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Autore: Arabelle Lee    31/10/2011    7 recensioni
Una storia di fantasmi. Una casa stregata. Una creatura intrappolata nel tempo che vuole essere liberata.
Genere: Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Sesshoumaru
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quando si sdraia sul letto, il libro fra le mani, i capelli ancora impregnati di fumo (troppe sigarette, davvero troppe), i piedi gonfi e la schiena dolorante dopo aver vuotato tutti gli scatoloni, Adriana capisce che l’ha trovata davvero

Quando si sdraia sul letto, il libro fra le mani, i capelli ancora impregnati di fumo (troppe sigarette, davvero troppe), i piedi gonfi e la schiena dolorante dopo aver vuotato tutti gli scatoloni, Adriana  capisce che l’ha trovata davvero. Accade quando fissa il lampadario con le gocce di cristallo, e cento gemme d’arcobaleno ammiccano verso la sfera centrale. Guardando meglio, nota le due ombre più scure nella metà superiore della sfera, e annuisce.

Come le orbite di un teschio, pensa, e sente il peso familiare della stanchezza scivolare via dalle palpebre. Anni di stanchezza. Le sue ginocchia dolgono come quelle di una vecchia, quando scende le scale. Come se avesse sessant’anni e non trentadue. Ma questa notte, pensa ancora, finirà. Questa notte dormirà, quando avrà eseguito il suo compito. E’ già a buon punto. Ha trovato la casa, alla fine.

 

Adriana ha cercato la casa da quando può ricordare. L’ha sognata a ogni sonno e l’ha riprodotta, sempre identica, in tutti i suoi disegni di bambina: un corridoio centrale con quattro porte, due a destra e due di fronte, un armadio a muro in fondo e dirimpetto, subito a sinistra dell’ingresso, una nicchia con una tenda di velluto color vino, come usava nelle famiglie borghesi del dopoguerra. Doveva esserci della carta-stoffa crema a piccole righe marroni nel corridoio, e di un verde tenue nelle due camere da letto. Cucina e salone dovevano essere tinteggiati di bianco, e dovevano esserci tende ricamate che si gonfiavano col vento nel secondo e un tavolo di formica azzurra nella prima.

La casa l’ha accompagnata nei disegni – a matita e poi a cera e poi ancora ad acquarello - finché sua madre non l’ha accompagnata dalla psicologa, preoccupata per quella che le sembrava l’inizio di un’ossessione. Adriana aveva capito che doveva proteggere la casa, aveva sorriso quando la psicologa le sorrideva, aveva bevuto camomille, inghiottito capsule di vitamina e non l’aveva disegnata mai più.

Però continuava a essere presente nella sua testa: e il lampadario della camera da letto faceva tintinnare le gocce di cristallo mentre Adriana aveva le prime mestruazioni, traduceva Cicerone, imparava a fumare e a farsi la tinta, e le tende frusciavano mentre indossava il tailleur per la festa di laurea, firmava il contratto per la prima supplenza e accompagnava i genitori (prima il padre, due anni dopo la madre) al cimitero.

Aveva cominciato a cercare la casa il giorno dopo l’ultimo funerale. “Che tipo di appartamento le interessa?”, aveva chiesto l’impiegato dell’agenzia senza guardarla, le mani già sulla tastiera del computer. Adriana aveva aperto la cartellina con i vecchi disegni e glieli aveva mostrati. “Arredato”, aveva detto. “Così”.

Non era stato facile. Adriana aveva cambiato molte agenzie, e nei tre anni seguiti alla morte di sua madre era entrata in decine di palazzi di periferia, dove era più facile trovare un appartamento con mobili così vecchi. Aveva salito scale che odoravano di fritto o di deodorante da pochi centesimi. Aveva visitato stanze dove ombre più chiare ricordavano l’esistenza di quadri ora appesi in altre case, o perduti per sempre. Aveva camminato per lunghi corridoi, con gli occhi semichiusi, quasi annusando l’aria, sperando che alla sua sinistra si sarebbe aperto un salone con le tende bianche. Aveva scansato mucchi di calcinacci e preso fra le dita frammenti di carta-stoffa ingrigita, e aveva sollevato velluti polverosi del colore giusto, ma senza trovare la cosa più importante che avrebbe reso altrettanto giusta la casa, e che ai tanti impiegati immobiliari non aveva neanche menzionato. Perché non li riguardava. Quella era una faccenda solo sua.

Sua, e della creatura.
A maggio, infine,  la casa le venne incontro come un letto nuziale: quando uscì dall’ascensore, Adriana si sentì davvero una giovane sposa calda di eccitazione e allegria, pronta a essere sollevata fra le braccia e portata attraverso la soglia, i piedi dondolanti in aria, le labbra asciutte per l’aspettativa. Sapeva che dietro la vecchia porta di rovere, appena ondulata dall’umidità dove toccava terra, avrebbe trovato quel che cercava. Così, con le ginocchia che dolevano e tremavano, superò in fretta l’impiegato, abbracciò con lo sguardo le quattro porte che si affacciavano sul corridoio, sollevò, alla sua sinistra, la tenda di velluto e si vide riflessa nello specchio. Perché era lo specchio che cercava, e doveva essere come questo, alto e stretto e antico. Il viso di Adriana  scintillò nel riflesso come in un raggio di luna, fra le macchie scure del tempo. “E’ compreso nel prezzo”, balbettò l’impiegato. “Lo so”, gli rispose.

 

Ora, mentre fuma l’ennesima sigaretta guardando il soffitto, si chiede cosa sarà di lei dopo che avrà fatto quel che deve fare e che farà tra poco, quando la luna sarà alta nel cielo, e sarà piena e bianca come latte. Si taglierà i capelli, per cominciare. Li ha lunghissimi, li porta sempre annodati sulla nuca, e pesano anche così. “Un voto”, aveva detto una volta a un corteggiatore curioso, sapendo che da quel momento l’avrebbe considerata una bigotta e che non l’avrebbe più cercata. Non aveva importanza. Non ha avuto uomini, anche se ha passato i trent’anni. Un voto anche questo, in un certo senso. O, per meglio dire, una forma di rispetto per il suo compito. Nessuna distrazione. Nessun altro scopo.

Il fumo della sigaretta vacilla e si dissolve come se un soffio di vento l’avesse spazzato via. Le finestre sono chiuse, anche se è giugno e comincia a fare caldo. Adriana si siede sul letto e spegne la luce. Quella della luna (ancora troppo bassa) è sufficiente.  Chi sarà la prima?, si chiede, guardando verso la porta della camera da letto. Il tempo di formulare il pensiero, e la maniglia si muove, prima piano, poi affondando di colpo verso il basso. L’ombra sulla soglia è una macchia più chiara nel buio della stanza. Dalla testa parte un velo che immagina bianco, o che doveva esserlo, all’inizio. La luce che filtra in modo diseguale le indica che è strappato in più punti:  un tempo doveva essere leggero come una ragnatela d’argento. E’ la sposa, come immaginava.

 

Era stata la sposa, del resto, a guardare per prima nello specchio, nella casa dove avrebbe abitato con quello che sarebbe divenuto, fra non molto, suo marito, e solo alla parola marito le guance le diventavano rosse e il corsetto sembrava improvvisamente soffocarla. Era andata a visitare la casa nuova con le amiche e le sorelle minori, sfuggendo al controllo della zia: avevano salito le scale in un turbine di taffetà e di organza, soffocando le risate per non farsi scoprire. La sposa era entrata correndo in ogni stanza, seguita da gridolini di ammirazione  e di invidia, aveva indicato la sfumatura crema della carta da parati e tastato la morbidezza delle tende. Infine, aveva visto lo specchio. Era alto e stretto in una cornice d’oro, proprio al centro della nicchia accanto all’ingresso. Aveva corrugato la fronte: non ricordava di averne desiderato uno, e di certo aveva pensato di utilizzare la nicchia in un altro modo. Un piccolo busto in marmo, per esempio. Così, mentre le amiche si estasiavano su ricami della tovaglia e la morbidezza delle sedie imbottite del salone, si era avvicinata, e  aveva guardato. E dallo specchio era arrivato, direttamente alle sue orecchie, anzi no, direttamente nella testa, il sussurro. Non aveva capito, non subito. Le parole sembravano acqua che scorre, vento tra foglie secche.

Foglie di gingko. Acqua gelata di torrenti. Una foresta dove la luce filtra a macchie irregolari. Una delle macchie è bianca. La luce è bianca. La luce è una creatura. E’ quella creatura a parlare.

La creatura nello specchio.

La sposa aveva portato le mani alle orecchie. Il sussurro si era fatto intollerabile, più veloce, più imperioso, più potente. Infine, si era fuso in tre parole.

Rompi lo specchio.

E davanti ai suoi occhi sbarrati un’immagine si era formata. Un’immagine bianca e luminosa, con due soli gialli dove avrebbero dovuto essere gli occhi. La sposa aveva scosso la testa ed era fuggita, irrompendo nella camera da letto dove le sorelle stavano ammirando, turbate e ridenti, il comò e le lenzuola ricamate, e si era gettata sul letto e loro avevano lanciato uno strillo di disapprovazione e…

 

La voce di Adriana è ferma e gentile. “Non l’hai fatto, è vero? Non hai rotto lo specchio. Eri troppo spaventata per eseguire l’ordine”. La forma velata sospira e trema sulla soglia. “Cos’hai fatto allora?”. La forma tace. Ma nella mente di Adriana appare con chiarezza l’immagine di una ragazza piccola e sottile, capelli biondi raccolti sotto il velo, spalle curve sotto l’abito nuziale. Nota il pallore del viso, le ombre livide sotto gli occhi che gli altri scambiano per emozione. Nessuno si stupisce quando la fanciulla chiede, con voce rotta, di essere lasciata sola prima di uscire verso la chiesa. Pochi minuti, davvero. E quando i genitori e le sorelle sono usciti, trema più forte, e vacillando si avvia alla finestra, guarda il selciato sotto di lei. Gli invitati fanno corona attorno alla carrozza. Li raggiungerà. Ora. Chiude gli occhi. Salta.

“Mi dispiace”, mormora Adriana. “Davvero”. La figura oscilla ancora e svanisce, come se le sue parole, parole di comprensione e non di condanna, l’avessero assolta dal rimorso di non aver spezzato lo specchio. Era così giovane, pensa. Così impreparata.

La luna non è ancora al posto giusto. Adriana si alza, passa le dita fra i capelli, le passa ancora sulla camicia da notte, che è bianca come quella di una sposa. Sa che doveva indossare qualcosa di simile. Come fa a saperlo? Questo è impossibile da capire, come il fatto che conoscesse quella povera ombra infelice che si è affacciata alla sua camera da letto. Sa soltanto che in tutti i sogni della sua vita, oltre alla casa e allo specchio, ci sono state le altre.

La sposa,  la bambina, la vecchia.

Sente un colpo, non troppo forte a dire il vero, in mezzo alla schiena. Si gira di scatto. La bambina è là, come se fosse stata chiamata dal suo pensiero. E’ vestita, anche lei, di bianco:  in origine doveva essere un vestitino della festa, tagliato in un piquet dai piccoli rombi in rilievo. Ora è strappato all’orlo e sulle spalle e sgocciola acqua sul pavimento. Anche i capelli della bambina sono fradici, il viso è cereo, le piccole labbra livide sono serrate. Adriana allunga la mano, le accarezza la testa, prende fra le dita una ciocca nera molle come un’alga. La bambina guarda in alto, verso il lampadario a gocce.

“Eri tu che vedevi il teschio nella sfera, è vero?”, chiede. E prima che la bambina annuisca sa che è così, che aveva sette anni quando agonizzava sdraiata sotto il lampadario, mentre la febbre le bruciava la carne. Una polmonite, pensa Adriana. Era caduta nel fiume mentre scappava dalla figura nello specchio. Dalla voce della figura nello specchio. E’ crudele, pensa ancora. Era troppo piccola per capire. Si china a sfiorare con le labbra la fronte della bambina. Anche la pelle è fredda e molle, e svanisce al tocco.

Ora, ne manca una soltanto. E poi, la luna.

Adriana infila le pantofole, si incammina lungo il corridoio. Il velluto color vino è ancora immobile a coprire lo specchio, ma la finestra del salone è spalancata (l’aveva chiusa, questo lo ricorda bene) e le tende bianche si agitano al vento come veli. La vecchia è seduta davanti alla finestra, avvolta in una vestaglia candida, una tazza fra le mani. Profumo di tè. Tè all’arancia, pensa Adriana. Sa che insieme allo zucchero e al limone la vecchia ha sciolto una manciata di veleno per topi. Si vendeva ancora in certe botteghe. L’hanno trovata così, la mattina dopo, la tazza in terra. Anche in questo caso, non è stato giusto. Era troppo anziana e spaventata, e quei sussurri hanno finito per annientarla. Aveva così poco da perdere, se solo…se solo avesse obbedito.

Adriana si avvicina alla vecchia, che si rattrappisce nel vederla. Le sfila la tazza dalle mani, fa una breve carezza sulle vene rigonfie del polso. Un istante, e le sue dita si chiudono sul vuoto. E’ andata, finalmente: e ora, davvero, tocca a lei. Perché la luna, bianca e sfolgorante e immensa, è al posto giusto, al centro esatto di un cielo scuro come il fondo dell’oceano.

Tempo di andare.

Pochi passi, ed è davanti alla tenda rossa. Può sentirlo prima ancora di sollevarla. E’ come immaginava, ma più forte. I sussurri che premono contro le orecchie sono molto più violenti di un torrente, sono un’onda immensa che sembra schiacciarla, sono artigli che si conficcano nella carne.

Artigli che sono scattati invano, mentre la magia, più potente di qualunque altra avesse mai conosciuto, più potente di Lui, infine, lo immobilizzava e lo imprigionava qui.

Qui nello specchio.

La tenda si stacca dagli anelli, cade al suolo, si sfarina in una nube di polvere e tarme. Lo specchio risplende di luce candida, è esso stesso un gorgo di luce, anzi, e nella luce ci sono due bagliori dorati. C’è rabbia repressa, in quelli che sono occhi, e che non sono umani. C’è la frustrazione di secoli di prigionia. Quando è stato chiuso nello specchio? E perché solo una donna mortale avrebbe potuto liberarlo? Chi ha voluto imporgli questa ulteriore pena? E per quale motivo?

Adriana non lo sa. Ma i sogni le hanno mostrato cosa doveva fare, e lei, a differenza delle altre che l’hanno preceduta, ha osservato e ascoltato, e si è preparata al punto di espellere ogni altra possibilità dalla propria vita. La creatura doveva essere liberata, questo sapeva, questo voleva. Questo farà.

Così, non aspetta che i sussurri formino le parole che sa, “Rompi lo specchio”, ma strappa un lembo della camicia da notte e lo arrotola attorno alla mano destra. Si ferirà comunque, ma è così che va fatto.

Colpisce nel centro esatto dello specchio, mentre la luce diventa più forte e la avvolge e la spinge a terra, e l’onda diventa il mare intero e la travolge mozzandole il fiato e incendiandole la testa in una fitta bruciante, mentre i frammenti dello specchio tagliano la pelle della mano e il braccio fino al gomito. E’ tutto così forte e doloroso e…troppo, infine, per una donna.

Non sa quanto resta svenuta. O forse non è uno svenimento, perché in parte può vedere e sentire. Le sembra che ci sia qualcuno accanto a lei, e che questo qualcuno sia il cuore stesso della luce che era nello specchio, e che si sia chinato sul suo corpo sanguinante e abbia sussurrato ancora. Non sa dire cosa. Sa che al suo risveglio la mano e il braccio erano lisci e senza tagli, ma lievemente umidi, come se una saliva argentea li avesse sfiorati.  

Si sveglia, a proposito, con il sole che entra dalle finestre del salone. Tirandosi a sedere, lo vede riflesso nei frammenti dello specchio e si sente leggera come non è mai stata. La giornata è bellissima. Pensa che anche il resto della sua vita  potrebbe esserlo, ora che la creatura è libera.

Nella foresta che lo attende e che lo accoglierà con un fruscio di benvenuto, e l’acqua del torrente sarà come musica. Dopo secoli.

Adriana passa la lingua sulla pelle della mano.

Buon viaggio, pensa ancora.

Non si stupisce delle lacrime che scendono sulle guance. Per lungo tempo la creatura aveva abitato nei suoi sogni, prima che il tempo li divorasse e li dissolvesse nel breve arco compiuto dal suo pugno verso lo specchio.

Devo trovare un’altra casa, si dice Adriana, entrando in cucina. E mentre versa la polvere di caffè nel filtro, pensa, con una stretta al cuore, a quali sogni nuovi potrà mai trovare, e se potranno mai essere all’altezza di quelli che ha perduto. Le tende del salone si sollevano ancora, salutando.

 

 

 

 

   
 
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