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Autore: Me91    01/11/2011    0 recensioni
Questa è la storia di un cane. Un cane come tanti altri, un Pointer, che racconta la sua vita fatta di ricordi dolci e amari: dall’infanzia alla vecchiaia.
Storia partecipante al contest "Animal Stories" indetto da Gabby_8827
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Storia di un cane

Prologo

Il mio respiro è affannoso, la lingua pende fuori dalla bocca facendo cadere calde gocce di saliva a terra e gli occhi sono spalancati, impauriti.
Sono nervoso.
Intorno a me luci, strani suoni, voci attenuate, forse vengono da un’altra stanza. Nella mia visuale, fatta di pochi colori, le forme degli oggetti sono sbiadite più del solito; il fatto di non riuscire a vedere bene mi agita ancor di più.
Tento invano di alzarmi, ma questo mi provoca un sussulto doloroso al cuore che mi leva il respiro. Ansimo ancora più forte, costretto a posare di colpo la testa sulle zampe che mi sento pesanti, intorpidite.
Sono così debole...
Mi sfugge un gemito, e poi un altro, a due respiri più profondi; inspirare l’aria non è mai stato così doloroso. Sono costretto a chiudere gli occhi, gemendo ancora, mentre il cuore mi pare stia per scoppiare, da quanto batte forte.
Ancora qualcuno che parla; non riesco a capire, mi fischiano le orecchie.
Un guaito spontaneo quando qualcosa punge la mia zampa anteriore, già tesa e dolorante di suo; provo istintivamente ad alzarmi per scappare, ma noto con orrore di non riuscirci. Le zampe posteriori non le sento più da diverso tempo, ormai, ma adesso anche il resto del corpo sembra davvero pesante, addormentato.
Sono spaventato, mi rendo conto di essere immobile e di non percepire quasi nessuno stimolo esterno.
Continuo a guaire dalla disperazione, dal dolore; i miei lamenti devono essere davvero acuti, sento infatti qualcun altro della mia specie rispondere addolorato al mio pianto.
Improvvisamente il suo odore mi investe e la sua mano calda si posa dolcemente sul mio capo, mentre l’altra mano va a solleticarmi sotto il muso, proprio come adoro.
E infine la sua voce ferma, così rassicurante alle mie orecchie, che si rivolge proprio a me.
Apro stancamente gli occhi, smettendo di piangere, giusto per osservare il suo viso e il suo sguardo a pochi centimetri dal mio.
«Ehi, amico... va tutto bene» mi sussurra, con il suo piccolo sorriso appena accennato su quel volto così calmo.
Calmo: così mi appare Earl; così mi appare sempre. Questo mi tranquillizza.
Poi vedo i suoi occhi; i suoi occhi neri, profondi, tristi.
Earl è triste. Mi dispiace.
Mi dispiace perché avevo promesso a me stesso che lo avrei reso felice.
Socchiudendo gli occhi, torno allora indietro nel tempo, nei miei ricordi, dolci e amari allo stesso tempo.

*

Tradito

Non ricordo molto della mia infanzia, di mia madre e dei miei fratelli.
Sono nato in uno di quei posti definiti “allevamenti”, figlio di“campioni”, come si dice. Mio padre, che non ho mai conosciuto, e mia madre erano ottimi cani da caccia: dei Pointer inglesi. Io sono un Pointer, un “magnifico esemplare di Pointer”, così mi avevano definito.
Maschio, pezzato bianco e nero, dagli occhi color ebano, con un fiuto eccezionale, garantito dai miei genitori.
Io e i miei fratelli fummo venduti presto e a caro prezzo.
Il mio primo padrone era un cacciatore, ovviamente. Era severo e rigido, ricordo mi picchiava forte quando non facevo bene qualcosa, ma io ho un carattere posato, non mi sono mai ribellato.
Vivevo in un capanno tra topi e fieno; vissi lì il mio primo anno di vita.
Non ero bravo a cacciare. Proprio così: nonostante discendessi da ottimi cacciatori, io ero una frana. Il mio padrone non capiva il perché: rispondevo sempre ai richiami, apprendevo in fretta ciò che mi insegnava, ero attento e disciplinato, eppure non riuscivo a stanare nemmeno una preda, oppure ritrovare nel bosco il punto in cui era caduto l’uccello colpito dal mio padrone.
Mi portò dal veterinario e, dopo un’accurata visita, risultò che, per un problema genetico, il mio olfatto faceva cilecca: era poco sviluppato, insomma, per questo non riuscivo a fiutare le prede.
In giro di pochi giorni mi ritrovai da solo in mezzo ad un campo.
Quella mattina presto, infatti, il mio padrone - di cui non ricordo nemmeno il nome - mi fece salire sulla sua 4x4, si avviò per le campagne, in zone che non avevo mai visitato, si fermò in mezzo alla strada di terra, al bordo di un campo di grano, aprì la portiera ed esclamò:
«Forza, vai!»
E io, riconoscendo il comando, partii immediatamente, spedito, nella direzione indicata dal suo dito indice, pronto a cercare la selvaggina che probabilmente il mio padrone aveva individuato tra il grano. Solo dopo un centinaio di metri percorsi di corsa sfrenata mi resi conto di essere rimasto solo.
Mi fermai ansimando un po’ e mi voltai indietro, verso la strada: una nuvola di polvere doveva ancora posarsi a terra, segno che la macchina era ripartita velocemente giusto qualche istante prima. Girai la testa in varie direzioni, ma non scorsi l’auto da nessuna parte, già scomparsa dietro gli alberi che costeggiavano la strada.
Allora tornai a guardare nella direzione che mi aveva indicato il padrone e puntai il naso a terra, avanzando in cerca della bestia che dovevo portargli: nonostante l’olfatto poco sviluppato potevo percepire chiaramente che nelle vicinanze non c’era nessuna bestia, né viva né morta.
Mi fermai di nuovo e tornai ancora a guardare la strada.
Mi sembrava assurdo che il mio padrone mi avesse indicato una direzione sbagliata e poi se ne era andato. Sì, assurdo. Mi fidavo di lui; credetti ci fosse stato un errore. Pensai che si era semplicemente spostato più avanti con la macchina, inseguendo con lo sguardo il coniglio o il fagiano o la lepre che era scappata in un’altra direzione; magari mi aveva anche chiamato, dicendo di inseguirla, ma io, troppo preso dalla punta, non l’avevo sentito.
Certo di queste considerazioni, ricordo di aver continuato a cercare in quel campo e nel boschetto limitrofo per tutta la mattina, e poi il pomeriggio, finché non era calata la sera. E ricordo anche che, a parte qualche topo o riccio o passero, non avevo fiutato niente.
Non c’era cacciagione lì; non c’era niente che io dovessi trovare.
Solo a notte fonda, sdraiato accanto il bordo della strada proprio nel punto in cui aveva fermato la macchina e mi aveva fatto scendere, riuscii a realizzare che il mio padrone mi aveva tradito.
Fu una considerazione terribile. Terribile. Non riesco a trovare nessun altra parola. Mi fidavo di lui e lui mi aveva tradito.
Nonostante stessi malissimo, decisi di non arrendermi. Attesi seduto lì tutto il resto del giorno dopo e la notte successiva; ogni volta che passava una macchina - molto di rado mi ricordo - mi alzavo in piedi e iniziavo a scodinzolare, ma non era mai lui. Non si fermava nessuno e, all’alba del terzo giorno, mi ritrovai ad avere molta fame e sete.
Pieno di un vuoto interiore, mi allontanai lentamente da lì, conscio che il mio padrone non sarebbe più tornato a prendermi.
Girovagai altri due giorni, riuscendo a dissertarmi in un paio di ruscelli, ma senza mangiare nulla. Nemmeno un topo o una piccola lepre: iniziavo ad inseguirli, ma loro, rapidi, fuggivano presto tra i cespugli e il sottobosco, così che, con il mio debole olfatto, non riuscivo più a rintracciarli.
Ero dimagrito e stanco quel sesto giorno della mia solitudine, quindi per questo quell’uomo riuscii a catturarmi facilmente. Usò un lungo bastone d’acciaio con in cima un collare rigido, che strinse appena me lo passò sul collo. Mi fece salire su un furgoncino con all’interno una gabbia: non opposi alcuna resistenza, ero troppo debole.
E così finii in canile.
La prima cosa che mi colpì fu il rumore. Un chiasso assordante tra abbai, gemiti, il tintinnare di ciotole di ferro che cadevano a terra, ringhi e il chiaro suono di una lotta tra due cani parecchio nervosi, il ticchettare delle unghie sul pavimento di cemento, le gabbie scosse violentemente dai cani che si affollavano per vedere il nuovo arrivato, mangime smosso nelle mangiatoie di ferro. Le orecchie mi ronzavano e stringevo un po’ gli occhi, abbassando il capo per cercare di schermare un po’ tutto quel rumore, ma era impossibile.
Poi, la puzza mi investii. Piscio, bisogni vecchi non raccolti sul pavimento delle gabbie, puzzo di pelo bagnato e delle vecchie cucce con all’interno stracci mai lavati, per non parlare degli aliti di un centinaio di cani che abbagliavano tutti nella mia direzione... Un inferno, non trovo altra definizione.
Fui portato in fondo a quel corridoio a cui lati affollavano gabbie con almeno quattro cani all’interno; l’uomo aprì proprio l’ultima, già occupata da un meticcio maschio tipo barboncino e un bel segugio femmina che, intuii, era purtroppo sterilizzata. Mi lasciò lì dentro e si allontanò; gli altri due cani mi annusarono per qualche tempo e io feci lo stesso, poi tornammo ad ignorarci. Senza perdere altro tempo, attratto dall’odore, mi fiondai verso la mangiatoia e presi a mangiare parecchie crocchette sommariamente insapori e un po’ dure. Bevvi anche molto, poi, veramente stanco, mi posai sopra un bancale di legno, mentre la segugia entrava in una cuccia e il barboncino si acciambellava in un angolo riparato dal vento, pian piano il rumore del canile si placò e io mi addormentai.

Continua...

Per scrivere questa storia mi sono ispirata alla mia esperienza di volontariato in un paio di canili.
Il racconto sarà breve: si concluderà tra tre piccoli capitoli e un breve epilogo.
Spero che questo primo capitolo vi sia piaciuto; grazie a chi ha letto. :)
A presto!
  
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