CAPITOLO 9: There is a Hell, Believe I have seen It; There is a Heaven, Let’s keep
it a Secret
Da quel
giorno, da quel lontano lunedì di febbraio ogni cosa prese una piega diversa. I
giorni passavano e io non facevo che diventare sempre più dipendente da lui, e
viceversa lui da me. Passavamo insieme ogni secondo disponibile, ogni attimo,
ogni battito di cuore umano.
La neve
si sciolse tre giorni dopo, la scuola andava via diventando più complicata e
dura, io mi davo da fare per non prendermi il debito di francese e lui si dava
da fare per preparare una tesina brillante e interessante. Quando poteva mi
aiutava con il francese e io lo aiutavo a stare dietro a ogni cosa, gli
riscrivevo al computer le tesine, lo interrogavo per vedere come andava e gli
davo tutta la forza che potevo nei giorni in cui davvero non ce la faceva più.
Mi portò anche a casa sua e mi presentò ai suoi come “la mia migliore amica”.
Quando avevamo finito ci mettevamo a sentire un cd qualsiasi, a parlare del
futuro, dell’università, della paura di crescere, di quella di vivere senza uno
scopo e di quella di morire. Eravamo andati oltre ogni aspettativa per tutti
quelli che ci conoscevano: il nostro essere quello che eravamo, quel qualcosa
di indefinibile, una coppia di “due esseri umani molto legati” era un concetto,
per sua natura, indefinibile. Il nostro sentimento, preso nell’insieme della
coppia, non era l’amore, perché se io potevo dire di amarlo lui poteva dire che
ero speciale come persona, e non era amicizia proprio perché io lo amavo; ma
era qualcosa di speciale: la si poteva chiamare dipendenza, bisogno
inguaribile, equilibrio perfetto, ma non era niente di definibile. Se io ero
con lui stavo bene, se lui non c’èra io non c’èro. Non vivevo il momento nella
sua generalità, vivevo il Lui, il durante. Se stavo per andare da lui pensavo a
cosa raccontargli, se stavo con lui non vedevo altro, e se l’avevo appena
lasciato facevo il resoconto della nostra giornata insieme. Andavo a dormire
pensando che lui stava sicuramente nel suo letto a pensare a chissà cosa, e mi
svegliavo pensando che l’avrei visto a scuola. Ogni cosa insieme era speciale:
andare al cinema diventava speciale, e quel film diventava speciale anche se
era una schifezza perché l’avevamo visto insieme; andare allo skate park era speciale perché anche se provavo e sbattevo la
faccia per terra lo stavo facendo in sua compagnia. Anche i viaggi in macchina
con lui erano speciali, le passeggiate erano speciali, le serate al telefono. E
stavo veramente vivendo tanto appassionatamente da far battere il mio cuore per
me e per lui. Avevamo anche preso a giare mano nella mano, e spesso sua madre
ridendo diceva che stava solo aspettando che ammettessimo la nostra storia, ma
lui non lo faceva mai. Arrivò la fine di aprile. Era un mattino magnifico, il
cielo era limpido e l’aria stava scaldandosi sempre di più ogni giorno che
passava. La maturità era sempre più vicina, e anche il mio compleanno, a metà
giugno, non era molto lontano. Quel mattino finalmente una parte delle mie
speranze si realizzarono: mentre eravamo tutti insieme alla fermata anche lui
arrivò tranquillo come se nulla fosse, salutò tutti e poi venne da me. Era
normale che stavamo tra noi due a chiacchierare dalle 8 fino a che non era ora
di entrare in classe e anche quel mattino fu lo stesso. Qualcosa però lasciò
tutti noi, me per prima, abbastanza sorpresi: lo accompagnai come sempre fino
in classe e mentre gli dicevo buona giornata e salutavo lui e Federico, mi
prese la mano e mi tirò a lui. Subito arrossì perché non faceva mai cose simili
davanti agli altri, così lo guardai sorridendo con l’aria di chi non capisce. Mi
diede un foglietto ripiegato, un bacio sulla fronte e si infilò in classe.
Scesi di fretta le scale ancora un po’ scossa. Arrivata in classe Emy stava parlando con le altre compagne, quindi non mi
soffermai molto su di lei, e sedendomi al banco aprì il foglietto:
Save me from the ones that haunt me in the night.
I can't live with myself, so stay with me tonight.
Chiunque avesse letto
non avrebbe capito a cosa si riferiva, ma io capì al volo che era una delle
frasi più belle di “Don’t Go” dei Bring Me
The Horizon, il nostro gruppo preferito. Presi
il telefono e pensai a cosa scrivergli, ma bastò poco per veder arrivare un
ottima idea:
Believe in me, When you feel like you’re losing all
your hopes and dreams.
Believe in me, When I am gone you gotta keep a
smile on.
Ogni volta che ascolto
la musica mi rendo conto di quanto le canzone e i testi si rispondano e si
corrispondano. E questa risposta alla Blood On
The Dance Floor sapevo che gli sarebbe piaciuta.
Inviai l’sms e lui mi rispose subito dopo dicendo che dopo scuola aveva una
sorpresa.
Alla ricreazione non
uscì perché avevo un compito in classe tra la terza e la quarta ora, così
all’uscita appena lo vidi gli chiesi spiegazioni. Mi disse solo che mi doveva
portare in un posto e che quindi dovevo avvertire i miei che non saremmo
tornati per pranzo (doveva venire a mangiare da me). Detto fatto, andai a
salutare Emy e le spiegai che non venivo alla
fermata. Emy sembrava molto allegra e così mi disse
“Non voglio rovinarti le sorprese ma pare che Shawn
abbia sentito Davide e Federico che parlavano, e il tuo tesoro che diceva a
Fede dire una cosa molto importante, perché ha capito e ha preso una decisione
fondamentale, o qualcosa del genere. Bhè, che dire,
divertiti!”. Non capì che intendeva dire, così la salutai. Saliti in macchina
infilai il Cd dei Bring e partimmo. Gli chiesi più e
più volte di dirmi dove andavamo, ma non me lo disse finché alla fine non capì
da sola che andavamo verso Anzio, verso il mare. Arrivammo alle grotte di Anzio
che erano già quasi le tre di pomeriggio. Alle sei cominciava a farsi sera
quindi sfruttammo quelle tre ore a passeggiare lungo la spiaggia e a ridere.
Quando iniziò a tirare vento e la marea aumentò ci spostammo dagli scogli per sederci
sulla sabbia ancora calda. Guardai l’ora, e immaginando che i miei avrebbero
sclerato se fossi rientrata tardi mi girai per dirgli di incamminarci e lo
trovai a guardarmi. “Ehi, perché mi fissi?” dissi, ridendo. Voltò la testa
verso il mare, il vento gli mosse leggermente i capelli. Si erano allungati un
po’ da quando a febbraio avevamo dormito insieme e li avevo osservati. Si alzò
e disse tutto enigmatico “Ti ricordi, era iniziato tutto in mezzo alla neve…”. Capì che voleva dire qualcosa di serio così mi
avvicinai di più, con i capelli mossi dal vento, verso la riva.
“Fermati, non ti
muovere” disse, piano piano. Mi scansò i capelli dal
viso. Mi ci sarei persa in quel baratro di occhi nero pece, così tranquilli e
così profondi. “Chiudi gli occhi” disse. Chiusi gli occhi. Mi prese la mano. Me
la poggiò sul suo petto. Sentì il cuore che batteva convulsamente, forte forte, fortissimo, quasi a uscire fuori dal petto e
rimanermi in mano. Rimasi con la mia mano sul suo petto anche quando posò le
sue labbra sulle mie. Fu un bacio leggero, che sapeva di sale, un po’ indeciso,
delicato ma allo stesso tempo con la forza di imporsi. Non si definirebbe un
bacio da film, ma fu l’unico bacio che mi diede, l’unico bacio, l'unico.
Poi lo disse. Si
staccò da me e lo disse. “Il mio cuore ora batte”. Non c’èrano altre parole da
dire, non c’èra alto da fare. Lo abbracciai e posai la testa sulla sua spalla,
sorridendo guardai il sole che stava cominciando a tramontare, sprofondando
lentamente nelle tranquille acque dell'oceano. Rimanemmo così finché anche
l’ultimo raggio di sole non sparì e il cielo rosa non sfumò nel tipico colore
blu delle sere primaverili, dipinto di nuvolette bianche e ricamato di stelle .
Tornammo verso la
macchina mano nella mano, in silenzio. Nessuno disse nulla. Ognuno stava
interiorizzando per conto suo quel momento, e i nostri non erano mai silenzi
imbarazzanti da riempire con parole vuote. Le parole non servivano in quel
momento.
Il cd dei Bring scorreva e scorreva finché non arrivò alla
mi canzone preferita: “Don’t Go”. Arrivammo all’incrocio fra Anzio e la
strada principale verso casa. C’èra qualcosa che non andava. Una macchina che
arrivava troppo forte verso di noi, un tir di lato. Fu un attimo, sentì
soltanto un rumore fortissimo, uno schianto. Nell’attimo che passò fra lo
schianto e il buco nero che mi portò via riuscì a comprendere solo due cose:
stavo cadendo dentro ad un immenso senso di pace, e una voce lontana lontana stava cantando “Say you’ll never leave
me cause I need you so much” ovvero “Dimmi che non mi lascerai mai perché ho
bisogno di te così tanto”.
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Mi svegliai non so
quanto tempo dopo in un letto d’ospedale, era mattina probabilmente, almeno
così sembrava dalla finestra. Ero piena di buchi, tubi di flebo e avevo un
braccio fasciato. Quando arrivò l’infermiera per aprire le tende mi trovò
sveglia e in tutta sorpresa disse tantissime parole che però non comprendevo.
Volevo sapere dove mi trovavo, dov’èra Davide, e che cavolo ci facevo conciata
così. Dopo cinque minuti arrivarono i miei genitori.
“Giorgia, Giorgia! Sei
sveglia … tesoro come stai?” strillavano. Ma cosa avevano tanto da strillare
poi. Respirai un attimo, e poi parlai.
“Io sto bene, ma che
cos’è successo, perché sono qui, e come mai ho un braccio fasciato. Dov’è
Davide? Che diamine sta succedendo?” domandai.
“Tesoro avete avuto un
incidente, mentre tornavate a casa. Ti ricordi?” disse papà.
“No, oddio, no, che
diamine è successo?” chiesi.
“Un tir ha perso il
controllo perché la strada era sporca d’olio, e ha preso in pieno la vostra
macchina. Eravate all’incrocio, per andare dritti verso casa, il tir doveva
andare dritto anche lui, e c’è stato uno schianto dalla parte del guidatore.
Tesoro davvero non ricordi nulla??” domandarono ancora.
“No! Non mi ricordo un
cavolo … mamma ma dov’è Davide. Quando posso vederlo? Anche lui è ricoverato
qui?”.
I miei non rispondevano.
Iniziai a gridare. “Diamine volete dirmi qualcosa?? Dov’è Davide, che gli è
successo??” ancora silenzio.
“Cazzo!! Volete dirmi
che cazzo sta succedendo … mamma papà ditemi che succede!”. Papà fece per dire
qualcosa ma la mamma sussurrò che era meglio di no. Mi arrabbiai ancora e li
vidi gesticolare. Alla fine papà mi prese la mano e mi disse “Giorgia, senti,
devi essere forte, adesso ascoltami …”. In un lampo capì tutto. Rimasi con il
fiato sospeso. “Purtroppo nella vita ci sono anche questi momenti. Purtroppo i
medici ce l’hanno messa tutta, e anche l’ambulanza ha fatto il possibile, ma
Davide non ce l’ha fatta. Giorgia, noi ti siamo vicini …” la sua bocca
continuava a muoversi, ma io non sentivo più nulla. Da quel momento ogni parola
che entrava o usciva per me era solo un suono. Mi abbandonai al sonno, e quando
non ce la facevo nemmeno a dormire piangevo. Le lacrime erano il mio solo
conforto. Non partecipai al funerale perché mi dimisero solo una settimana
dopo. Il giorno in cui uscì dall’ospedale per mettermi in macchina e tornare a
casa fu l’ultimo che vidi il mondo esterno. Passò una settimana, un mese, due mesi,
non mi alzai mai dal letto. Smisi di mangiare, di bere. Dormivo e piangevo. Mi
rifugiavo nei sogni, negli incubi. Nella musica. Emy
e gli altri ebbero pazienza le prime volte, ma dopo due mesi Emy veniva solo per urlare che dovevo reagire. Mi disse che
se davvero facevo battere il mio cuore per me e per lui allora adesso era il
momento di farlo. Come poteva capire lei, aveva Shawn.
Nessuno poteva capire. Un mattino quando mio padre uscì per andare a lavorare e
mamma per andare a scuola a chiedere se i voti che avevo fino ad aprile
bastavano per promuovermi rimasi sola a casa. Presi le cuffie, il mio mp3. Mi
misi in ascolto. Appena lo accesi era in modalità casuale. Partì “Roses for the dead” dei Funeral For a Friend. Quella
canzone era sempre bella, in ogni momento della vita. Capì. Era vero che la
musica ti aiuta a capire la vita, e come affrontarla. Ma io quella vita non la
volevo più. Ero uno scheletro, dalla pelle pallida e dagli occhi infossati. Ero
sciatta, debole e stanca. Mi trascinavo in vano in un esistenza che era
sopravvivere alla morte. Perché ero sopravvissuta. C’èra stato un errore. Era
sicuramente uno sbaglio. E poi lui aveva bisogno di me. Avevo fatto un casino:
gli avevo promesso che l’avrei seguito dentro ogni porta, ogni cancello, ogni
mondo, e adesso ero lì a piangermi addosso. Lui aveva bisogno di me, aspettava,
e io non lo raggiungevo. Se la vita ci aveva divisi, perché la mia si
trascinava pesantemente e faticosamente avanti e la sua era finita in un
momento, qualcos’altro ci avrebbe riunito. Presi carta penna e la poca forza
che mi rimaneva e scrissi due piccole lettere: una per Emy
e una per mamma e papà. Le poggiai sulla scrivania della mia camera, e poi
andai in cucina. Presi una bottiglietta di gocce calmanti, ne bevvi la metà, e
presi il primo coltello che trovai in cucina. Dicevano i libri e i
sopravvissuti ai suicidi che tagliarsi le vene era una morte lenta e che ti
lascia scorrere via piano piano senza però soffrire
troppo. Fu facile e veloce, quasi naturale. Guardai prima la lama, e poi il
fiume di sangue che sgorgava prima lentamente e poi aumentava lungo le braccia.
Ricordo che mi abbandonai al calore del cuscino, che chiusi gli occhi e che
nell’addormentarmi sorrisi, sapendo che quella solitudine e quel trascinarsi
nel vuoto assoluto della mia inutile vita stava finendo, ovunque sarei andata
sarebbe stato comunque meglio.
La luce della camera si
offuscò … lentamente, lentamente, il bagliore sparì … i rumori divennero
sottofondo, gli odori scomparvero, una sensazione di quiete mi inondò, un senso
di pace mi abbracciò dolcemente, al sonno si sostituì la morte.