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Autore: Eve Ell    23/10/2011    0 recensioni
Giorgia. 17 anni. Quarto liceo, immerso in una piccola città. I capelli rosso fuoco, la matita nera, gli skinny stretti nerissimi e la maglietta della sua band preferita. Lei e i suoi amici, gli "alternativi", nel loro mondo speciale, dove lei si può rifugiare sempre, fra una canzone malinconia, una risata aspettando l'auto e un amore che sembra impossibile, ma che magari può invece avverarsi. Questa storia, lontana dal narrare di ragazzi definibili "adolescenti comuni", immersa in un organizzazione sociale con norme e valori "particolari" per chi guarda da fuori, ma normalissimi per chi c'è dentro, vi parlerà della quotidianità adolescenziale, dei pensieri di un anima sensibile, e di una vita che sempre più spesso e con maggiore facilità sfiora la tragedia.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 9: There is a Hell, Believe I have seen It; There is a Heaven, Let’s keep it a Secret

Da quel giorno, da quel lontano lunedì di febbraio ogni cosa prese una piega diversa. I giorni passavano e io non facevo che diventare sempre più dipendente da lui, e viceversa lui da me. Passavamo insieme ogni secondo disponibile, ogni attimo, ogni battito di cuore umano.

La neve si sciolse tre giorni dopo, la scuola andava via diventando più complicata e dura, io mi davo da fare per non prendermi il debito di francese e lui si dava da fare per preparare una tesina brillante e interessante. Quando poteva mi aiutava con il francese e io lo aiutavo a stare dietro a ogni cosa, gli riscrivevo al computer le tesine, lo interrogavo per vedere come andava e gli davo tutta la forza che potevo nei giorni in cui davvero non ce la faceva più. Mi portò anche a casa sua e mi presentò ai suoi come “la mia migliore amica”. Quando avevamo finito ci mettevamo a sentire un cd qualsiasi, a parlare del futuro, dell’università, della paura di crescere, di quella di vivere senza uno scopo e di quella di morire. Eravamo andati oltre ogni aspettativa per tutti quelli che ci conoscevano: il nostro essere quello che eravamo, quel qualcosa di indefinibile, una coppia di “due esseri umani molto legati” era un concetto, per sua natura, indefinibile. Il nostro sentimento, preso nell’insieme della coppia, non era l’amore, perché se io potevo dire di amarlo lui poteva dire che ero speciale come persona, e non era amicizia proprio perché io lo amavo; ma era qualcosa di speciale: la si poteva chiamare dipendenza, bisogno inguaribile, equilibrio perfetto, ma non era niente di definibile. Se io ero con lui stavo bene, se lui non c’èra io non c’èro. Non vivevo il momento nella sua generalità, vivevo il Lui, il durante. Se stavo per andare da lui pensavo a cosa raccontargli, se stavo con lui non vedevo altro, e se l’avevo appena lasciato facevo il resoconto della nostra giornata insieme. Andavo a dormire pensando che lui stava sicuramente nel suo letto a pensare a chissà cosa, e mi svegliavo pensando che l’avrei visto a scuola. Ogni cosa insieme era speciale: andare al cinema diventava speciale, e quel film diventava speciale anche se era una schifezza perché l’avevamo visto insieme; andare allo skate park era speciale perché anche se provavo e sbattevo la faccia per terra lo stavo facendo in sua compagnia. Anche i viaggi in macchina con lui erano speciali, le passeggiate erano speciali, le serate al telefono. E stavo veramente vivendo tanto appassionatamente da far battere il mio cuore per me e per lui. Avevamo anche preso a giare mano nella mano, e spesso sua madre ridendo diceva che stava solo aspettando che ammettessimo la nostra storia, ma lui non lo faceva mai. Arrivò la fine di aprile. Era un mattino magnifico, il cielo era limpido e l’aria stava scaldandosi sempre di più ogni giorno che passava. La maturità era sempre più vicina, e anche il mio compleanno, a metà giugno, non era molto lontano. Quel mattino finalmente una parte delle mie speranze si realizzarono: mentre eravamo tutti insieme alla fermata anche lui arrivò tranquillo come se nulla fosse, salutò tutti e poi venne da me. Era normale che stavamo tra noi due a chiacchierare dalle 8 fino a che non era ora di entrare in classe e anche quel mattino fu lo stesso. Qualcosa però lasciò tutti noi, me per prima, abbastanza sorpresi: lo accompagnai come sempre fino in classe e mentre gli dicevo buona giornata e salutavo lui e Federico, mi prese la mano e mi tirò a lui. Subito arrossì perché non faceva mai cose simili davanti agli altri, così lo guardai sorridendo con l’aria di chi non capisce. Mi diede un foglietto ripiegato, un bacio sulla fronte e si infilò in classe. Scesi di fretta le scale ancora un po’ scossa. Arrivata in classe Emy stava parlando con le altre compagne, quindi non mi soffermai molto su di lei, e sedendomi al banco aprì il foglietto:

Save me from the ones that haunt me in the night. 
I can't live with myself, so stay with me tonight.

Chiunque avesse letto non avrebbe capito a cosa si riferiva, ma io capì al volo che era una delle frasi più belle di “Don’t Go” dei Bring Me The Horizon, il nostro gruppo preferito. Presi il telefono e pensai a cosa scrivergli, ma bastò poco per veder arrivare un ottima idea:

Believe in me, When you feel like you’re losing all your hopes and dreams.
Believe in me, When I am gone you gotta keep a smile on.

Ogni volta che ascolto la musica mi rendo conto di quanto le canzone e i testi si rispondano e si corrispondano. E questa risposta alla Blood On The Dance Floor sapevo che gli sarebbe piaciuta. Inviai l’sms e lui mi rispose subito dopo dicendo che dopo scuola aveva una sorpresa.

Alla ricreazione non uscì perché avevo un compito in classe tra la terza e la quarta ora, così all’uscita appena lo vidi gli chiesi spiegazioni. Mi disse solo che mi doveva portare in un posto e che quindi dovevo avvertire i miei che non saremmo tornati per pranzo (doveva venire a mangiare da me). Detto fatto, andai a salutare Emy e le spiegai che non venivo alla fermata. Emy sembrava molto allegra e così mi disse “Non voglio rovinarti le sorprese ma pare che Shawn abbia sentito Davide e Federico che parlavano, e il tuo tesoro che diceva a Fede dire una cosa molto importante, perché ha capito e ha preso una decisione fondamentale, o qualcosa del genere. Bhè, che dire, divertiti!”. Non capì che intendeva dire, così la salutai. Saliti in macchina infilai il Cd dei Bring e partimmo. Gli chiesi più e più volte di dirmi dove andavamo, ma non me lo disse finché alla fine non capì da sola che andavamo verso Anzio, verso il mare. Arrivammo alle grotte di Anzio che erano già quasi le tre di pomeriggio. Alle sei cominciava a farsi sera quindi sfruttammo quelle tre ore a passeggiare lungo la spiaggia e a ridere. Quando iniziò a tirare vento e la marea aumentò ci spostammo dagli scogli per sederci sulla sabbia ancora calda. Guardai l’ora, e immaginando che i miei avrebbero sclerato se fossi rientrata tardi mi girai per dirgli di incamminarci e lo trovai a guardarmi. “Ehi, perché mi fissi?” dissi, ridendo. Voltò la testa verso il mare, il vento gli mosse leggermente i capelli. Si erano allungati un po’ da quando a febbraio avevamo dormito insieme e li avevo osservati. Si alzò e disse tutto enigmatico “Ti ricordi, era iniziato tutto in mezzo alla neve…”. Capì che voleva dire qualcosa di serio così mi avvicinai di più, con i capelli mossi dal vento, verso la riva.

“Fermati, non ti muovere” disse, piano piano. Mi scansò i capelli dal viso. Mi ci sarei persa in quel baratro di occhi nero pece, così tranquilli e così profondi. “Chiudi gli occhi” disse. Chiusi gli occhi. Mi prese la mano. Me la poggiò sul suo petto. Sentì il cuore che batteva convulsamente, forte forte, fortissimo, quasi a uscire fuori dal petto e rimanermi in mano. Rimasi con la mia mano sul suo petto anche quando posò le sue labbra sulle mie. Fu un bacio leggero, che sapeva di sale, un po’ indeciso, delicato ma allo stesso tempo con la forza di imporsi. Non si definirebbe un bacio da film, ma fu l’unico bacio che mi diede, l’unico bacio, l'unico.

Poi lo disse. Si staccò da me e lo disse. “Il mio cuore ora batte”. Non c’èrano altre parole da dire, non c’èra alto da fare. Lo abbracciai e posai la testa sulla sua spalla, sorridendo guardai il sole che stava cominciando a tramontare, sprofondando lentamente nelle tranquille acque dell'oceano. Rimanemmo così finché anche l’ultimo raggio di sole non sparì e il cielo rosa non sfumò nel tipico colore blu delle sere primaverili, dipinto di nuvolette bianche e ricamato di stelle .

Tornammo verso la macchina mano nella mano, in silenzio. Nessuno disse nulla. Ognuno stava interiorizzando per conto suo quel momento, e i nostri non erano mai silenzi imbarazzanti da riempire con parole vuote. Le parole non servivano in quel momento.

Il cd dei Bring scorreva e scorreva finché non arrivò alla mi canzone preferita: “Don’t Go”. Arrivammo all’incrocio fra Anzio e la strada principale verso casa. C’èra qualcosa che non andava. Una macchina che arrivava troppo forte verso di noi, un tir di lato. Fu un attimo, sentì soltanto un rumore fortissimo, uno schianto. Nell’attimo che passò fra lo schianto e il buco nero che mi portò via riuscì a comprendere solo due cose: stavo cadendo dentro ad un immenso senso di pace, e una voce lontana lontana stava cantando “Say youll never leave me cause I need you so much” ovvero “Dimmi che non mi lascerai mai perché ho bisogno di te così tanto”.

*************************************************************

Mi svegliai non so quanto tempo dopo in un letto d’ospedale, era mattina probabilmente, almeno così sembrava dalla finestra. Ero piena di buchi, tubi di flebo e avevo un braccio fasciato. Quando arrivò l’infermiera per aprire le tende mi trovò sveglia e in tutta sorpresa disse tantissime parole che però non comprendevo. Volevo sapere dove mi trovavo, dov’èra Davide, e che cavolo ci facevo conciata così. Dopo cinque minuti arrivarono i miei genitori.

“Giorgia, Giorgia! Sei sveglia … tesoro come stai?” strillavano. Ma cosa avevano tanto da strillare poi. Respirai un attimo, e poi parlai.

“Io sto bene, ma che cos’è successo, perché sono qui, e come mai ho un braccio fasciato. Dov’è Davide? Che diamine sta succedendo?” domandai.

“Tesoro avete avuto un incidente, mentre tornavate a casa. Ti ricordi?” disse papà.

“No, oddio, no, che diamine è successo?” chiesi.

“Un tir ha perso il controllo perché la strada era sporca d’olio, e ha preso in pieno la vostra macchina. Eravate all’incrocio, per andare dritti verso casa, il tir doveva andare dritto anche lui, e c’è stato uno schianto dalla parte del guidatore. Tesoro davvero non ricordi nulla??” domandarono ancora.

“No! Non mi ricordo un cavolo … mamma ma dov’è Davide. Quando posso vederlo? Anche lui è ricoverato qui?”.

I miei non rispondevano. Iniziai a gridare. “Diamine volete dirmi qualcosa?? Dov’è Davide, che gli è successo??” ancora silenzio.

“Cazzo!! Volete dirmi che cazzo sta succedendo … mamma papà ditemi che succede!”. Papà fece per dire qualcosa ma la mamma sussurrò che era meglio di no. Mi arrabbiai ancora e li vidi gesticolare. Alla fine papà mi prese la mano e mi disse “Giorgia, senti, devi essere forte, adesso ascoltami …”. In un lampo capì tutto. Rimasi con il fiato sospeso. “Purtroppo nella vita ci sono anche questi momenti. Purtroppo i medici ce l’hanno messa tutta, e anche l’ambulanza ha fatto il possibile, ma Davide non ce l’ha fatta. Giorgia, noi ti siamo vicini …” la sua bocca continuava a muoversi, ma io non sentivo più nulla. Da quel momento ogni parola che entrava o usciva per me era solo un suono. Mi abbandonai al sonno, e quando non ce la facevo nemmeno a dormire piangevo. Le lacrime erano il mio solo conforto. Non partecipai al funerale perché mi dimisero solo una settimana dopo. Il giorno in cui uscì dall’ospedale per mettermi in macchina e tornare a casa fu l’ultimo che vidi il mondo esterno. Passò una settimana, un mese, due mesi, non mi alzai mai dal letto. Smisi di mangiare, di bere. Dormivo e piangevo. Mi rifugiavo nei sogni, negli incubi. Nella musica. Emy e gli altri ebbero pazienza le prime volte, ma dopo due mesi Emy veniva solo per urlare che dovevo reagire. Mi disse che se davvero facevo battere il mio cuore per me e per lui allora adesso era il momento di farlo. Come poteva capire lei, aveva Shawn. Nessuno poteva capire. Un mattino quando mio padre uscì per andare a lavorare e mamma per andare a scuola a chiedere se i voti che avevo fino ad aprile bastavano per promuovermi rimasi sola a casa. Presi le cuffie, il mio mp3. Mi misi in ascolto. Appena lo accesi era in modalità casuale. Partì “Roses for the dead” dei Funeral For a Friend. Quella canzone era sempre bella, in ogni momento della vita. Capì. Era vero che la musica ti aiuta a capire la vita, e come affrontarla. Ma io quella vita non la volevo più. Ero uno scheletro, dalla pelle pallida e dagli occhi infossati. Ero sciatta, debole e stanca. Mi trascinavo in vano in un esistenza che era sopravvivere alla morte. Perché ero sopravvissuta. C’èra stato un errore. Era sicuramente uno sbaglio. E poi lui aveva bisogno di me. Avevo fatto un casino: gli avevo promesso che l’avrei seguito dentro ogni porta, ogni cancello, ogni mondo, e adesso ero lì a piangermi addosso. Lui aveva bisogno di me, aspettava, e io non lo raggiungevo. Se la vita ci aveva divisi, perché la mia si trascinava pesantemente e faticosamente avanti e la sua era finita in un momento, qualcos’altro ci avrebbe riunito. Presi carta penna e la poca forza che mi rimaneva e scrissi due piccole lettere: una per Emy e una per mamma e papà. Le poggiai sulla scrivania della mia camera, e poi andai in cucina. Presi una bottiglietta di gocce calmanti, ne bevvi la metà, e presi il primo coltello che trovai in cucina. Dicevano i libri e i sopravvissuti ai suicidi che tagliarsi le vene era una morte lenta e che ti lascia scorrere via piano piano senza però soffrire troppo. Fu facile e veloce, quasi naturale. Guardai prima la lama, e poi il fiume di sangue che sgorgava prima lentamente e poi aumentava lungo le braccia. Ricordo che mi abbandonai al calore del cuscino, che chiusi gli occhi e che nell’addormentarmi sorrisi, sapendo che quella solitudine e quel trascinarsi nel vuoto assoluto della mia inutile vita stava finendo, ovunque sarei andata sarebbe stato comunque meglio.

La luce della camera si offuscò … lentamente, lentamente, il bagliore sparì … i rumori divennero sottofondo, gli odori scomparvero, una sensazione di quiete mi inondò, un senso di pace mi abbracciò dolcemente, al sonno si sostituì la morte.

 

   
 
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