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Autore: Evakai    01/11/2011    16 recensioni
"Tuo padre lo guardavi con indifferenza, per celare la delusione di insegnamenti non ricevuti.
Lo odiasti perché avrebbe dovuto dirtelo, che le tinte su delle corazze facevano la differenza."

Perchè vedere un solo colore, significa non vedere niente. E non avere speranza.
Questa storia è arrivata prima nel contest "FANDOM'S WARRIOR" di Bluemary e Calbalacrab.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Radish
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questa storia è stata scritta per il contest “FANDOM'S WARRIORS” imbastito da Bluemary e Calbalacrab, che gentilmente hanno concesso la pubblicazione prima dell'esito finale, in quanto il racconto è stato già consegnato loro ineditamente.
Spero che vi piaccia! (E che piaccia anche a loro, ovviamente!)
Piccola noticina: si può dire di aver subito una sorta di betaggio XD. Vi ripresento la storia, con le dovute correzioni inviatemi da Bluemary e Calbalacrab che ringrazio profondamente per TUTTO!
Un'ulteriore spargimento d'amore si posa su Tiger Eyes per piccoli appunti che ho apprezzato enormemente, sia per la precisione grammaticale che per la affettuosissima gentilezza! Buona lettura!





Copper Color



Ricordi, Radish?

Quando eri un bambino poco più alto di uno sgabello e il mondo ai tuoi occhi aveva già i colori della guerra: il grigio metallico di una base che chiamavi casa, il nero dei capelli di tuo padre, il rosso del sangue. Quello lo trovavi ovunque, ma non ne avevi mai timore.
Lo avevi associato al naturale ordine delle cose che ti circondava; non era il verde di prati sterminati che ti donava gioia, ma il rosso di laghi che visitavi solo quando ti ferivi o trionfavi.

Ti dicevi allora che eri fiero di com'eri, fiero di chi ti aveva generato.
Non importava che tuo padre non ti guardasse mai in viso; di lui ricordi sopratutto le spalle, a cui lanciavi occhiate timorose e piene di dissennato orgoglio, le guance brucianti di qualcosa di simile all'ambizione, ma pura e pulita come non l'avresti provata mai più.
Lo amavi, in quel modo contorto e prepotente che solo un saiyan avrebbe potuto comprendere, ma che era straordinariamente innocente per la coda che portavi.

Percorrevi la strada che tutti avevano dovuto intraprendere, ma lo facevi a testa alta e senza timore, perché brillavi della luce dei fiduciosi.

Lo sei stato anche tu, ricordi?

Eri pieno di prospettive e volgevi lo sguardo al futuro senza paura, perché ti dicevi che non eri un vigliacco e che quella voglia di emergere, nel tuo piccolo, la possedevi.
E sapevi sorridere; non quella smorfia crudele che caratterizzava gli uomini scimmia, ma il riso genuino di chi trova il bello anche nel marcio. Tu, il marcio, non lo vedevi.
Sapevi ridere anche senza aver chiesto a nessuno come si potesse imparare; l'avevi già appreso da solo e i tuoi compagni ti guardavano sorpresi.

Poi ti costrinsero ad aprire gli occhi.

Il lago in cui cadevi orgoglioso, perché era nel dolore che ritrovavi la tua natura, divenne un mare il cui orizzonte era una linea increspata.
Annaspavi senza muoverti, mentre le correnti ti trascinavano giù.
Terza Classe, solo discesa.

Ti avevano cucito un'etichetta addosso e te l'avevano fatta pesare come un peccato commesso volontariamente.
Eri un giovanissimo saiyan a cui avevano cancellato la fiducia a furia di pugni e di disprezzo.
Adesso quello sgabello lo superavi, ma avresti preferito nascondertici sotto, tanto gravoso era il bagaglio che ti avevano messo sulle spalle: la verità delle scimmie.

Pochissimi anni ed ancora i denti da latte in bocca, ti cucisti le labbra e non sorridesti più.
Tuo padre lo guardavi con indifferenza, per celare la delusione di insegnamenti non ricevuti.
Lo odiasti perché avrebbe dovuto dirtelo, che le tinte su delle corazze facevano la differenza.
Erano gradini che separavano la gloria dal fango.
La sua schiena non sembrò più così grande e invidiabile e quello ti ferì più di ogni cosa, perché quel giorno davanti a te non cadde solo un mito, ma anche tutto quello che ti aveva reso felice.
I tuoi castelli di carta falciati via dalla crudeltà di una coda che non lasciava nulla al cuore.

Fu il primo giorno dei pochi che videro le tue lacrime di dolore e non di rabbia; chiuso nella tua stanza, piangesti come il bambino che non potevi più essere, asciugandoti le guance vergognoso ma profondamente desolato.
Non importò quante volte ti passasti rabbiosamente il dorso delle mani sugli occhi, la sofferenza esplose incontrollata e ti addormentasti con il viso ancora umido.

Il giorno in cui ti imposero di indossare il tuo colore, lo osservasti con disgusto; quel bronzo ti bruciava gli occhi e al sole sembrava la ruggine che aveva cominciato a ricoprire la tua anima.
Ti guardasti intorno e le espressioni sul viso dei compagni che con te dividevano gradi e missioni ti fecero vibrare di dolore.
Erano grati e pieni di febbrile aspettativa.
Pensasti che erano degli stupidi, perché il rame parlava di leghe resistenti ma non preziose.
Erano pezzi comuni, che una volta rotti sarebbero stati sostituiti senza esitazione. Tu eri come loro e già ti sentivi difettoso.
Avevi detto che non valevate nulla, ed infine hai avuto ragione.



Il cielo di quel pianeta era grigio, e lo guardasti per ore mentre tutto ciò che eri ti scivolava di dosso, cadendo sul terreno sporco di sangue e sudore.
Vegeta-sei era scomparso, inghiottito in quel niente angosciante fatto di buio e stelle lontane.

Ricordi, Radish, il suono martellante del tuo cuore?
Nonostante l'avessi appena mutilato, privandolo di ogni cosa, il cielo cinereo di quel mondo nemico ti regalò la pioggia. Piangeva, e tu lo facesti con lui.

Quella corazza pesò di doveri incompiuti, di memorie strappate, e ti ricordò che avevi perso tutto. Il tuo mondo, il tuo popolo e milioni di occasioni.
Deglutisti rumorosamente sperando di ingoiare il magone incastrato in gola; non respiravi bene ed i singhiozzi ti scuotevano.
Con la vista appannata ti piegasti in avanti, poggiando le mani sul terreno viscido, la bocca serrata che chiedeva disperatamente di poter urlare.
Il dolore ti piombò addosso come un macigno, schiacciando definitivamente tutto quello che di luminoso ti era rimasto, lasciandoti senza fiato e con la sensazione di non essere padrone di niente. Nemmeno del tuo corpo.

Il suolo di quel pianeta monco raccolse le tue ultime lacrime da bambino. E vide una rabbia ferina riflessa nei tuoi occhi.

La voragine nel tuo centro divenne un buco nero; avido ed ingordo, si cibava delle tue sconfitte e della tua insoddisfazione.
Meno di venti primavere e già eri vecchio; sciupato e raggrinzito dentro, scivolavi sulla vita, tagliente e distruttivo. Corrodevi per non correre il rischio di essere sgretolato per primo.
Il sangue che versavi era l'emblema della tua duttilità: ti piegavi troppo facilmente per gli occhi della scimmia perfetta.
Ti riflettevi nel suo sguardo e ti rivedevi in ciò che era rimasto di Vegeta-sei; polvere data in pasto alle stelle. La tua polvere, in bocca, fra le dita, nel cuore.
Polvere e rame arrugginito.

Che rumore fa la dignità, quando si frantuma sul pavimento?

Chiudesti gli occhi.
Ti era più facile respirare se non vedevi davvero.
Seguivi l'istinto, che non giudica mai ma impone, ordina e spinge.
Nella sua passionalità gelida ti sentivi meglio; cacciavi e braccavi e t'ingannavi; perché l'acqua è meno densa del sangue e di quest'ultimo conoscevi la sua consistenza sin da bambino, eppure volevi pensare che nelle tue vene ci fosse il plasma bollente di tuo padre, non la limpida inconsistenza di un sorso dissetante.

Ti facevi disgusto e pena e colpivi il nemico per non colpire te stesso; lo colpivi per mostrare a quelle memorie sepolte che sbagliavano, che quella scimmia senza corona sbagliava.
Sbagliavano tutti.

In realtà l'unico che sbagliò fosti tu, Radish.

Il cielo della Terra era accecante e di una tinta nuova, diversa, senza etichetta.

Ti riempisti gli occhi di ogni spicchio di quel nuovo tetto.
Un mondo rigoglioso e pieno di variazioni cromatiche, dove vivevano idioti fortunati, che non sapevano cosa significasse nascere con un colore solo.

Il tuo rame aveva sfumature mai viste sotto quella luce calda e sembrava mutare forma, danzando sulla tua corazza.
Inspirasti aria buona e cercasti colui che di Vegeta-sei non aveva conservato nulla.
Ma tu questo non lo sapevi.

Il destino è uno schifoso bastardo, vero, Radish?

Tuo fratello aveva sottratto le spoglie di tuo padre e le aveva indossate.
Ma non fu quello a darti il colpo di grazia.
Gli occhi di quell'estraneo, così simile a colui che avevi amato e odiato con la stessa feroce determinazione, portavano la storia ed i colori di un mondo diverso, sconosciuto e ancora vivo.

Non era come te, non condivideva niente con il tuo dolore e la tua rabbia.
Era lo stendardo di un luogo dove l'arcobaleno era la porta della libertà; non avrebbe mai sbattuto contro il muro delle evidenze, perché su quella Terra così variopinta esistevano solo tappe da superare, non recinti di filo spinato.

Eri rabbioso. Eri pieno di odio e invidioso. Eri ferito.
Gli rubasti suo figlio perché volevi insegnargli quella crudeltà che lui aveva scampato, quella di cui non portava neanche più il simbolo.

Quando venne a riprenderselo, senza pensare, senza esitare, rimanesti di sasso.
I tuoi occhi lampeggiarono di incredulità mentre quello sconosciuto con cui condividevi il sangue ti sfidò.
Sottovalutasti la forza della speranza. L'avevi persa troppo tempo fa per ricordarti come facesse a risplendere.

La sua speranza ti perforò il petto. Cadeste insieme sul suolo caldo.
L'odore di quel saiyan così sbagliato ti penetrò la carne, ti impregnò la corazza e ti arrivò alle narici.
Sapeva di pulito, di nuovo. Sapeva di libertà e anche di felicità, in qualche contorto modo.

Mentre il fiato fuggiva, rubandoti la vita, lo osservasti.
Stava morendo anche lui, ma sorrideva.
Perché? Come si faceva ad avere quell'orgoglio? Come si atteggiavano le labbra in quella maniera?
Cercasti di capire, di ricordartelo, l'avevi fatto anche tu, anni addietro, Ere addietro.
Volevi chiederglielo, volevi chiedergli anche come facesse quella lega scadente a modellarsi a quel modo.

E poi ti guardò, occhi limpidi e brucianti come quel cielo che ti stava suonando un requiem di nuvole e azzurro. L'ultimo cielo che avresti visto.
Ti guardò con ammirazione; gli avevi donato la morte ma ti contemplava come un dio.
Lui non era solo rame, era tutti i gradi cromatici che potevi immaginare. Tutte le leghe esistenti. Poteva essere anche l'oro dei leggendari.


Le parole ti morirono sulla lingua, il cuore decelerò e si arrese.

Peristi con gli occhi fermi su quel fratello estraneo, su quel saiyan libero che aveva liberato anche te.

Fra le ciglia si fermò una lacrima, il bronzo si sciolse rivelandoti il multiforme colore delle scimmie.

Oro liquido in occhi di tenebra spenti.
   
 
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