolate. Ci erano riusciti, fino a quel giorno.

Era un caldo giovedì mattina, in  Qatar faceva sempre caldo, e c'era fermento.

Era uno dei pochi posti in cui la gara era il sabato pomeriggio, anziché la domenica. Meglio, saremo stati a casa entro domenica pomeriggio. Ci piaceva viaggiare, era una cosa fondamentale nel nostro lavoro, ma il fuso orario creava sempre dei problemi.

Partirono subito, neanche avessero il diavolo alle calcagna. Ma non si poteva fare niente, era come se quelle moto li chiamassero, come delle calamite a cui non si poteva sfuggire.

Ora del sabato mattina avevano già rischiato di cadere un paio di volte ma, come liquidavano loro con un'alzata di spalle, 'non era niente di serio '. 

Carey si divertiva a prenderli in giro, ogni volta che ne aveva l'occasione. Lui, che era fermo da un mese con il gesso alle gambe.

Non avevamo mai avuto quel garage. Era uno dei primi, tra Honda e Ducati. Una moto rosso fiammante se ne stava lì, vicino a quelle azzurre di Francesco e Matteo, mentre dall'altra parte campeggiava l'arancione della Repsol.

c'era sempre un clima di agitazione, non appena i primi piloti, più nervosi, decidevano che era il momento di lasciare l'albergo. Spesso dormivamo nel camion, che poteva benissimo passare per una casa, non fosse per le ruote, ma in Qatar non ci permettevano di rimanere sulla pista durante la notte.

Avevamo camere divise, nonostante ormai stessimo insieme da cinque anni, due anni prima che iniziasse a correre, perché i piloti volevano sempre dormire insieme. Condividevo la stanza con l'addetta alle relazioni con la stampa, una donna di quarant'anni single e acida. Come trattasse così bene con i giornalisti era un mistero.

Stavano facendo il Warm Up quando entrai ai box. Su decine di schermi -davanti ai quali stavano appostati vari tecnici- si vedevano le moto sfrecciare a 300 km/h, fregandosene dell'attrito.

"c'è qualche problema?" chiesi, avvicinandomi a Philip, il collaudatore della scuderia.

"no, there aren't" rispose, senza togliersi le cuffie. Ancora non capivo come facesse a capire l'italiano pur non parlandolo. Ma questa era un'altra storia. Mi sistemai la tuta azzurra e presi le cuffie, mentre entrava il direttore di gara. Era un uomo basso, calvo, sui sessant'anni, che non avevo mai visto.

Ma dicevano tutti le stesse cose, davano le indicazioni generali, ricordavano le regole, segnavano da qualche parte il numeri di giri e chiedevano se c'era qualche problema con le moto. Il capo tecnico lo rassicurò: sì, sapevamo che c'erano 30 giri; no, nessun problema; certo, faremo attenzione all'asfalto; no, abbiamo già montato le gomme dure; grazie, e arrivederci.

Buona gara, augurava quello a tutti, prima di sorridere e andarsene.

Era quella l'essenza. Le persone che si conoscevano, i legami che bene o male stringevamo, i giornalisti che sorridevano sentendo parlare la propria lingua, telecamere ovunque. Era il mondo del motomondiale, quel sogno che il mio fidanzato era riuscito a raggiungere, dopo anni.

Vidi passare Guido e lo chiamai. Era uno dei reporter con cui andavo più d'accordo. Mi raggiunse in garage

"Sara, hai tempo per qualche domanda?" chiese, prendendo il microfono. Sorrisi e mi tolsi le cuffie. Cos'era qualche domanda? "bene … allora, Francesco è pronto per la gara?"

"certo. Sono giorni che non vede l'ora di scendere in pista, Guido"

"e Matteo?"

"pronto anche lui" sorrisi.

"si dice che avete avuto qualche problema con le moto. Come ingegnere …?"

"nessun problema, te lo assicuro. Però se vuoi chiedere direttamente a loro..." continuai, indicando i piloti che erano appena scesi dalle moto. Si affrettò verso di loro.

Rimasi a fissare Francy, che con una mano si spettinava i capelli neri, mentre l'altra se ne stava appoggiata alla spalla di Matteo. Le labbra che si muovevano, ridevano, si arricciavano, a seconda delle domande.

Ma io ero lì per lavorare, mica per fissare il mio amore. Mi avvicinai alle moto, mentre il motore si raffreddava. Sì, sembravano in ottime condizioni, a parte uno sfriso su una carena. Ma per sicurezza chiamai un meccanico che confermò il mio esame sommario.

Ai garage c'era un rumore continuo, pneumatici che stridevano sulla plastica, saldature dell'ultimo momento, prove dei motori, meccanici che parlavano tra loro, urlando, perché giustamente, con le cuffie non senti niente.

Una sirena annunciò che era il momento di schierarsi. Tolsi la tuta, che con quel caldo dava fastidio, rimanendo in shorts e canottiera

"mmh, che bella che sei, amore" commentò Francesco, seguendo due omini azzurri che spostavano la sua moto. Lo ringraziai con un bacio a fior di labbra.

"sento che vincerò" disse

"non lo dire, porta male" lo rimbeccai, ridendo

"perché non dovrei? Oggi arriverò almeno sul podio. Anche perché ho un importante annuncio da fare" rispose, sereno. Sì, era convinto. Risi

"e che annuncio importante sarebbe, signor Alsani?" chiesi, senza smettere di ridere. Era ridicolo quando faceva il serio, con quegli occhi azzurri come la sua moto che lo tradivano sempre.

"aspetta e vedrai, amore. Anzi, vedrete" aggiunse, ripensandoci. c'era una bella novità, che gli avevo comunicato qualche giorno prima, che lo aveva fatto saltare per tutta la casa, facendo lamentare Matteo, nostro ospite, che stava seguendo il telegiornale.

Ero incinta. Di lì a pochi mesi avrei avuto un bambino. E poi? Ci eravamo chiesti. Cos'avremo fatto?

Era impensabile che Francesco lasciasse il suo lavoro, la sua passione. Non glielo avrei permesso. Potevo farmi da parte io, e trovare un ingegnere che mi sostituisse. Ma lui non me lo avrebbe permesso.

"no, adesso me lo dici!" esclamai, tirandogli una manica, all'altezza delle spalle. Più in alto di lì, con mio metro e sessantacinque, non arrivavo.

"no, puffetta" mi prese in giro "aspetterai, e lo saprai a tempo debito. Con il resto del mondo delle corse" sbuffai. Ero curiosa, lo sapeva bene. Non avrebbe dovuto dirmelo.

Lo aiutai a sistemarsi, mentre la moto veniva parcheggiata all'interno delle strisce bianche, per il giro di ricognizione, poi me ne tornai ai box.

"ti amo" mormorai andandomene. Glielo dicevo sempre, anche se lo sapeva bene. Volevo fosse l'ultima cosa che sentiva prima di mettere in moto.

c'era più fermento durante la gara, nonostante ci fosse meno gente. Persone che andavano e venivano, comunicazioni da dare ai piloti, meccanici che si spostavano, controllando le gomme e il carburante.

Mi sedetti al posto di Francesco, il mio lavoro finiva quando partiva la gara, dato che mi occupavo di progettazione, seguendo la gara da uno schermo. Sulla moto di Francesco non c'era la telecamera questa volta, ma ce n'era una su quella di Matteo, qualche posizione indietro. Lo seguivo da lì, finché non uscì dal raggio dell'obbiettivo, lasciando una striscia nera sull'asfalto. Balzai in piedi: c'era qualcosa che non andava, se n'era accorto anche il capo tecnico, che ora cercava una ripresa migliore.

Trattenni il fiato vedendo la moto azzurra assumere un'inclinazione strana, tagliando di netto la strada a due altri piloti e trascinandoli con sé. Finirono sui sassi, uno ancora in piedi, l'altro che si guardava in giro. Francy! Era disteso per terra, vicino ancora sulla pista. Senza il casco, che rotolava più avanti. Non si muoveva, non dava segni di vita.

Mi si appannarono gli occhi, iniziò a girarmi la testa. Piansi e singhiozzai, mentre calava il silenzio. Sentii qualcuno dire che la gara era stata sospesa, che le moto stavano rientrando.

Vidi qualcuno venirmi incontro e mi accorsi solo all'ultimo che era Matteo

"Sara..." mormorò, abbracciandomi. Non ricambiai. Dovevo vedere, dovevo capire. Corsi fuori dal garage, seguita da Antonio, il padre di Francesco, ma qualcuno mi fermò all'uscita dei box.

"Sara" era Antonio. Mi girai, senza vederlo realmente. Non volevo fermarmi, volevo vedere Francesco. Volevo che mi dicesse che stava bene, che non era niente, che domani avrebbe avuto solo un livido. Domani, perché ci sarebbe stato un domani, vero? Mi dimenai invano, non avevo abbastanza forze, fino a quando non vidi l'ambulanza passarmi a fianco, le sirene spiegate verso il centro medico della pista. A quel punto anche Antonio mi lasciò andare, affrettandosi verso l'entrata dell'edificio.

Stavano per entrare due medici, una donna e un uomo, seguiti da una barella. Una barella? Francy!

Non c'era sangue, ma i suoi occhi erano chiusi, non si muoveva. Un paramedico gli controllava il polso, scuotendo la testa. Poco dopo qualcuno ci disse di andarsene. NO! Urlai. Non me ne volevo andare. Dovevo stare lì, dovevo capire.

Non riuscivo a ragionare. Vedevo e rivedevo quell'istante, sapevo che tutti i piloti lo stavano guardando dagli schermi, persino gli spettatori erano ammutoliti.

l'altro pilota coinvolto nell'incidente mi veniva incontro zoppicando.

"io …. Mi dispiace … Antonio, Sara … " qualcuno, forse Antonio, gli batté una mano sulla spalla. Non è colpa tua, gli disse. Non era colpa sua, non era colpa di nessuno. Era la moto. Era uno sporto pericoloso, lo sapevamo. Ma non si era mai arrivati a tanto, non pensavo si sarebbe arrivati a tanto.

Volevo entrare, vederlo, parlare con i medici, ma non riuscivo a muovermi, come se le mie gambe non volessero rispondere ai comandi del cervello, mentre venivano circondati dagli amici, dai giornalisti che ci conoscevano. Chiedevo di lasciarmi passare, di lasciarmi stare. In italiano, senza ricordarmi che lì nessuno lo parlava, che non mi capivano, che mi guardavano così per chiedermi di ripetere, in inglese, magari. Non li sentivo. Non li volevo sentire. Non avrei ripetuto, non volevo essere ascoltata.

"la gara è stata annullata" annunciò Matteo dopo quelle che mi parvero ore. Non lo avevo sentito arrivare, non mi importava. Antonio andava avanti e indietro, incapace di stare fermo, di pensare. Perché si riusciva a pensare solo al peggio.

Piangevo, piangevo, piangevo. Angoscia. Un senso di angoscia, un peso sullo stomaco che non se ne andrà più. Il terrore di avere perso tutto. La paura che niente sarà come prima. La morte che aleggiava intorno a noi

NO! Non poteva essere morto. NO! Tra poco lo avrei visto venire verso di me, qualche benda qua e là, un po' ammaccato. Perché lui DOVEVA essere vivo. Non poteva, non potevo pensare che ….

Maledette moto! Maledetto sport! Mi ritrovai a pensare senza una ragione. Perché avevo bisogno di sfogarmi e le lacrime non bastavano. Anche se mi fossi prosciugata,non sarebbe bastato. Avrei voluto correre, la testa che mi scoppiava, pur di non pensare più. Avrei voluto non essere me, avrei voluto essere morta. Avrei voluto …. Non lo sapevo nemmeno io.

Mi appoggiai a un muro, senza sapere come ci ero arrivata. Mi rannicchiai contro quella parete a piangere, senza guardare in giro, senza vedere Antonio che veniva abbracciato, rassicurata. Non volevo essere rassicurata, non volevo delle false speranze. Volevo sapere cosa stava succedendo, perché non potevo entrare, come stava Francy …. Francy … il mio Francy …. Amore ….

"Sara … " era Matteo. Avevo gli occhi rossi, tremava come me. Scosse la testa e in quel momento capì.

Morto. Francesco era morto. Morto. Sarei voluta morire io. Con lui. Perché senza di lui io non potevo vivere.

Lo abbracciai cercando qualcosa a cui aggrapparmi, ora che il mondo mi si stava sbriciolando addosso, ora che tutto mi cadeva sopra, schiacciandomi, annientandomi. Non poteva essere. Non potevo crederci.

"Mr Francesco Alsani has died at four fifty-six " diceva il medico ai giornalisti. Qualcun altro scoppiò a piangere. Cacciai Matteo, volevo rimanere sola.

Ma non sei sola, disse una vocina dentro di me.

Una mano andò istintivamente ad accarezzarmi la pancia. Eravamo in due, stavamo soffrendo in due. In tre, perché sapevo che Francesco era già salito in cielo. E mi stava guardando.

Mi avrebbe detto di non disperarmi, che lui sarà sempre con me.

Ma come potevo non piangere, come potevo non voler scappare?

 e a me cosa rimane? Pensai. Un corpo su cui piangere. Un figlio che sicuramente gli assomiglierà. Un corpo, pulito. Avrà ancora indosso la tuta, i capelli color carbone spettinati, gli occhi azzurri vuoti e vitrei.

NO! Non lo volevo vedere, non volevo avere quel corpo stampato nella mente. Non era lui, non era Francesco.

l'avrei ricordato su una moto, con il casco. l'avrei ricordato quando gli dicevo che lo amavo sulla linea di partenza. Che lo amo. Che lo amerò sempre.

Le moto. Mi venne da sputare. Non avrei voluto più vedere una moto in vita mia. Avrei cambiato lavoro, avrei cambiato città. Non sarei riuscita a sopportare quel ricordo.

Ma dovevo. Vedevo i giornalisti venire verso di me,alcuni in lacrime. Non lo potevo sopportare. Era il mio dolore. Non doveva intromettersi. Vidi Antonio mandarli via. Non capivo più niente, non volevo più esistere.

E a me, Dio, a noi, cosa rimane?

Il ricordi sfocato delle persone che abbiamo amato più della nostra stessa vita, la speranza che sono lì con Te. Nient'altro.

 Quello che rimane non è niente

 

MARCO SIMONCELLI 20 gennaio 1987 - 23 ottobre 2011

 

   
 
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