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Autore: pleinelune    30/10/2011    2 recensioni
Un amore finisce, e si ricomincia. Non per Giorgia, che ha viaggiato da un uomo a un altro in cerca dei capelli che lui non aveva, del respiro sul collo che tanto agognava. Cercando sempre, in ogni uomo, lui.
Genere: Drammatico, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Se un giorno mai

“Vi offro di nuovo il mio cuore che è ancor più vostro di quando lo spezzaste quasi otto anni e mezzo or sono. Non abbiate l'ardire di affermare che l'uomo dimentica più in fretta della donna, che il suo amore finisce prima. Non ho amato che voi. Ingiusto posso essere stato, debole e risentito lo sono certamente stato, ma incostante mai. Per voi soltanto sono tornato a Bath e senza di voi non posso immaginare il mio futuro.”
--Persuasion - Jane Austen

 

Mi lasciai sfuggire un sospiro, gli occhi bassi a guardare le mani congiunte sul ventre. Marco se ne accorse e i suoi occhi cominciarono a fissarmi in attesa di incrociare i miei, ma non gli diedi quella soddisfazione, non ora che le carte si stavano scoprendo così velocemente. Sapevo bene che avrebbe saputo leggermi dentro attraverso gli occhi, come se il resto del corpo non bastasse a far capire e ad animare ogni mio più intimo sentimento. Incrociai le dita delle mani tra loro, come a voler creare un legame, lo stesso legame che avevo intenzione di creare quel pomeriggio; poi le divisi, per portarne una a scostare una ciocca di capelli dal viso, arrossato dal caldo prorompete in quella sala, ma soprattutto dall’emozione.
“Fa caldo”, mi guardai attorno, cercando conferma nella gente attorno a me. Scorsi tanti, troppi volti rivolti l’uno verso l’altro, chi parlava della sua giornata con il compagno, chi stava ancora litigando dalla sera prima e chi si confidava con quello che credeva il suo migliore amico. In ogni caso le loro vite scorrevano come se nulla fosse; usufruivano del tempo, di quel tempo che invece, per me e il ragazzo che mi si trovava di fronte, dall’altra parte di un tavolino di un metro quadro, sembrava essersi fermato, troppo occupato per dare retta a noi. Marco si limitò a fare un cenno di assenso, gli occhi ancora in cerca dei miei, impassibili.
Giorgia, sei voluta venir qui, perché?”, le parole uscirono dalla sua bocca lentamente, con precisione. Solo il mio nome lasciò trapelare che in lui non c’era solo calcolo e freddezza. Stava seduto di fronte a me, le mani appoggiate sul tavolo, quasi a volerlo sostenere con la forza, le nocche bianche per lo sforzo. Glielo leggevo in faccia che era stato doloroso aver scelto di venire, e che ancor più doloroso sarebbe stato starmi a sentire. Solo il pronunciare il mio nome metteva in moto un insieme di emozioni in lui, procurandogli una fitta al cuore. Conoscevo il dolore che provava, e non avrei mai desiderato farglielo provare, non a lui.
I suoi occhi non mostravano alcun segno di cedimento, le sue mani diventavano lentamente più bianche, ostinate a stringere quella lastra di ferro.
Un cameriere sulla ventina si avvicinò per chiedere se volessimo ordinare, e per la prima volta da quando ci eravamo salutati guardai Marco veramente negli occhi.
“Tu cosa prendi?”, domandai, con calcolata tranquillità. Ero felice che il cameriere ci avesse interrotto, non volevo arrivare al sodo, non dopo solo mezz’ora di appuntamento. Lo guardai per poi spostare lo sguardo sul cameriere e sorridergli, “io prendo un’ insalata semplice. Da bere, dell’ acqua. Grazie.”, conclusi, e prima che potesse chiedermi altro abbassai lo sguardo sul cellulare.
Sentii la voce di Marco dire che avrebbe mangiato un panino e poi il cameriere congedarsi con un “Prego”, molto teatrale.
Sorrisi, alzai lo sguardo e utilizzai la mia tecnica di assuefazione migliore: “simpatico il cameriere eh?”, abbassai lo sguardo e mi misi a giocherellare col tovagliolo, mentre la luce del sole si affievoliva lentamente fuori del locale.
Marco non rispose, e si limitò ad accennare un sorriso all’angolo delle labbra. Non era in vena di scherzare, non era in vena di star li. Pensai che forse non era stata la mossa giusta, volerlo li, averlo vicino, dovergli parlare faccia a faccia senza la minima possibilità di riuscire a nascondere alcuna emozione.
“Ti ricordi il primo giorno in cui ci siamo parlati?”, gli chiesi d’un tratto, gli occhi nuovamente fissi nei suoi, persi in un ricordo troppo lontano da poter ricordare, eppure così vivido nei pensieri.
“Son passati molti anni” rispose, le sue braccia sempre più attaccate al corpo e al tavolo, ancora saldo tra le sue mani.
“In realtà quel giorno mi parlasti solo tu, io ricordo che mi limitai a sorridere e ad arrossire.”, mi fermai un secondo, i suoi gesti mi fecero capire che voleva che continuassi, le sue braccia ricaddero lungo il corpo, rilassate e libere dalla presa al banco.
“Era un pomeriggio di inizio autunno, stavo insieme a quel tuo amico, quello alto e biondo. Te lo ricordi? Ecco, mi ricordo che come al solito dopo la scuola avevo passato il pomeriggio con lui, ed eravamo poi arrivati alla fermata, dove tu eri, come sempre, con i tuoi amici.” Lo fissai un attimo, non sapendo se continuare oppure no.
“Ricordo che guardavo verso di loro con un po’ di timore, non mi piacevano nemmeno un po’. Era tardi e il pullman era in ritardo. Appena arrivò, il mio ragazzo salì velocemente, dandomi un ultimo bacio, e io feci per salire sulla bici e tornare a casa, ma la tua voce mi fermò. Non ti avevo mai sentito parlare, ma sapevo con precisione che fosse la tua voce, nonostante li ci fossero almeno altri cinque ragazzi. «Ti lascia tornare a casa da sola? Una ragazza non dovrebbe mai tornare a casa da sola», mi dissi, con un sorriso da sbruffone, come per lasciare intendere che tu fossi uno che la sapeva lunga su come trattare una ragazza. Io mi limitai a sorriderti, e alla luce del crepuscolo che si affacciava tra un palazzo e l’altro, l’unica cosa a cui ero in grado di pensare era che avessi dei capelli stupendi.”
Avevo abbassato lo sguardo mentre parlavo, ancora una volta in direzione delle mie mani, e ricordando il ciuffo biondo cenere di quell’incontro di molti anni prima involontariamente alzai lo sguardo a guardare il vuoto che ora occupava la sua testa. La chioma era stata sostituita da una zazzera cortissima di fili biondi, talmente corti da non vedersi.
E io riuscii solo a pensare che avessi uno splendido sorriso”, fu un sussurro, quasi inudibile. Quasi. I suoi occhi erano bassi sul piatto che il cameriere ci aveva portato, una mano che armeggiava con la bottiglia dell’acqua. Non avrebbe voluto dirlo, lo sapevo. Eppure lo aveva fatto, aveva lasciato che le emozioni trapelassero.
Eppure non mi sentivo realizzata, mi sembrava come se non avessi il diritto di conoscere i suoi sentimenti, come se non meritassi di sapere cosa provasse. Mi sentii per un attimo sporca, indegna. Feci per prendere la borsa, poi notai la sua mano destra, attanagliata alla gamba del tavolo, e mi bloccai, feci finta di prendere un fazzoletto e la riappoggiai a terra.
Per lui era doloroso. Esser li, parlare con me, per lui era una sofferenza, e il mio sentirmi inadatta era solo un granello in confronto all’inadeguatezza a cui lo avevo portato io molto tempo prima.
Ero stata la persona sbagliata. Era una pagina della mia vita di cui non andavo fiera. Marco era stato il mio errore più grande, la più grande delusione l’avevo data a lui, ma soprattutto a me stessa.
Tutto era iniziato con un uscita a quattro, allora ero fidanzata con un suo amico, e quando lo vidi entrare dalla porta di quel ristorante insieme a un’altra ragazza, dopo tutto il tempo passato dopo la scuola, mi meravigliai del destino, di come avesse giocato bene, o male, le sue carte.
Era un periodo difficile per entrambi, avevamo accettato quell’uscita iniziale per trovare un punto di appoggio nella coppia di fronte a noi, per non doverci sempre appoggiare a noi stessi. Nel giro di poche settimane ci trovammo davanti a un bar, single e felici.
Avevamo mantenuto i contatti, ma non ci sentivamo tanto spesso da sapere che fossimo entrambi ufficialmente liberi. Quella mattina, in quel bar in centro, parlammo molto, di tutto, mi sembrò quasi di averlo sempre conosciuto. Non provavo remore o imbarazzo a parlare di nulla con lui, e decidemmo di rivederci, allo stesso bar, alla stessa ora, la settimana dopo.
Quello che ci aveva unito così velocemente finì per separarci.
Presto ci rendemmo conto che gli incontri al bar non bastavano più, che avevamo un bisogno fisico e mentale l’uno dell’altra, così iniziammo a uscire, da soli o in compagnia. Poco importava, quello che volevamo era stare insieme, condividere cose, e parlare.
La prima volta che facemmo l’amore capii che era quello giusto, avevo aspettato del tempo, e pensai che ne fosse valsa la pena, tutto era come doveva essere, e io ero realmente innamorata.
Vivevamo in simbiosi, l’uno era il bisogno principale dell’altro, nessuno poteva colmare il vuoto dell’altro quando uno dei due mancava.
Poi lui mi chiese di andare a vivere insieme, e finì.
Passai mesi saltando da una storia all’altra, e ogni sera, tornando a casa, l’unica cosa a cui pensavo era a lui, alla sua pelle, ai suoi occhi.
A distanza di quattro anni da quella storia, la storia, capivo dove avevo sbagliato. Perché era ovvio che ero stata io a sbagliare, scappando, lasciandolo senza un motivo vero. Ero entrata nel panico, avevo visto la mia vita già pianificata, già scritta in ogni singolo dettaglio, e avevo deciso che non sarebbe dovuta andare così.
Ora mi ritrovavo in quello stesso bar di molti anni prima, con la speranza che la magia che ci aveva unito una volta lo rifacesse ancora.
 
Mangiai la mia insalata in silenzio, non avevo commentato la sua frase, e lui non aveva detto più nulla.
Probabilmente avrei dovuto dire qualcosa, ma la mia mente aveva smesso di concepire alcun pensiero, se non il ricordo del periodo insieme a lui, istantanee che svanivano nella mia mente arse da un fuoco invisibile. Sparivano, e io non potevo farci niente, lo guardai con gli occhi quasi gonfi di lacrime: “Usciamo!”.
Tutto ciò che fece dopo mi lasciò intendere che anche lui desiderava lo stesso e nel giro di pochi minuti ci ritrovammo a camminare lungo la riva del mare, i piedi nudi contro la sabbia tiepida, lasciata sola dal caldo del sole.
“Tu non sei venuto qui per parlarmi.”, spezzai il silenzio ancora una volta. Sapevo cosa dire ora, lo avrei lasciato andare, gli avrei detto ogni cosa per poterlo dimenticare.
“Tu sei venuto qui per potermi guardare in faccia dopo tanto tempo e capire che non ero più niente per te. E forse l’ho fatto anche io. Ti ho chiesto di venire qui perché desideravo vederti, perché negli ultimi anni non ho fatto altro che cercare in altri uomini quello che sapevo benissimo di poter trovare solo in te. Forse ti ho chiamato di nuovo per convincermi che la tua voce non fosse poi così bella, per capire che alla fin fine non mi piacevi più da quando ti eri tagliato i capelli. Sapevi quanto li amassi!”. Cominciai a piangere, ormai incapace di trattenere le lacrime. Non era il discorso che avevo immaginato di fare, lo stavo colpevolizzando, stavo cercando in lui una giustificazione al mio errore.
Ma lui capì. Mi prese una mano e me la racchiuse nella sua, poi continuò a camminare, in silenzio.
Mi ero sfogata, e sapeva benissimo che non sarei rimasta li un altro secondo a vedere il mio orgoglio andare in frantumi, ma nonostante questo tenne la mia mano salda nella sua. Ed io non cercai di divincolarmi.
Era la prima volta nella mia vita in cui non sentivo il bisogno di proteggermi da qualcuno, essere indifesa, nuda di fronte a lui non significava essere esposta e fragile per me oramai, significava aver perso ogni possibilità di non amarlo più. Perché di fronte a lui ero niente, ero in lui. E lo amavo.
 
Improvvisamente mossi la mano rinchiusa e mi voltai, in cerca delle scalette per tornare alla strada, volevo scappare da quella situazione. Ancora una volta.
Lui con l’altra mano mi afferrò il mento e lo fece girare verso di lui, finché non mi decisi a guardarlo negli occhi. Poi bastarono quelle poche parole per smontare di nuovo tutto, quei lunghi anni svanirono come sabbia che scivola dalle mani.
Stavolta non ti lascio andare”.




--Spazio Autore--

Buonasera, riemergo dalle ceneri come la fenice di albus silente per publicare sta bella cagata. u.u Naturally i'm jokin'. Spero vi sia piaciuta, però ho comunque un paio di cosette da spiegare.
Intanto vi informo che è stata scritta per QUESTO magnifico contest di quel magnifico forum creato da ragazze magnifiche che è il FAN FICTION ITALIA *spamma a più non posso*.
Mi sono assentata per decenni perchè avevo perso il gatto l'ispirazione. Ma ora spero di essere tornata u.u
Allora, passiamo alla spiegazione di questa OS, perchè ce n'è da spiegare, partendo dal titolo: sono stata tipo cinque giorni a pensare e a costruire una specie di trama per questa os, cosa resa piuttosto difficile dal fatto che dovessi risicarla in 4 pagine, mentre la mia mente viaggiava fino al matrimonio, perciò credo che la mia recente ossessione per i negramaro sia servita. Mi hanno fatto il lavaggio del cervello, perchè io ho scritto la storia e un pomeriggio, mentre stiravo, ascoltavo i negramaro e ho sentito questa canzone dei negramaro - SE UN GIORNO MAI - (ascoltatela u.u è un ordine é_é - link nel titolo), e ho notato che calzava con ciò che volevo intendere io nella os, in alcune specifiche parti, tralasciando l'abbandono bla bla bla. Quindi ecco la spiegazione al titolo, il mio tallone d'Achille u.u (fosse solo quello u.u)
Ora passiamo alla spiegazione della quotes a inizio OS, non notate che sia perfetta? Jane Austen è pur sempre Jane Austen, e io credo che Parsuasione sia uno dei suoi libri più belli, nonostante sia molto sottovalutato. Se non l'avete ancora fatto, andate a comprare tutti i libri di Jane Austen, brutti bacarospi che non siete altro. Coomunque, tornando al discorso della quotes, ho finito di leggere da poco proprio persuasione, e prima di leggere questa frase per caso su internet non mi ero accorta di quanto fosse calzante. Non intendo ne emulare ne mettermi a confronto con Jane Austen, per carità, lei è.. WOW! Però la guerra interiore che c'è tra Anne Elliot e Frederick Wentworth è un po' un parallelo tra Marco e Giorgia, nomi che vengono pronunciati poche volte ma che è cosa buona e giusta, perchè è bene che rimangano così, aleggianti nell'aria.
Quindi la tensione e il conflitto interiore lo trovo come un parallelismo, e mi piace pensare che questi due siano uguali a quei due, perchè nonostante il tempo si amano, e non smetteranno mai di farlo. YEAH!
Bene, ho finito di scassarvi le banane, siete liberi di tornare alle vostre misere vite, solo dopo aver recensito e amato questa OS u.u ARI-YEAH!
un beso. pleinelune ♥

*voce fuori campo* (sbaglio o le note sono più lunghe della shot?)
ZIIIIITTTOOO! u.u

 
 
 

 

   
 
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