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Autore: Eloise_Hawkins    24/10/2011    3 recensioni
Una raccolta di ricordi che si snoda tra le pagine di una vita vissuta con tenacia e affetto. Un'accozzaglia di giorni che narra di una crescita delicata, felice, a tratti sofferta, ma tutto sommato serena. Tra risate e coccole, tra lacrime e dolori, si svolge la vita di Chiara, la protagonista di questa storia, che con un sorriso a volte dolce, a volte amaro, racconta la vita che i suoi genitori le hanno regalato, l'affetto che la sua famiglia le ha donato, il sorriso che ha faticosamente costruito. Sempre all'insegna dell'amore, e del forte legame famigliare che Cinzia e Mauro hanno saputo creare.
A mio padre, che col suo sguardo mi ha insegnato il mondo.
A mia madre, perché nei suoi occhi ho imparato la fantasia.
A mia nonna, perché attraverso i suoi racconti ho capito la vita.
Ai miei folletti, Renata e Irene, che mi hanno tenuto per mano fino ad oggi, in questo girotondo chiamato vita
.
Questa storia si è classificata prima al contest "L'alfabeto dei ricordi", indetto da Angy Lulu sul forum di Efp.
Genere: Fluff, Slice of life, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: Incompiuta
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- Questa storia fa parte della serie 'Thanks for the memories'
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Thanks for the memories





 

 

 

B come benvenuta

 

Un giorno – L’ombelico del mondo

 

A mio padre, che col suo sguardo mi ha insegnato il mondo

 

Era quasi il tramonto di una splendida giornata estiva. Il sole stava lentamente scivolando dentro l’abbraccio bagnato del mare, macchiando l’oceano di fuoco; il cielo si era tinto di arancione, e dentro le nuvole rosee volavano allegri gabbiani, e un solitario fenicottero, ultimo ritardatario di uno stormo che era passato qualche ora prima.

Nel giardino di quella casa, però, la quieta calma di quel giorno ormai morente non era rispettata nella sua pienezza: c’era via vai, una folla di curiosi davanti al cancello che dava sulla strada, altre due o tre persone sulle scale che portavano al mare, e, soprattutto, un uomo che teneva per mano una donna, seduta dentro una piccola piscina gonfiabile appartenente alla loro primogenita, ora braccata dal nonno materno, troppo emozionato per poter assistere a quell’evento fuori dal comune. Urlava, la madre, e piangeva di una felicità che solo un’altra volta aveva già provato, quasi tre anni prima, quando aveva partorito quella bimba che tentava di sfuggire alle grinfie del nonno per spiare la testolina della sorellina nascitura. Ma lui, che per primo aveva il cuore in tumulto, non le permetteva di assistere al lieto evento; di tanto in tanto lanciava un’occhiata a quel giardino illuminato, sorridendo nel vedere un gabbiano curioso attardarsi nel suo volo per spiare quel privato universo che una coppia aveva creato nel compasso perfetto e minuto generato da quella piscina, riempita di acqua tinta di rosso, e non per il riflesso aranciato del sole che tramontava. Urlava, la madre, e piangeva, mentre stringeva la mano dell’uomo che amava, cercando di dare alla luce il frutto del loro amore.

La ginecologa arrivò quando le doglie erano già tanto frequenti da non lasciare tregua alla puerpera: il travaglio era già cominciato, ma la bimba non aveva alcuna fretta di nascere – ne avrebbe avuta tanta di vivere, in futuro. L’ostetrica gridava alla pazzia.

« Siete pazzi, dei pazzi! » si agitava intorno a quella piscinetta, lo sguardo allucinato e le mani tremanti. « Un parto in un giardino. A Brucoli, poi! L’ospedale più vicino è a un’ora di strada! Siete pazzi! » Eppure nel suo sguardo clinico e professionale c’era una luce furba e dolcissima, la luce di chi la sapeva lunga su quella pazzia, e di chi conosceva la follia di quella madre, ultimo strascico di una vita alternativa, esternata anche in quell’ultimo gesto: il voler partorire sua figlia in acqua, e non in un anonimo ospedale. Aveva già avuto la prima esperienza, avrebbe potuto ripetere il travaglio altre volte – e l’avrebbe fatto. Ma lei, prodotto di un amore che voleva vedere, prima di ogni altra stagione, l’estate, e quella aveva scelto per venire al mondo, doveva nascere nel mare.

Nuoterà come un delfino e non avrà mai paura del profondo, dell’ignoto, del blu, dell’immenso. Quindi non avrà mai paura di volare. Sì… perché secondo me saper volare è una tra le cose più difficili da imparare, ma come tale importante. C’è sempre almeno un momento nella vita in cui devi aprire le ali e guardare in alto e poi dall’alto… saper guardare giù.

Ma il travaglio era già cominciato, e la bimba, dopo due ore di attesa, spingeva per venir fuori: si sarebbe dovuta accontentare dell’acqua dolce; l’oceano l’avrebbe visto qualche giorno dopo, e avrebbe salutato con sguardo ingenuo, puro di qualsiasi contaminazione, i pesci curiosi che l’avrebbero a sua volta fissata con stupore, quella bimba che appena nata nuotava già come un delfino.

Bussava intensamente, e pian piano veniva fuori: ecco la testolina, che spunta per un attimo e poi scompare di nuovo; ritorna indietro, ma solo per prendere la rincorsa e poi andare avanti, mostrando per la prima volta il suo visetto al mondo. Scivola fuori dal ventre della madre tra pianti commossi e urla di gioia, sotto lo sguardo apprensivo della ginecologa e quello, esausto ma splendente, della madre, che si mette subito in allarme quando il suo pianto non spezza quella quiete. Il cordone, lungo quasi centocinquanta centimetri, contro gli abituali ottanta, è tutto arrotolato attorno a una piccola stellina, ma proprio piccola piccola; una stellina che apre gli occhi per la prima volta, e vede il viso di un uomo che non sapeva ancora che avrebbe amato fino alla fine dei suoi giorni, e anche oltre; che l’avrebbe amato di quell’amore di cui solo lei, era capace. Lo vede, i suoi occhi castani e severi addolciti dal pianto commosso, e anche lei si commuove, e piange: il suo vagito di neonata annuncia la sua nascita, potente, gioioso. È nata, e vuole gridarlo al mondo; e lo fa, senza chiedere il permesso, senza aspettare. Poi assaggia la sua mamma per la prima volta, legandosi a lei indissolubilmente con un filo invisibile che non si sarebbe mai spezzato.

Infine, si lascia prendere dalla manona del papà: è così piccola che entra tutta nella sua mano, e le sue gambette minute sfiorano appena il polso di quell’uomo emozionato: una femmina, che avrebbe avuto una mano a cui appoggiarsi, sempre – quella stessa su cui era ora poggiata, minuscolo miracolo capitato a loro per un meraviglioso gioco del destino.

« Mamma, sei pronta? Al tre la chiamiamo… » la voce del papà era rotta dall’emozione, ma comunque forte e tuonante. Ma la neonata non ne ebbe paura: forse fu quello il momento in cui se ne innamorò; forse, invece, era stato già prima, amore a prima vista che sarebbe stato imperituro nel tempo. « Uno, due… TRE »

« Chiara » La bimba sentì per la prima volta il suo nome, e al contempo la voce corale dei suoi genitori, e tutto un insieme di altri suoni dissonanti – lo stridore di un gabbiano che richiama i suoi compagni per mostrare quella minuscola creaturina appena affacciatasi alla vita, lo sciabordio delicato del mare, il fischio leggero del vento, il frinire continuo delle cicale – che per una bimba appena nata era troppo da sopportare. Pianse, forse per far sapere ai genitori che il nome le piaceva, magari semplicemente perché estenuata da tutte quelle nuove emozioni – amare ad appena qualche ora di vita è davvero faticoso, in fondo.

Il papà avvicinò la bimba alla sua mamma, e la guardò con occhi sognanti: era stata a dir poco eccezionale; e accompagnarla, per lui, era stato un vero privilegio; perché lei ci aveva creduto, aveva lottato contro tutti ed era andata avanti sempre serena, sicura che sarebbe stato speciale. E così era stato: infinitamente speciale, e quando le vide insieme per la prima volta – la bimba, minuscola, tra le braccia delicate di quella madre che l’avrebbe sempre amata, una coppia speciale, già si vedeva – lei era stremata, ma nei suoi occhi mentre la guardava, anche lì c’era qualcosa di speciale: la stessa magia che avrebbe continuato a regalarle ad ogni compleanno.

Il papà si alzò, e il dolore alla schiena era nulla in confronto a quello, dolcissimo e molto più intenso, che aveva nel petto. Mentre la ginecologa versava del ghiaccio nell’acqua calda della piscina per fermare l’emorragia della madre, che aveva occhi solo per sua figlia, lui prese tra le mani la placenta, scavò un piccolo buco poco distante dal punto in cui la sua stellina era nata, e la piantò lì, in mezzo a quel giardino: si sarebbero fatte compagnia nella crescita della vita.

I folletti raccontano che, all’inizio e alla fine di ogni arcobaleno, c’è una pentola d’oro in dono ai fortunati che trovano quel punto. Quell’uomo, in quel momento, pensò che, senza dover correre lontano, lì in quel guardino c’era un punto magico ben più prezioso. Era il punto in cui tutto era appena accaduto, ma era anche il punto da cui stava avendo inizio una storia: questa storia. Eccolo lì: quello è l’OMBELICO DEL MONDO.

 

Il sole tramontò infine su quel pomeriggio di festa: un giorno era finito; ma una nuova vita era appena iniziata.


 

 

   
 
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