1.
Narra la leggenda che un uomo vestito di pelli di
lupo, dagli occhi color dell’ossidiana e capelli scuri come ali di corvo, si
avventurò un giorno nella foresta ai piedi dei Monti Urlanti.
Suo era il desiderio di poter dare voce al proprio
dolore, oltre alla remota possibilità di chiedere al dio lupo la possibilità di
debellarlo.
Rimorso e infinita disperazione avevano colto l’uomo
quando la moglie, nel partorire la loro prima figlia, era morta tra immenso
strazio.
Il suo cuore aveva ceduto allo sconforto, e neppure la
salvezza della figlia aveva scongiurato la caduta nel baratro in cui l’uomo era
finito.
Colmo di speranza, si era quindi inoltrato nella
foresta del dio lupo, nel cuore la preghiera di poter tornare a sorridere come
un tempo.
Raggiunta infine la statua del dio-lupo Hevos, alle
sorgenti del fiume Fenar, l’uomo si era inginocchiato dinanzi a essa, chiedendo
a gran voce di poter riavere la moglie al suo fianco.
Era stato con la paura sul volto, e lo stupore negli
occhi, che si era ritrovato a fissare la figura del giovane Hevos, divenuto
carne innanzi ai suoi occhi.
Imberbe e dal viso perfetto, la divinità aveva osservato
lungamente il postulante con i suoi occhi dorati.
Mentre un lento sorriso si era dipinto sul suo volto
immortale, aveva mormorato con voce piana: “Colei che tieni tra le braccia è
tua figlia, viandante?”
Osservando il fagotto che teneva stretto a sé, l’uomo aveva
assentito, mormorando poi roco: “Sì, lei è mia figlia Hyo.”
Allungando una mano dalle lunghe dita aggraziate, il
dio aveva sfiorato il viso della neonata che, puntando due brillanti occhi neri
su di lui, aveva sorriso, gorgogliando allegra.
Ciò aveva riempito di letizia il giovane immortale.
“Ella mi diletta, viandante… concedimi di prenderla in
braccio, dunque” gli aveva a quel punto ordinato il dio, sorridendo alla
piccola.
Il viandante, timoroso di incorrere nelle ire dell’immortale,
aveva acconsentito, porgendogli subito la bimba.
Immediatamente, Hyo aveva riso ilare e il dio,
carezzandole il viso con espressione divertita, aveva dichiarato: “Ho udito la
tua invocazione, viandante. Tu sai che non mi è concesso varcare le soglie del
mondo dei morti, che di diritto appartiene a mio fratello, quindi, perché tu
chiedi l’impossibile?”
“Seguo il culto del Lupo e non del Corvo, mio signore,
per questo ho pensato di rivolgermi a voi. La mia vita non ha più senso, senza
Zenah, né io sento più il mio cuore battere, senza di lei. Solo per Hyo sto
continuando a respirare, ma questa non è esistenza” aveva ammesso il viandante,
sospirando pesantemente.
Continuando a osservare Hyo senza degnare di uno
sguardo l’uomo, il giovane dio aveva replicato con una certa acredine: “Vuoi tu
dunque dire che neppure una creatura pura come tua figlia, è capace di tenerti
in vita con serenità? Non conta dunque nulla, per te? Dimmi, allora, perché
l’hai voluta in questo mondo?”
“Era desiderio di Zenah… e lei me l’ha portata via” aveva
sibilato suo malgrado l’uomo, reclinando il capo e non accorgendosi perciò del
cipiglio del dio.
Assottigliando le iridi dorate, il dio aveva così
mutato i bei lineamenti del suo giovane volto e per poi asserire glaciale: “Le
tue parole sono come acqua che scorre su un sasso, per le mie orecchie. Nulla
conta, per me, se non la vita di ogni essere vivente. Non mi occupo di morti ma, se per te è
così importante Zenah da passare sopra all’esistenza della tua stessa figlia,
intercederò per te presso mio fratello, così da ricongiungerti alla tua amata…
a una condizione, però. Dai a me Hyo, e io ti riunirò a Zenah.”
“Cosa? Ma…” aveva tentennato l’uomo, risollevando il
capo per fissarlo timoroso.
“Decidi in fretta, uomo, prima che la mia pazienza
venga meno!” aveva esclamato il dio, continuando a vezzeggiare con un dito la
bambina.
“Lo farete davvero?”
“Dubiti forse della parola di un dio!?” aveva perciò
tuonato Hevos, facendosi di fiamma e fissandolo veramente per la prima volta.
I suoi occhi avevano emanato sdegno e furia al tempo
stesso.
L’uomo era infine crollato a terra scuotendo il capo così
il dio, sogghignando soddisfatto, aveva dichiarato sprezzante: “Ah… capisco. Allora
è vero che, la di lei vita, non conta niente, per te. E sia! Riavrai la tua
amata, ma pagherai per sempre lo scotto di averla voluta di nuovo con te.”
“Cosa volete dire?” aveva esalato l’uomo, impallidendo
dinanzi alle sue parole profetiche.
“Ciò che per un uomo mortale conta come lo scorrere
della sabbia in una mano, così non è per una donna, ma te ne renderai conto da
solo. Ora va’, prima che cambi idea!” aveva esclamato a gran voce il dio,
svanendo in una nuvola di luce.
Hyo era scomparsa con lui.
***
Un alito di vento si incuneò
tra le finestre socchiuse della stanza di Aken che, sbadigliando, si risvegliò
dal suo sonno leggero.
Sbattendo più volte le palpebre
per comprendere da dove provenisse quella fastidiosa corrente d’aria, osservò
cupo i battenti dischiusi prima di decidersi ad alzarsi.
Slanciate le lunghe gambe fuori dal letto, il giovane
principe si incamminò verso la finestra, poggiando i piedi sulle morbide stuoie
di pelliccia che lo riparavano dal gelido pavimento di pietra.
Chiusi i battenti, osservò ora completamente sveglio
le case e i palazzi della città di Rajana, la capitale del regno di Enerios.
Rajana era già desta da ore, centro nevralgico dello
scambio di merci provenienti da ogni angolo del loro ricco reame.
Dalle possenti montagne a nord giungevano gemme
preziose, pelli pregiate e nobili metalli, che consentivano ai paesini
abbarbicati tra rocce e declivi scoscesi di sopravvivere a quelle aride lande.
Dal sud, ove il mare era ricco di vita, pesci di ogni
razza e perle rilucenti giungevano in eguale quantità, diretti sia al mercato
interno che a quello estero.
Aken sorrise di fronte al brulicare di persone e mezzi,
nei pressi della grande piazza del mercato.
Ironico, si chiese cosa sarebbe successo se, un
dannatissimo giorno, tutta la prosperità del suo regno fosse scemata di colpo.
Nessuno di loro sarebbe sopravvissuto un solo giorno,
a rape ed erbe di campo. Nessuno.
“Troppa opulenza” brontolò tra sé, prima di distogliere
lo sguardo dalla finestra per dedicarsi ad altro.
Presi da una sedia gli indumenti che, la sera
precedente, aveva ripiegato diligentemente, Aken indossò calze, pantaloni e
camiciola di lino finissimo.
A quel punto, indeciso sul da farsi, osservò per un
momento una delle sue ricche tuniche ricamate ma, al fine, indossò un
giustacuore di cuoio al suo posto.
Un buon allenamento mattutino non gli avrebbe certo
fatto male e, vestito come un damerino di corte, non avrebbe potuto farlo.
Così deciso, infilò ai piedi corti e consunti stivali
di cuoio e, dopo aver legato in una coda di cavallo i lisci e neri capelli, che
ormai gli giungevano ben oltre le spalle, uscì dalla propria stanza.
A grandi passi, quindi, si diresse senza ulteriori
indugi verso la caserma di Rajana.
In quanto principe ereditario, Aken avrebbe dovuto
fare colazione insieme alla sua famiglia, e non certo nel refettorio dei
soldati.
Ormai da tempo, però, si era concesso il lusso di
disertare quell’impegno mattutino.
Nel corso degli anni, le persone invitate al tavolo dei
reali erano diventate, per lui, sempre più insopportabili e fonte continua di
mal di testa.
Non amava la sua posizione e, meno ancora, essere
l’oggetto delle brame di potere della nobiltà.
Da quando aveva compiuto diciotto anni, la Corte aveva
tentato con ogni mezzo di vederlo sposato a questa o quella dama di corte, ma
sempre di ottimo lignaggio.
A sette anni di distanza dal suo primo ballo ufficiale,
e alla susseguente investitura a erede della corona, nulla era cambiato.
Quei lugubri pensieri lo portarono ad accigliarsi per alcuni
attimi ma, quando raggiunse le scale di servizio, Aken si rasserenò a ogni
gradino lasciato dietro di sé.
Non amava il luogo in cui i suoi avi avevano vissuto
per secoli.
Non che il palazzo, con le sue alte torri merlate di
arenaria grigia, le sue mura possenti e i suoi robusti contrafforti, non fosse
bello, o non meritasse di essere osservato con ammirazione.
Semplicemente, vivere lì non lo aggradava.
L’essere costantemente controllato, studiato,
vivisezionato dalla Corte, rendeva la sua vita a palazzo ben peggiore di una
campagna militare.
Durante la lotta, poteva brandire spada e scudo per
difendersi, ma a palazzo?
Un coltellino da burro era ben misera arma, e non
poteva certo levarla contro coloro che, il suo ardore di guerriero, riteneva
meno che mere caricature di uomini.
Meno che meno, poteva sfoderarlo contro le nobili dame
di corte che, con i loro ventagli e i loro profumi svenevoli, erano forse
peggio delle zecche.
Con uno sbuffo, lanciò un rapido sguardo all’alta
torre di guardia, su cui svettava la bandiera con il lupo nero, su campo rosso,
che era il simbolo del suo regno.
Dopo averla osservata sventolare al vento per alcuni
attimi, riprese il suo lesto cammino verso la foresteria della caserma.
Meglio non pensare a quanto avrebbe voluto essere come
quel lupo, e fuggire per sempre da quei luoghi.
Spartana come ogni ricovero militare, la caserma di
Rajana – situata nei pressi del Palazzo Reale – poteva vantare non solo i
soldati meglio addestrati del regno, ma anche la più fornita scuderia di
Enerios.
I cavalli, scelti esclusivamente per la loro forza, possanza
e capacità di resistenza in battaglia, erano i meglio addestrati di tutto il
reame.
Solo il regno di Vartas ne vantava di migliori. Non
che a loro piacesse ammetterlo, ma era un dato di fatto.
Aken ammirava da sempre quelle bestie indomite che,
come autentici guerrieri, correvano incontro alla morte portando al galoppo i
propri cavalieri, senza temere colpo di spada o punta di lancia.
Il suo destriero non faceva differenza.
Come ogni mattina, il principe si recò alle scuderie
per salutare il suo fedele destriero Rohal, con cui aveva già combattuto
diverse battaglie.
Lo stallone nero, scorgendolo sull’entrata della
stalla, sbuffò sonoramente, agitando il capo oltre la bassa porta lignea del
suo box.
Il giovane principe, sorridendo lieto, si avvicinò per
carezzarlo e dire gentilmente: “Buongiorno, mia fulgida tempesta.”
Rohal strusciò il muso contro la sua spalla,
dimostrandogli tutto il suo affetto incondizionato e Aken, sorridendo
maggiormente, gli allungò un dolcetto, sussurrando complice: “Se mi vede lo
stalliere, ci metteremo nei guai, ma di certo te lo meriti. Acqua in bocca,
però.”
Il suo nitrito allegro dimostrò al principe quanto il
regalo fosse stato gradito.
Dopo un ultimo grattino alle orecchie, il giovane se
ne andò in direzione della caserma per raggiungere il refettorio.
Lavatosi le mani in un bacile di acqua fresca, prima
di entrare nella bassa struttura a pianterreno ove i suoi uomini si riunivano
per il rancio, Aken salutò i presenti, ricevendo in risposta inchini e pacche
sulle spalle.
Sorridendo a tutti loro con trasporto, si diresse
senza ulteriori indugi verso le vivande già pronte, prendendo un po’ di carne salata
e del pane di noci.
Non gli fu difficile trovare un angolo libero ove
sedersi. A quell’ora, molti soldati erano già di ronda, quindi la sala era
quasi vuota.
Sedutosi a un tavolo di legno grezzo come gli altri
soldati presenti, Aken iniziò a mangiare tranquillamente, lo sguardo perso nel
vuoto e ora del tutto privo di preoccupazioni.
Era più a suo agio tra i soldati, i cavalli e le
spade, piuttosto che tra trine, merletti, profumi speziati e vuote parole.
Che si divertisse il fratello minore, a corteggiare le
dame! Lui aveva di meglio da fare!
Quel breve idillio, però, durò ben poco.
Un paggio in livrea, entrando nel refettorio con il
chiaro intento di trovare proprio lui, distrusse i suoi piani per quella
mattinata.
Non appena quegli occhi spiacenti si posarono sul suo
volto aggrottato, Aken seppe di avere terminato lì, per quel giorno.
Bloccandosi subito – era insolito che i paggi si
facessero vedere in caserma, se non per questioni urgenti e della massima
importanza – Aken gli fece cenno di avvicinarsi.
Annuendo, il ragazzo in livrea si inchinò contrito, mormorando:
“Vostra Altezza mi scuserà, ma Sua Maestà richiede la vostra presenza nella
sala del trono.”
Storcendo il naso, Aken borbottò: “Cosa vuole, Sodan?
Non te l’ha detto?”
Scuotendo il capo, il giovane replicò vagamente
imbarazzato: “Non ha ritenuto opportuno dirmi nulla, Vostra Altezza.”
Spostando di lato il piatto di peltro ancora semi
pieno, Aken si adombrò ulteriormente in viso, seguendo poi Sodan fuori dal
refettorio.
Ripresa la via del palazzo, il principe macinò a
grandi passi la distanza che lo separava dalla sala del trono, facendo le scale
a due a due per impiegare meno tempo.
Sapeva di non fare cosa gradita alla sua famiglia, desinando
in refettorio, ma addirittura interromperlo per spregio, gli sembrava troppo!
Preso un gran respiro quando finalmente raggiunse la
porta della sala del trono, Aken lasciò che Sodan lo annunciasse ai genitori.
Con passo deciso, quindi, si avviò verso il palco
ricoperto di velluto rosso, dove il padre e la sua matrigna erano assisi.
Re Arkan di Enerios era un uomo possente e fiero, di
cui Aken aveva preso in pieno l’aspetto.
Una lunga cicatrice ne solcava il viso, scendendo dal
sopracciglio destro fino al mento in una linea frastagliata e sottile, retaggio
di un’antica battaglia contro il regno di Vartas.
I suoi capelli, ormai canuti al pari della barba
folta, rispecchiavano la sua età, così come la gamba sinistra irrigidita
dall’artrite.
Pur non volendolo, questo aveva costretto il re a
utilizzare un bastone per muoversi più speditamente.
Nonostante questo, Arkan avrebbe potuto benissimo
uccidere dieci uomini con la sola forza del suo braccio, tanta era ancora l’energia
vitale insita in lui.
Era un guerriero da cui guardarsi le spalle,
nonostante tutto, e Aken lo sapeva.
Inchinandosi dinanzi al padre pur fremendo di rabbia
dentro di sé, il principe puntò i suoi occhi smeraldini in quelli d’acciaio
dell’uomo che, dopo un momento, esordì dicendo: “Ho notizie preoccupanti da
comunicarti, Aken. Ho preferito non aspettare oltre e mettertene al corrente.”
Aggrottando immediatamente la fronte, Aken raddrizzò
la figura possente, stringendo le mani
dietro la schiena.
In attesa di ragguagli, fissò un attimo la sua
matrigna, sorridendole gentilmente.
Il re sospirò, riprendendo la parola e tornando a
ottenere l’attenzione del figlio.
“Due settimane orsono, ho inviato un falco ad Anok
Fort, ma non mi sono giunte notizie in risposta dalla guarnigione. Ormai, sono
diversi mesi che non riceviamo messaggi da parte loro e comincio a temere che,
a Vartas, stiano combinando qualcosa che non vogliono farci sapere.”
Come per ogni abitante di Enerios, il solo sentir
nominare Vartas – regno a loro
confinante, e nemico giurato da diverse generazioni – fece irrigidire Aken.
Accigliandosi maggiormente, il giovane guerriero fissò
ansioso il padre, presagendo notizie ancora più allarmanti di quelle che già
aveva udito.
Anok Fort era stato costruito sul confine tra i due
regni, nelle vicinanze della Valle del Silenzio, proprio per tenere sotto
stretta sorveglianza i movimenti di Vartas.
Ma se, come il padre sospettava, qualcosa era avvenuto
al forte, qualcuno avrebbe dovuto scoprire cosa stesse succedendo prima della
riapertura dei passi, la primavera successiva.
“Volete che organizzi una spedizione, padre?” chiese
allora Aken.
Annuendo, Arkan disse contrariato: “So che siamo agli
albori dell’inverno e che, al nord, le condizioni non sono ottimali, ma non
possiamo attendere la primavera, con il rischio che loro ci attacchino
trovandoci impreparati. Vorrei inviare qualcuno degno di fiducia, ma conosco
solo te, da poter inviare in mia vece.”
Aken preferì non dire nulla in proposito: non era
insolito che il padre non si fidasse dei suoi stessi uomini e, più di una
volta, lui era dovuto intervenire per sedare eventuali disagi.
Era cosa risaputa, tra le truppe, che i generali erano
fedeli ad Aken, e non al re suo padre, e proprio per questa totale mancanza di
fiducia.
In questo, re Arkan aveva sempre difettato. Non aveva
mai dato lustro a coloro che lo servivano, e questo aveva creato una
spaccatura, tra la Corona e l’Esercito.
Solo Aken era il collante che ancora teneva legati i
due mondi.
“Contattare il borgomastro di Marhna è stato inutile,
perciò procedi con cautela, figlio. Non vorrei trovassi una serpe in seno, al
tuo arrivo tra le montagne” aggiunse Arkan, del tutto ignaro dei pensieri del
figlio.
Annuendo a sua volta, Aken replicò ombroso: “Sarò
cauto nei limiti del possibile, padre. Preparerò i miei uomini, e partirò alla
volta del forte entro il più breve tempo possibile. Dovremmo essere in grado di
prendere la via delle montagne già domani.”
“Molto bene” assentì Arkan.
A quel punto Anladi, la seconda moglie del re, prese
la parola.
Più giovane di Arkan di quindici anni, Anladi era stata
data in sposa al re dopo la morte della madre di Aken, perita a causa di una
brutta febbre polmonare.
Al re, Anladi aveva dato due figli, di cui Arkan
andava particolarmente fiero, e si era presa cura di un bambino di sei anni,
senza più una madre, portandolo alla maturità.
Aken provava affetto profondo per quella donna minuta
dai biondi capelli e gli occhi azzurri come le acque dei ghiacciai, cui il
fratellastro Ruak assomigliava in tutto e per tutto.
Non aveva mai provato risentimento alcuno nei suoi
confronti, anche se lei aveva preso il posto che, un tempo, era stato di sua
madre.
Osservandola curioso, le sentì dire: “Durante il
viaggio di ritorno, vorrei sostassi presso la tribù di Kaihle. E’ molto tempo che
non abbiamo sue notizie, e vorrei sapere come sta. Ovviamente, le porterai i
miei saluti e ringraziamenti, oltre ad alcuni doni che vorrei farle avere.”
Kaihle era, come Aken ben sapeva, la Signora di una
delle tribù di donne-lupo presenti alle pendici della catena montuosa che li
separava da Vartas.
Era stato presente anche lui quando, ormai disperati,
avevano chiamato a palazzo Kaihle per salvare Anladi - e il principe che
portava in grembo - da morte certa.
Nessuno dei loro guaritori era stato in grado di fare
nulla, ma quella donna era riuscita laddove tanti uomini avevano fallito.
Aveva accudito la partoriente fino alla nascita del
bimbo, scongiurando la morte di entrambi dopodiché, senza chiedere nulla in
cambio, se n’era tornata alla sua tribù.
Era l’unica donna-lupo che Aken avesse mai conosciuto
in vita sua.
Se lei in particolare non gli era sembrata una donna
sciatta o volgare, le voci che circolavano sul loro conto non erano certo delle
più lusinghiere.
Di loro, si diceva che fossero più simili a uomini che
a donne, e che la loro proverbiale capacità di parlare con i lupi fosse dovuta
a un patto fatto con i demoni delle nevi.
Secondo il suo modo di vedere, erano solo sciocche
credenze, ma comprendeva senza difficoltà alcuna da dove nascessero quelle
storie colme di timore.
Pur essendo una pratica vecchia di secoli, e accettata
dalla Corona, gli abitanti di Enerios ancora stentavano a comprendere come
interi gruppi di donne vivessero sole nelle foreste del regno.
Figurarsi tra le vette impervie dei Monti Urlanti.
Fra loro non era concessa la presenza di nessun uomo e,
quel che più sconcertava, erano seguite a vista, e venerate, dai lupi che
condividevano la loro esistenza.
Ma Kaihle, quella donna-lupo che aveva visto solo una
volta, aveva salvato la sua matrigna e il fratello, perciò meritava rispetto.
Annuendo, Aken dichiarò: “Le porgerò i vostri saluti,
madre, e le porterò i vostri doni per ringraziarla.”
Sorridendo, Anladi annuì al figliastro, e aggiunse:
“Ricordati di salutare tuo fratello, prima di partire.”
“Non mancherei mai” sorrise un momento Aken, tornando
poi a rivolgersi ad Arkan. “Avete altro da dirmi, padre?”
“Solo avvisarti che lady Tyana è con tua sorella
Melantha, e vorrebbe vederti” asserì il padre, con un accenno di irritazione
nella voce.
Arcuando un sopracciglio con espressione ironica, Aken
celiò: “Ancora, padre? Vi ho già detto che, quando vorrò un cappio dorato al
collo e una catena alla caviglia, ve lo farò sapere.”
“Ti ho solo chiesto di conoscerla, nulla più. E’ così
difficile?” sospirò a quel punto il re, esasperato dalle intemperanze di lunga
data del figlio maggiore.
“Sì, in effetti. E, finché non sarò soddisfatto di ciò
che vedrò, non mi sposerò. Con permesso” ironizzò il principe, uscendo dal
salone dopo un breve quanto frivolo inchino.
Incamminatosi lungo il corridoio con passo rigido e
irritato, Aken raggiunse in breve tempo le scale che conducevano dabbasso,
nell’ampio cortile sul retro del palazzo.
Da lì, per giungere al campo da tiro con l’arco, ove
solitamente si allenava suo fratello Ruak, avrebbe impiegato pochissimo.
Nel contempo, avrebbe evitato a piè pari i luoghi in
cui, solitamente, passeggiavano le dame di corte per mostrarsi ai nobili
imbellettati e pronti a maritarsi.
Lui, di certo, non sarebbe stato tra questi. Che si
dilettassero pure gli altri, nel rincorrere quelle arpie, pronte soltanto a
mettere le mani sugli ori dei poveri malcapitati.
Non voleva neppure sentir parlare di matrimonio, dopo
la scandalosa scenata di lady Eluane.
Vistasi rifiutare durante un balletto di gala, aveva
strepitato come un’aquila, accusandolo di essere un amante di uomini.
Quel suo accenno, non solo l’aveva spinto a sollevare
una mano per schiaffeggiarla – subito calata per rispetto verso entrambe le
loro famiglie – ma gli aveva anche fatto comprendere quanto vuota e vanesia
fosse la ragazza.
Se non era in grado di accettare un rifiuto senza dare
di matto, non poteva certo essere all’altezza della Corona cui tanto ambiva.
Una donna degna di tale nome avrebbe preso il suo
diniego con maggiore classe e, sicuramente, facendo meno baccano.
Inoltre, dargli dell’amante di uomini! Lui!
Quel pensiero lo irritò per l’ennesima volta.
Aveva avuto davvero un bel fegato ad accusarlo di una
cosa simile, visto quanto fosse risaputa la sua nomea di amante.
Non una di loro, aveva preteso qualcosa di più della
sua compagnia e lui, ben volentieri, si era prodigato per ringraziarle per quel
comportamento disinteressato.
Non che sguattere o contadine potessero sperare nella
Corona, ma ad Aken era servito stare con loro, e condividerne l’intimità del loro
letto.
Durante le fredde notti d’inverno, o nei caldi giorni
d’estate che bruciavano Rajana e le sue mura, quelle giovani donne erano state
la sua salvezza.
Quelle ragazze, che di merletti e regole di
comportamento non facevano certo uno stile di vita, gli avevano insegnato a
gustare i veri piaceri della vita.
Una risata, una battuta sussurrata all’orecchio nel
momento dell’amplesso, una carezza sincera, un bacio d’addio dato col cuore.
Ben poche avevano voluto essere pagate per i loro
servigi, limitandosi ad accettare le sue visite come un regalo insperato.
Trattandosi di giovani sole, orfane di genitori o vedove,
lui aveva equamente provveduto ad aiutarle e, da loro, non aveva mai ricevuto
pressioni o critiche.
Forse, comprendevano più di chiunque altro il suo
bisogno di evadere dal palazzo.
Forse, anche loro avevano bisogno di isolarsi dal
mondo, per qualche ora, e godere della compagnia di un uomo che non abusasse di
loro.
Forse, solo loro lo vedevano realmente per quello che
era. Un uomo, e nulla più.
Sbuffando contrariato per la piega melanconica che
avevano preso i suoi pensieri, Aken scalciò un ciottolo con rabbia.
Aguzzando poi lo sguardo, cercò tra i molti giovani,
impegnati in allenamento, la figura del fratello Ruak.
Tendenzialmente, non era difficile trovarlo, vista la
sua passione per l’arco lungo, oltre che per la sua chioma bionda, così rara a corte.
Sorridendo non appena lo scorse, l’alta e longilinea
figura abbracciata da neri abiti di pelle, Aken si avvicinò a Ruak e il suo
istruttore con passo veloce.
“Buongiorno! Già impegnato a maltrattare il tuo arco?”
Fermandosi di colpo, e ritirando il braccio prima di
scoccare la freccia che teneva saldamente tra le dita, Ruak si volse a mezzo
nel sentire la voce del fratello.
Sorridendo di rimando ad Aken, esclamò: “Buongiorno a
te! Dovresti saperlo che io non maltratto le mie armi. Men che meno il mio
fedele arco. Già in fuga da Tyana?”
Ridacchiando insieme all’istruttore di Ruak, che ben
conosceva le sue reticenze a sposarsi e l’assidua caccia che, invece, stava
conducendo Tyana, Aken ammise: “Più o meno. Quella ragazza è davvero testarda
come un mulo. Sembra quasi che, nel raggio di cento miglia, non esista un solo
uomo che le piaccia. Tranne il sottoscritto, ovviamente.”
“C’è in palio la corona, Vostra Altezza. Credo sia
questo, il vero motivo della sua ritrosia a scegliere altri uomini” commentò
l’istruttore, sogghignando suo malgrado.
“Come darti torto! Il punto è che queste nobildonne
sono tutte così maledettamente pedanti che…” brontolò il principe ereditario,
prima di scrollare le spalle e cambiare discorso. “Ti rubo mio fratello per un
po’, Nogarth.”
“Attenderò qui, Altezza” annuì l’uomo, appoggiandosi a
una staccionata di legno.
Allontanatisi di qualche passo, Aken si fermò per
sedersi scompostamente su un muricciolo di sassi e, fissando il fratello con
aria seria, disse a un curioso Ruak: “Devo partire per un viaggio, fratellino,
quindi dovrai badare tu alla famiglia.”
Spalancando gli occhi cerulei, incorniciati da scure
ciglia nere, Ruak lo fissò sorpreso prima di chiedere turbato: “Non siamo un
po’ avanti con la stagione, per un viaggio?”
“La necessità lo impone. Nostro padre prevede guai sul
confine, ed è giusto andare a controllare” gli spiegò Aken, stringendogli le
spalle con un braccio quando il fratello si sedette al suo fianco.
Ruak era quasi alto come lui, ormai, pur se non
altrettanto robusto.
Avevano un’identica carnagione bronzea e volti dai
tratti nobili, ma il fratello minore aveva occhi gentili e caldi come quelli
della madre.
Quelli smeraldini di Aken, invece, avevano visto
troppe morti e troppo sangue, per essere egualmente limpidi, ma non erano meno
belli di quelli di Ruak.
“Capisco” annuì il fratello minore. “E, come al
solito, nostro padre non si fida che di te, per una missione simile, nonostante
tu sia l’erede e quindi, di fatto, assai importante per la Corona.”
Aken sbuffò, sapendo bene cosa volesse dire il
fratello, con quelle parole.
“Lo conosci. Non lascerebbe a nessun comandante, una
missione così importante.”
“Ma mette a rischio te, nell’impuntarsi a questo modo” sottolineò Ruak, sbuffando a sua
volta.
“Da per scontato che io torni, visto che sono suo
figlio. Chi mai potrebbe battermi?” ironizzò a quel punto Aken, dandogli una
pacca sulla gamba.
Ruak lasciò perdere il discorso, limitandosi a dire:
“Starai attento, per lo meno?”
“Quando mai non sono stato attento?” lo irrise
bonariamente Aken, ghignando in risposta.
Storcendo il naso, Ruak gli rammentò per contro: “Ti
ricordo che sei quasi finito in un crepaccio, per rincorrere una lepre.”
“Un caso fortuito” ridacchiò lui, pur tornando serio
subito dopo. “Te lo prometto; starò attento e tornerò a casa tutto intero.”
Ruak lo fissò in cerca di rassicurazioni e, dopo aver
scorto negli occhi del fratello tutta la sua buona volontà, accennò un sorriso
e celiò: “Non è che questa storia te la sei inventata per evitare le brame
della bella Tyana?”
Ridendo fragorosamente, Aken ammise: “Casca a fagiolo,
non posso negarlo, e non mi dispiace allontanarmi da chi vorrebbe mettermi una
corda attorno al collo. Mi piace ancora troppo divertirmi, e senza restrizioni
da seguire.”
“Lo immagino, e non posso darti torto. Finché puoi…”
commentò Ruak, con aria saputa.
Storcendo il naso con espressione torva, Aken replicò:
“Cosa vuoi saperne, tu, sbarbatello?”
Ruak ridacchiò, strizzandogli l’occhio.
“Più di quanto tu non creda, fratello.”
“Oh” esalò il fratello, basito di fronte
all’affermazione di Ruak. “Ah, beh, allora…”
Tornando serio, il giovane principe abbracciò strettamente
il fratello maggiore per un attimo, prima di dire contro la sua spalla: “Fai
buon viaggio, Aken, e torna da me.”
“Spero proprio di sì” sorrise lui, stringendolo a sé e
dandogli sonore pacche sulla schiena.
Amava Ruak come se fosse nato dalla sua stessa madre,
e non avrebbe mai voluto causargli alcun dolore.
Questa volta, però, promettere di essere prudente, gli
parve una concessione davvero dura da fare.
***
Osservando il suo aiutante di campo, che conosceva da
più di nove anni, ormai, Aken sospirò forse per la centesima volta, ed esalò:
“E’ davvero necessario starsene qui seduti a elencare tutti i lavori che non eseguirò in mia assenza, e che tu dovrai sobbarcarti in mia vece?”
Sollevando ironicamente un sopracciglio, la penna
d’oca stretta nell’unica mano rimastagli, Kannor replicò suadente: “Proprio
perché tu non sarai presente, io devo avere ben chiaro cosa fare,
mentre tu corri a menar le mani su al nord.”
“Ah-ah. Davvero spiritoso” sospirò Aken, passandosi
una mano tra i folti capelli rilasciati sulle spalle.
I suoi uomini si erano dichiarati entusiasti di
partire, forse stanchi di crogiolarsi tra le sicure e amene pareti della città.
O, più semplicemente, desiderosi di lucidare col
sangue le loro preziose spade.
A ogni buon conto, nel giro di poche ore, ognuno dei
soldati da lui scelti per partire, aveva preparato armi e bagagli e ora, a lui,
spettava solo il compito di guidarli.
Un’unica lagnanza gli era giunta, e proprio da Kannor.
Non aveva gradito sapere che, anche per un viaggio
all’apparenza semplice come quello, sarebbe rimasto a Rajana.
Era stato un autentico inferno fargli comprendere i
motivi per cui desiderava lasciarlo a Rajana.
Non a causa del suo braccio monco, ma per avere un
amico a gestire i suoi interessi in vece sua.
Ora, a sera tarda e con l’odore pungente della cera di
pino ad ardere nei bracieri di ferro battuto, Kannor si stava sottilmente
vendicando.
Appioppandogli quel noiosissimo lavoro di ‘controllo scartoffie’, come amava
chiamarlo lui, sapeva di fargli un dispetto non da poco.
Non aveva mai dimenticato quando, sul campo di
battaglia, aveva dovuto mozzargli il braccio maciullato per salvargli la vita.
Anche a distanza di anni, Aken si sentiva sempre in
colpa per non aver potuto far altro per lui, oltre che prendergli quella mano
che ora, fantasma, aleggiava vicino alla manica vuota della sua camicia
immacolata.
Kannor non gliene aveva mai fatto una colpa e, anzi,
lo aveva sempre preso in giro per i suoi rimorsi.
Spesso, lo aveva gratificato con pessime battute
sull’essere un uomo con una mano sola, a cui Aken aveva sempre riso a fatica.
Quella sera, quella mano mancante avrebbe voluto
prenderlo a pugni, se avesse potuto, tanto si sentiva a disagio.
Ma forse si meritava il vago sentore di fastidio che
gli rodeva le carni.
Tornando serio, Kannor puntò la penna sul foglio
pergamenato e borbottò: “Non ti servirà a niente ragionare su cose passate, o
sulla mia mano che non c’è più. Ho capito perché non mi vuoi lassù tra i monti,
e lo accetto perché so quanto poco ti piaccia che degli estranei ficchino il
naso nei tuoi affari. Per questo, non per motivi reconditi, stiamo
facendo questo lavoro noiosissimo. Anche se un po’ di soddisfazione la sto
provando, la ammetto, a rovinarti la serata.”
Il sorriso pacioso con cui terminò la frase fece
sorridere Aken che, ghignando, lo indicò divertito, asserendo: “Lo sapevo che
avevi uno spirito sadico, nascosto dietro quella faccia da schiaffi!”
“Parla per te, baffetto!” ghignò Kannor, ricorrendo a
un vecchio nomignolo che la coorte gli aveva affibbiato al tempo in cui,
giovane guerriero in partenza per una battaglia, aveva sfoggiato dei
ridicolissimi baffi per darsi un tono.
Ridendo di quel ricordo – a cui era seguito il brutto
incidente di Kannor – Aken sussurrò: “Avrei voluto restare là con voi per
sempre.”
Sorridendogli comprensivo, l’amico replicò: “E io
vorrei tanto toglierti il peso che grava sulle tue spalle, amico mio, ma non
posso davvero. Di tutte le cose che posso fare per te, questa mi è
impossibile.”
“Lo so” sospirò Aken, prima di aggiungere: “Dai,
continuiamo.”
“Sì, agapry.
Continuiamo” annuì Kannor, tornando a fissare lo scritto dinanzi a lui.
Amico caro.
Ne aveva così pochi, a ben pensarci!
***
Serrati i lacci e controllato che tutto fosse a posto,
Aken sistemò le varie sacche da viaggio, allacciandole agli anelli appositi
della sella.
Sulla schiena del cavallo, legò il telo oleato della
sua tenda e infine, scrutati i suoi uomini con occhi attenti, chiese burbero: “A
che punto siete?”
“Siamo a posto, principe” dissero quasi in coro, senza
neppure sollevare gli occhi da ciò che stavano facendo.
Non c’era bisogno di inchini o sguardi compiacenti,
con Aken.
Annuendo, lui dichiarò: “Ottimo. Partiamo tra dieci
minuti!”
“Sì, Altezza” esclamarono a gran voce i suoi uomini.
Non un cedimento nel tono, non un dubbio. Lo avrebbero
seguito ovunque, e in questo lui contava.
Annuendo nuovamente prima di lanciare uno sguardo
torvo in direzione del cielo plumbeo, Aken si avviò in direzione dei suoi
familiari.
Questi, lo attendevano sotto l’architrave della porta maestra
che dava sul cortile di palazzo.
Lì, diede un’occhiata d’insieme a tutti loro, come a
volerseli imprimere nella memoria, dopodiché percorse gli ultimi passi che li
separavano e abbracciò i genitori e il fratello con calore.
Rivoltosi poi alla sorella, che se ne stava ritta al
fianco della madre e dell’amica Tyana, chiese con voce piana: “Pregherai per
me, sorella?”
“Come ogni volta” replicò laconica lei, allungando una
mano perché il fratello gliela baciasse.
Sogghignando divertito – era risaputa la loro acredine
– Aken le baciò il dorso della mano prima di lanciare uno sguardo a Tyana, al
fianco di Melantha, e aggiungere: “Chiederò anche a voi una preghiera, mia
signora, perché il viaggio sia sicuro e il ritorno vittorioso.”
“Sarò lieta di pregare per voi, Altezza” sorrise
melliflua la fanciulla, forse sperando di essere baciata a sua volta.
Aken si limitò però a inchinarsi dinanzi a lei con
rigore marziale e, con un movimento elegante, tornò sui suoi passi senza più
voltarsi indietro.
Non si sarebbe mai lasciato andare a gesti teneri con Tyana,
poiché sapeva bene di non provare nulla per la procace fanciulla.
Se il padre si fosse risentito del suo modo di agire,
beh, avrebbe avuto tutto il tempo di sbollire la rabbia.
Raggiunto che ebbe il suo destriero, salì in groppa con
un fluido e potente movimento di gambe e, scrutando i suoi con malcelato
orgoglio, gridò: “Possiamo partire, uomini! Ci aspetta un bel po’ di strada da
percorrere!”
Con un corale grido di esultanza, la compagnia si
mosse come un sol uomo verso l’uscita del maniero, Aken in testa al gruppo
mentre gli altri guerrieri lo seguivano a gruppi di due.
Non appena raggiunsero le larghe porte difensive, Aken
le scrutò aprirsi per loro.
Dopo aver lanciato un ultimo sguardo alla sua
famiglia, volse subito gli occhi in direzione della via principale della città,
che lo avrebbe condotto fino alla Carovaniera del Nord.
Da lì, avrebbe volto i loro sguardi verso i Monti
Urlanti, verso i loro profili netti e seghettati, oltre i quali si trovava il
regno di Vartas.
Gli abitanti di Rajana salutarono il loro principe in
partenza, e cori festosi si levarono per augurare a lui e ai suoi uomini una
vittoriosa spedizione.
In cuor suo, però, Aken dubitò fortemente che dei
semplici canti di esultanza potessero bastare; non questa volta.
Questa volta, qualcosa lo turbava, anche se non
riusciva a comprendere da dove gli venisse quella sensazione.
Lui era sempre stato un uomo d’azione, non si era mai
lasciato scoraggiare da mendaci preoccupazioni, spesso ingannevoli e menzognere.
In quell’occasione, però, il disagio iniziò a
insinuarsi in lui fin dal primo passo fuori dalle mura di Rajana, e andò
peggiorando a ogni miglio accumulato alle loro spalle.
Osservando gli alberi ricolmi di foglie ingiallite,
pronte a cadere sull’erba secca dei prati e sul fondale ghiaioso della
Carovaniera, Aken si chiese che genere di tempo avrebbero trovato tra i monti.
Era risaputo che l’inverno, tra le lande del Nord,
giungeva prima, e i Monti Urlanti non erano famosi per i loro benvenuti
calorosi.
Non era il periodo migliore per avventurarsi sulle
alte montagne che li separavano da Vartas, ma la minaccia incombente di un
attacco era motivo più che valido per correre qualche rischio.
Non lo avrebbero certo fermato un po’ di vento freddo
e del nevischio, questo era assodato.
Solo, avrebbe preferito da parte del padre una
maggiore fiducia nei suoi sottoposti.
Denigrare così apertamente l’abilità dei suoi
ufficiali, in favore del figlio maggiore, non era cosa che sarebbe passata
inosservata.
Già da tempo, Arkan aveva allontanato da sé le più
alte sfere del comando militare, preferendo delegare tutto ai figli.
Se questo era stato, di per sé, un segno di fiducia
nei confronti di Aken e Ruak, aveva però segnato una netta spaccatura con i
comandanti della guarnigione.
In gran segreto, sia lui che il fratello avevano
comunque chiesto consiglio agli ufficiali, ma Aken dubitava che la loro mano
tesa sarebbe bastata.
Era il re, a comandare, non i figli.
E tenere a distanza i comandanti militari era un
errore grossolano.
Aken era un guerriero esperto, e aveva passato anni a
combattere come soldato presso il reame amico di Karton, dietro diretto ordine
del padre.
Presto, sarebbe spettato anche a Ruak un simile
compito anche se, personalmente, avrebbe preferito tenere il fratello sotto la
sua ala almeno per qualche anno ancora.
Tutta la sua esperienza, però, gli sarebbe servita ben
poco se, durante una guerra, non avesse potuto contare sul valido aiuto dei
comandanti delle guarnigioni militari.
Era questo, che suo padre non teneva in debito conto.
Sperava soltanto che, se fosse giunto il momento di
utilizzare l’esercito, le alte gerarchie dell’esercito non li avrebbero
abbandonati a loro stessi a causa delle decisioni insensate del re.
Guardando un momento Likas, uno dei suoi amici di
lunga data, sorrise mestamente e chiese: “Hai portato la tua solita fiaschetta?
Credo di aver bisogno di una dose di corroborante liquido.”
“Ma certo, principe” sogghignò lui, mostrandogliela. “Non
manco mai di portare il mio porta fortuna. Ci fermiamo al solito posto,
Altezza?”
“Piantala di adularmi col mio titolo, Likas. Sai come
mi chiamo” rise Aken, afferrando dalla mano dell’amico la vecchia fiaschetta in
metallo, colma di idromele speziato.
La madre di Likas soleva sempre prepararne un po’ al
figlio, in previsione di missioni come quelle.
“Sì, per la tua gioia immensa, ci fermeremo a
Rastanie” aggiunse poi il principe, ghignando all’amico.
“Ottimo! Devo giusto dire due parole a una ragazza che
conosco” sorrise soddisfatto Likas, sfregandosi le mani coperte da guanti di
cuoio grezzo.
Un altro soldato rise e replicò: “Dirle qualcosa? Tu
vuoi farle qualcosa!”
Tutti risero e Likas, sogghignando, ribatté: “Che ci
posso fare se Kanania è così bella!?”
Dandogli una pacca sulla spalla, Aken ammise
divertito: “Ne siamo convinti tutti, Likas, ma vedi di non arrivare stremato, o
potrebbe averne a male.”
“A costo di dormire sulla sella, arriverò fresco come
una rosa” rise lui, guardando bramoso la sagoma scura del paese all’orizzonte,
che avrebbero raggiunto solo in serata.
Scrutandolo a sua volta, Aken si chiese se, per
togliersi dalla mente quelle sgradevoli sensazioni, avrebbe preso a sua volta
una donna con cui scaldarsi il letto.
Quando, però, raggiunsero Rastanie, il suo malumore fu
così palese da scoraggiare tutte.
Neppure la più audace delle ragazze della casa di
piacere - dove fecero tappa dopo cena - si avventurò al suo tavolo, lasciandolo
solo con il suo boccale di birra e le sue riflessioni.
Qualcosa nelle parole del padre lo aveva turbato,
sebbene non avesse detto niente di specifico.
Era più che ovvio, per lui, che il pericolo di
un’invasione fosse più reale di quanto molti dei suoi uomini non credessero.
Per la buona riuscita del viaggio, però, prudenza
voleva che quelle preoccupazioni rimanessero solo sue.
Ai suoi soldati non avrebbe espresso alcun timore; lui
era la loro guida, e doveva essere un punto di riferimento per tutti loro.
No, nessun cedimento.
Finito il boccale di birra, che aveva acquistato più
per abitudine che per reale necessità, Aken si alzò e uscì dalla casa di
piacere per gustarsi il fresco della sera.
L’odore fumoso e stantio di quel luogo non aveva certo
contribuito a sanarne l’umore, come pure le grida eccitate di alcuni uomini
ubriachi.
L’esterno del locale, profumato dei dolci sentori
della notte ormai prossima, era preferibile al caos dell’interno.
Sedutosi su un basso muretto di cinta che delimitava
un campo a maggese, osservò le prime stelle alte in cielo e il piccolo spicchio
di luna apparso all’orizzonte, vicino ai monti ancora lontani.
L’aria era pungente, ma a lui non dispiaceva.
Portava con sé il profumo dei pini e della resina,
l’odore freddo della neve che imbiancava le cime dei Monti Urlanti e il calore
dei camini accesi nelle case.
Tutt’intorno, non v’era nessuno.
Era solo, in quell’angolo di strada, intento a
contemplare il cielo di quella serata di fine autunno, gustandosi aromi e odori
che solo in campagna poteva trovare.
Voltandosi in direzione dei prati quando udì il
richiamo di un cervo in lontananza, Aken si chiese se, da quelle parti, vi
fossero dei lupi.
Come a confermare i suoi sospetti, dalle vicine
colline si levò l’ululato inconfondibile di uno di loro.
“Sono a caccia” commentò in un sussurro, appoggiando
distrattamente un piede sul muricciolo.
Passò almeno mezz’ora prima che, dalle ombrose cime
delle colline, lo stridio di un cervo si levasse improvvisamente nella notte
stellata.
A giudicare dal rantolo sorpreso dell’animale, doveva
essere stato catturato.
Levatosi in piedi prima di spazzolare via dai
pantaloni dei residui di polvere, Aken lanciò un ultimo sguardo al contorno
indistinto del bosco, prima di avviarsi pacificamente verso la locanda.
Sperò, pur
senza sperarci troppo, di poter godere di una buona notte di sonno, in
previsione del viaggio del giorno successivo.
br>