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Autore: Miss Demy    03/11/2011    27 recensioni
Non sai quante volte, nell’età dell’adolescenza, ti ho immaginato vicino a me, fantasticando su come, ad esempio, sentendomi tornare a casa, avresti richiuso il tuo quotidiano domandandomi:
«Allora, figliolo, trascorsa bene la serata?»
E forse ti avrei raccontato tutto, delle risate con i compagni di liceo con cui uscivo la sera per bere una birra, delle scommesse con loro su chi avrebbe vinto il campionato di football americano, dei dilemmi del mio migliore amico Motoki sulle ragazze che gli piacevano ma che non ricambiavano e, magari, ti avrei confidato pure la mia infatuazione per quella ragazza che amavo chiamare Odango Atama per attirare la sua attenzione e avere un pretesto per poterle parlare anche quando non c’era nulla da dire. Probabilmente mi avresti consigliato di cambiare tattica con lei, magari mi avresti suggerito di portarla al cinema a guardare una di quelle storie d’amore che piacciono alle ragazzine o un localino carino in cui invitarla a cena. Chi lo sa.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Chibiusa, Mamoru/Marzio, Usagi/Bunny
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna serie
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Scivola lentamente, liscia e fredda, sotto i miei polpastrelli, ricordandomi che è solo un oggetto; io però, per quello che rappresenta, la considero la cosa più preziosa che abbia mai accarezzato. Il sole che penetra dalla portafinestra alle mie spalle riflette un sottile fascio di luce su di essa e, per un attimo, riesco a scorgere sul vetro rettangolare i miei occhi: non mi ero accorto di quanto fossero spenti e di quanto il mio viso apparisse serio. Faccio queste riflessioni solo per un attimo, però, prima di concentrarmi nuovamente su di essa e rendermi conto di quanto tempo sia effettivamente trascorso dal giorno in cui questa foto che custodisce al suo interno è stata scattata. L’altro me stesso, il me stesso di dodici anni, al centro della cornice che custodisco come un tesoro prezioso, nei suoi bermuda marroni e maglietta verde, sfoggia un sorriso fiero e soddisfatto mentre tiene stretta in un pugno la coda di uno dei grossi pesci pescati al fiume. Lo osservo per qualche istante e cerco di ricambiare il sorriso, anche se so per certo che il mio è diverso: è malinconico, fatto di rammarico per qualcosa che non tornerà più, per dei momenti felici e spensierati che sono volati via, per sempre.
«Mi spiace, piccolo, è il sorriso migliore che io possa farti in questo momento» parlo a me stesso, al me stesso dal volto ingenuo e allegro, incorniciato da capelli color ebano che mia madre aveva pettinato con cura prima di uscire da casa; so che sembra un comportamento da folli parlare a una foto ma la verità è che provo tenerezza per te, piccolo Mamoru. Se solo avessi saputo che da lì a meno di un anno il tuo sorriso trionfante sarebbe scomparso per molto tempo, che i pesci e le feste cittadine sarebbero restati solo un ricordo impresso per sempre in questa foto che, a distanza di tredici anni, avresti tenuto tra le mani come una reliquia, forse avresti vissuto tutto più intensamente, forse avresti fatto caso a tante piccole cose che hai tralasciato e avresti detto certe frasi subito, senza pensare c’è tempo…
 
Che bella che sei, mamma. Ti accarezzo ancora, stando attento a non lasciare impronte sul vetro di questa cornice preziosa;  il mio è un movimento istintivo verso di te che, ormai da tredici anni, sei in posa con i capelli corti dai riflessi dorati e con quell’abito bianco che scende sui fianchi a campana e che consideravi il tuo abito più bello; la tua mano è posata sulla spalla di me bambino, resta lì, per sempre, e ogni volta che ci faccio caso non riesco più a distogliere lo sguardo. Tutte le volte è come un temporale improvviso in una giornata di sole, è passato ormai tanto tempo ma il tuo tocco su di me riesce a commuovermi e rabbuiarmi sempre. Con il pollice sfioro ancora l’immagine, la tua mano, pensando inconsciamente di poter in quel modo accarezzare anche te. La verità è che ho bisogno di sentirti ancora vicino, di percepire il tuo calore e respirare a pieni polmoni quel profumo di mamma che mi manca da morire. È un odore unico, speciale, che cambia sempre: a volte ha l’odore della cioccolata calda e di biscotti appena sfornati al rientro da scuola in una giornata di neve, altre volte ha il profumo di detersivo alla lavanda che usavi per lavare i panni prima di stenderli al sole. Le tue mani profumavano di lavanda anche dopo. L’odore però che preferivo più di tutti era il tuo naturale, quello che non saprei descrivere, quello che era solo tuo, quando non lo coprivi con profumi o creme: quello che sapeva di mamma.
 
Fissando l’immagine, l’odore intenso dei pesci è ancora così vivo che sembra in grado di riportarmi lì, in quel giorno, con voi.
 
Tu, mamma, eri felice, i tuoi splendidi occhi azzurri sono ancora leggermente socchiusi per via del sole che avevi di fronte. Lo avevi detto a papà che quella non era una buona posizione per una foto che avrebbe immortalato un momento importante, che volevi incorniciare ed esporre sulla mensola del salone perché avrebbe ricordato la vittoria del tuo Mamo-chan alla gara di pesca alla festa cittadina, ma papà non aveva voluto sentire obiezioni: da quella prospettiva era possibile ammirare alle nostre spalle il fiume che, simile a una distesa azzurra, era stato complice di quel trionfo. Il fotografo gli aveva dato ragione e tu sospirando rassegnata non avevi più voluto controbattere. Se avessi saputo che avrei potuto ammirare i tuoi occhi dello stesso colore del cielo solo in una foto, avrei insistito io stesso per cambiare posizione.
 
Anche tu, papà sei qui, in posa, alla mia sinistra. Sai che, anche se sono ormai un uomo, mi si stringe il cuore mentre osservo il tuo sguardo fiero e orgoglioso che sfoggi all’obbiettivo della macchina fotografica? I raggi del sole illuminano il tuo volto dalla barba incolta, come solevi portarla tu, e un punto luce si è creato proprio sopra la mano che hai posato sui capelli di quel ragazzino con i bermuda.
 
 
«Bravo figliolo, sono fiero di te!» eri la felicità in persona e la tua voce colma di soddisfazione lo avrebbe testimoniato a chiunque non avesse potuto vedere il tuo viso, dopo che il giudice di gara mi aveva proclamato vincitore.
Forse non te ne rendesti conto ma ti vidi sobbalzare dalla sedia mentre la tua espressione, da curiosa e piena di ansia, lasciava posto alla gioia estrema. Ti avvicinasti rapidamente,  facendoti spazio tra le tante persone giunte ad assistere alla premiazione.
«Questo è il mio campione!» lo avresti urlato a tutto il mondo mentre arruffavi i miei capelli  e ti chinavi per stringermi forte e sollevarmi tra le braccia.
Ricordo ancora che lasciai uscire una risata ingenua e carica di entusiasmo. «Sì! Ho vinto!» cingendoti il collo con un braccio e alzando l’altro al cielo, in segno di vittoria: la mia prima  e inaspettata vittoria.
Mi avevi abbracciato forte, così tanto che, se ci penso, riesco ancora  a percepire l’odore di sigaro di cui erano sempre impregnati i tuoi capelli e la tua barba.
«Certo che hai vinto, sei il mio campione fortissimo!» avevi così tanta fiducia in me e nelle mie capacità che avresti pure  scommesso su quella prima di tante piccole soddisfazioni per un ragazzino della mia età.
«L’anno prossimo voglio partecipare di nuovo» toccai terra coi piedi e ancora gasato mi voltai verso la mamma che attendeva per potermi baciare sulla guancia dopo che tu mi avevi tenuto tutto per te.
«Certo,» eri incontenibile, ti voltavi in continuazione ed elargivi sorrisi e cenni col capo a tutti coloro che, passando, si congratulavano per la vittoria, «ma c’è tempo figliolo, c’è tempo… »

 
Se chiudo gli occhi per un attimo, nonostante siano trascorsi tredici anni, il tuo sorriso è ancora presente nella mia mente, così come le piccole rughe che si formavano ai lati della tua bocca quando ridevi entusiasta.
C’erano ancora tante cose che avremmo dovuto fare assieme: nuove gare di pesca da vincere, altre passeggiate il Sabato sera dopo aver mangiato in uno dei ristoranti carini scelti dalla mamma a cui davi sempre carta bianca, altri premi da decidere per quando, tornando a casa da scuola, vi avrei riferito di aver vinto la gara delle tabelline rendendovi ancora una volta fieri di me. Ci sarebbero dovute essere anche conversazioni tra padre e figlio, quelle che all’inizio imbarazzano un po’ ma che poi fanno soltanto sentire un ragazzino un po’ più uomo.
Non sai quante volte, nell’età dell’adolescenza, ti ho immaginato vicino a me, fantasticando su come, ad esempio, sentendomi tornare a casa, avresti richiuso il tuo quotidiano domandandomi:
«Allora, figliolo, trascorsa bene la serata?»
E forse ti avrei raccontato tutto, delle risate con i compagni di liceo con cui uscivo la sera per bere una birra, delle scommesse con loro su chi avrebbe vinto il campionato di football americano, dei dilemmi del mio migliore amico Motoki sulle ragazze che gli piacevano ma che non ricambiavano e, magari, ti avrei confidato pure la mia infatuazione per quella ragazza che amavo chiamare Odango Atama per attirare la sua attenzione e avere un pretesto per poterle parlare anche quando non c’era nulla da dire. Probabilmente mi avresti consigliato di cambiare tattica con lei, magari mi avresti suggerito di portarla al cinema a guardare una di quelle storie d’amore che piacciono alle ragazzine o un localino carino in cui invitarla a cena. Chi lo sa.
Sai il tuo divano? Quello di pelle bianca che amavi tanto, così tanto da occuparlo sempre quando eri a casa per leggere le tue riviste di sport preferite o per guardare comodamente la televisione? A volte mi sedevo lì e pensavo a come, dopo una giornata di studio intenso, ti avrei fatto compagnia commentando insieme qualche scena di film che ritenevo troppo inverosimile o criticando qualche decisione dell’arbitro di football. Se ripenso alle discussioni che i miei coetanei diciassettenni facevano, desiderando con tutta l’anima di ricevere un’automobile per far colpo sulle ragazze o di perdere la verginità alla festa di fine anno per gonfiare la propria autostima e rendersi soddisfatti davanti agli amici, ti confesso che l’unica cosa che io ritenevo importante più di tutto il resto era poter rimanere a parlare con te sul divano, sorseggiando una tazza di the caldo. Non avrei potuto chiedere di meglio.
Chissà, magari è la mancanza di te, di quello che non abbiamo potuto più fare insieme che mi porta a parlare così; magari se tu fossi stato con me anche io sarei stato ossessionato da un’auto sportiva o dal fare colpo sulla ragazza più popolare della scuola e portarla alla festa di fine anno, e forse io e te avremmo pure litigato perché non avresti voluto regalarmi l’automobile. Credo che in quel momento ti avrei persino odiato per aver rovinato i miei piani di diciassettenne, e per me non avere l’auto nuova o la ragazza più carina del liceo sarebbe stato l’unico problema serio nella vita.

 
Porto la cornice al petto, all’altezza del cuore: è questo il posto più adatto, la vera parte di me dove merita di stare la famiglia unita raffigurata in una fotografia che custodisco preziosamente temendo che il tempo possa ossidare e ingiallire uno dei momenti più sereni e felici della mia vita.
Non poter sentire il vostro calore ma soltanto il vetro freddo di questo portafoto fa male, brucia un po’.
Tante volte ho desiderato di andarmene via con voi, volare lassù, invece di continuare a vivere, di sopravvivere senza di voi che per me eravate tutto, tutto ciò di cui un bambino ha veramente bisogno. L’ho pensato, voluto, ma poi scuotevo la testa, come se la tua voce, papà, tuonasse troppo forte per i miei timpani. E allora ti immaginavo dietro di me, con la mano sulla spalla della mamma, mentre mi sussurravi:
«La Vita è un dono, figliolo, vivila, vivila intensamente, non permettere al tuo dolore di ostacolare i tuoi progetti; piangendoti addosso non cambierai le cose, vivi anche per noi, rendici ancora fieri di te. Noi abbiamo fiducia in te.»
 
Sembravano parole vere, non soltanto il frutto di un estremo bisogno di sentirvi ancora vicino. Il desiderio di continuare a rendervi orgogliosi di me cresceva come un fuoco quasi assopito sul quale veniva gettato dello spirito che alimentava la fiamma, rendendola simile a una lunga lingua di fuoco pericolosa. Quelle parole pronunciate con quel tono combattivo col tempo hanno iniziato a incutermi una grinta, una voglia di fare, di combattere, di vincere che spesso avevo dimenticato quando i ricordi divenivano troppo dolorosi, simili a spade affilate, e l’unico mio pensiero era quello di raggiungervi. Ho imparato, o meglio, sto imparando a trasformare il dolore in un lume dal chiarore abbagliante; la luce dei ricordi inizia a illuminare il sentiero chiamato vita e ciò che voglio fare è percorrerlo con soddisfazioni e successi così da ritrovare il vostro sorriso colmo di orgoglio alla fine della strada. Vorrei farvi capire, mamma e papà, che tutto ciò che avrò realizzato, tutto ciò per cui avrò lottato, tutto ciò in cui avrò creduto, lo avrò fatto con voi, grazie a voi.
La prima grande soddisfazione dopo il tragico incidente fu essere stato ammesso all’Università più prestigiosa di Tokyo, distinguendomi ancora una volta quando il professore dell’ultimo anno mi propose per la borsa di studio che mi avrebbe permesso di finire gli studi a NYC. Un privilegio per cui tanti avrebbero dato l’anima.
In quel momento, appresa la notizia, il mio pensiero era andato a voi.
 
«Questo è il mio campione!» tu, papà, mi avresti abbracciato forte ancora una volta, magari – considerando la mia statura di un metro e ottanta centimetri – non mi avresti più sollevato da terra come alla gara di pesci, però ero certo che il tuo sguardo sarebbe stato commosso, con le labbra serrate per trattenere le lacrime di gioia, e la voce entusiasta ma tremante. Ne ero certo.
Tu, mamma, invece non avresti parlato, ti saresti limitata a stringermi forte a te, obbligandomi a incurvarmi per poter poggiare il mento sulla tua spalla, e mi avresti fatto capire i tuoi stati d’animo con quella stretta, col cuore, sperando che non mi accorgessi delle lacrime istintive al solo pensiero di non poter vedere più tuo figlio tutti i giorni.

 
Gli occhi pizzicano ancora una volta; lascio uscire tutto il mio dolore, per un attimo metto da parte il Mamoru uomo e ritorno bambino: piango per la rabbia, per aver sempre dovuto immaginare situazioni ed espressioni, frasi e odori in grado di lenire la vostra mancanza e il bisogno di un ragazzo di condividere i momenti più importanti della propria vita con i propri genitori. Piango solo per un po’, poi asciugo le lacrime con un movimento rapido del polso, sperando che questo momento fatto di ricordi non abbia lasciato segni della mia ferita che non si rimargina mai del tutto. E forse è anche giusto così.
Credo sia arrivato il momento di andare, di posarvi di nuovo sulla mensola di questa libreria, con la cornice rivolta verso l’ingresso di casa, in modo che possiate guardarmi sempre quando entrerò fiero per l’ottimo lavoro svolto o per qualche soddisfazione presa con il primario del reparto di chirurgia: so che gioirete con me. E se ci saranno dei momenti duri da affrontare e superare, se qualcosa andrà storto e la tristezza mi assalirà, so che guardando voi e il vostro sorriso orgoglioso di me ritroverò la grinta e la forza d’animo che a volte potrebbe mancarmi. So che ci sarete sempre.

 
 
La piccolina di casa corre verso di me trotterellando, sento i suoi passi farsi sempre più vicini e mi rendo conto che il suo distrarmi e riportarmi al presente sia un bene: a volte non mi accorgo di farmi solo altro male quando mi rinchiudo nei miei pensieri e nel mio dolore; cerco di imitare il sorriso di quel bambino con il pesce il mano, solo per lei, per loro, per non far scorgere loro la mia tristezza. Non voglio che si incupiscano a causa mia, vorrei poterle vedere sempre allegre. Mi volto e le sue piccole labbra si incurvano in un sorriso, i suoi occhi splendono di luce e di ingenuità; mi scalda il cuore, lo riempie di amore, di un amore diverso rispetto a quello che provo per te, mamma, e per te, papà, però l’intensità è la stessa.

«Io e mammina siamo pronte» e osservandola nel suo cappottino rosso, e con la sciarpa bianca avvolta al collo che mette in risalto il suo dolce viso paffuto, lo avrei dedotto anche se lei non lo avesse detto.
Mi chino per prenderla in braccio. «Eccola qui la mia bambolina» schiocco un bacio sulla sua guancia soffice e profumata di colonia, sentendola stringersi a me e ridacchiare. Il mio cuore si scioglie come neve al sole.
 
«La mia nipotina ha il tuo stesso sorriso, tesoro mio.» Sì, tu, mamma, avresti detto proprio così in questo momento, e io non posso non confermare questa somiglianza. Chiudo gli occhi un solo istante, affondando il viso sulla morbida testa della mia bambina e sentendo richiudere la porta della cameretta.

Usagi, nella sua giacca azzurra mi guarda, ha sul volto un sorriso, diverso però da quello di mia, nostra figlia: Usagi sa, comprende, mi conforta, mi capisce anche solo da uno sguardo. Da quando l’ho incontrata per la prima volta ho dovuto ricredermi su di lei in merito a parecchie cose. Apparentemente sembrava una ragazzina un po’ stralunata e svampita a cui interessava solo giocare ai videogames senza curarsi dello studio, ma poi ho iniziato a conoscerla meglio e la sua solarità mi ha rapito, la luce che i suoi occhi emanavano quando parlava, quando rideva e scherzava mi ha fatto apprezzare quella testa di Odango sempre di più e, più le stavo accanto, più le facevo spazio nel mio piccolo e solitario mondo, e più la sua luce abbagliava l’oscurità in cui vivevo; non sono più riuscito a vivere nelle tenebre, senza la sua voce stridula ma sempre dolce e premurosa, senza la sua voglia di vivere: semplicemente senza di lei.
Mi innamorai di lei, era inevitabile, e sono sicuro che se foste stati qui l’avreste amata anche voi. Da quando c’è lei posso dire che non mi sono più sentito solo, lei ha riempito la mia vita con piccoli gesti colmi di grande amore rendendomi felice, colmando in parte quella solitudine che attanagliava le mie giornate e attutendo quel dolore che la vostra mancanza non smetterà mai di farmi provare.
Lei è la mia famiglia, nel sentiero della mia vita mi sta accanto, stringendomi la mano e portando un lume che schiarisce il cammino. La Luce dei ricordi mi permette di far tesoro delle esperienze passate, dei momenti felici con voi dai quali troverò sempre la grinta per andare avanti e rendervi fieri di me, ma la Luce di Usagi illumina il futuro, rappresenta la speranza per il nostro mondo: quel mondo che cerchiamo di costruire al meglio per lei, la nostra piccolina.
 
Avanza verso di me continuando a guardarmi negli occhi con espressione dispiaciuta: lei condivide il mio dolore; è per lei che forzo un sorriso strizzandole l’occhio e stendendo il braccio libero per poterla avvicinare a me e baciarle le labbra.

«Andiamo dai nonni?» Chibiusa interrompe quel silenzio allentando la stretta e guardandomi con quegli occhioni vispi e curiosi.
«Sì, andiamo dai nonni.» Lo ripeto solamente.

 
 
Il cimitero è gremito di persone, c’è tanta gente venuta per posare un fiore sulla lapide di chi non c’è più. Il sole riscalda i nostri volti e ci offre quel tepore simile a un dolce abbraccio invisibile. Chibiusa ha scelto un mazzo di rose bianche e rosa; è da due anni, da quando lei ne aveva tre, che sceglie i fiori da portarvi in dono.
Ci avviciniamo alla lapide di marmo grigio sulla quale spiccano in dorato i vostri nomi sopra la foto ovale che vi ritrae assieme, abbracciati e sorridenti. Serro le labbra, stavolta non sono solo, le mie ragazze sono con me, devo cercare di controllare le mie emozioni. Credo che Usagi però abbia capito che sto cercando di contenermi per loro, lei mi scruta dentro, sempre; anche se a volte fa la sciocca e l’ingenua io so che la sua sensibilità le permette di captare i miei stati d’animo anche quando non parlo.

«Vado a riempire il vaso» sussurra con rispetto per chi dorme in eterno; mi volto verso di lei, annuendo appena. Vorrei farle capire con il mio sguardo quanto le sono grato per tante cose, per tanti momenti che cerca sempre di rendermi più semplici.
Stende un braccio verso la bambina, facendole un cenno col capo ed esortandola ad andare con lei, ma Chibiusa mi dà la mano, scuotendo la testa. La prendo in braccio, in modo che possa guardarvi meglio. 


«Posso dare un bacino?» un sorriso si forma spontaneo sul mio volto, senza parlare mi avvicino alla lapide; lei posa una mano sul marmo e preme le labbra sul vetro che protegge la foto dal vento, dal sole, dal tempo.
«Papà, loro ti mancano?» A volte non mi rendo conto che Chibiusa stia crescendo, a volte le sue domande mi soprendono o forse sono soltanto io che rimango spiazzato temendo di non avere sempre la risposta pronta, di non trovare le parole adeguate per spiegare a una bambina di cinque anni certe cose, certe emozioni che hanno segnato la mia vita in maniera profonda.
«Sì, mi mancano molto» mi lascio andare con lei accorgendomi che le sue labbra si sono stropicciate dando vita a uno sguardo triste che ha incupito i suoi occhi, «ma loro sono sempre vicino a me, ricordare e commemorare fa sì che le persone che amiamo non se ne andranno mai, vivranno sempre dentro di noi.» Porto la sua piccola mano sul mio cuore, sperando capisca che finché il mio cuore batterà, voi vivrete. Vivrete in me, nei miei ricordi.
Ed è proprio quando mi volto di nuovo ad osservare la vostra foto che, sul vetro, di riflesso, vedo Usagi. Si avvicina lentamente, come a non voler disturbare quel momento che è solo mio con voi; mi giro offrendole un sorriso e uno di quelli sguardi eloquenti che da sempre ci rendono complici.
«Grazie, Amore» e lei sa che non è solo per l’acqua.
 
Sistemo i fiori, uno a uno, all’interno del vaso: sono profumati, freschi, dai petali lisci come il velluto e poi capisco che è ora di andare, di riprendere a vivere il presente con coloro che illuminano il mio futuro.
Ho voglia di portare Usagi e Chibiusa al fiume, di fare sedere mia figlia sulla riva in modo che possa specchiare il suo viso sulla distesa d’acqua azzurra, come la chiamavi tu, papà, e di raccontarle di te, della gara dei pesci e della mamma, spiegandole anche perché in quella foto che teniamo in salone lei sia venuta con gli occhi semichiusi.
Ho voglia di sedermi sul divano con lei, quando sarà ragazzina e tornerà a casa dopo un’uscita con le amiche. Le chiederò com’è andata la serata e le proporrò di bere assieme una tazza di the caldo; l’ascolterò sempre, farò in modo di guadagnare la sua fiducia, così che non si imbarazzerà a parlarmi del ragazzino che le farà battere il cuore e col quale spera di andare al ballo della scuola. Dovrò tenere a freno la mia innata gelosia per quello che è ancora uno scricciolo che si stringe a me e profuma di colonia e borotalco. E se tornerà a casa triste, in guerra con il mondo intero, le racconterò di Motoki e dei suoi dilemmi con le ragazze, di ciò che scommettavamo con gli amici sulle partite di football e di come amavo far innervosire sua madre quando aveva la sua età e portava quella strana capigliatura simile ai dolcetti di cui era solita strafogarsi. La farò ridere, le farò capire che ci sarò sempre per lei, che illuminerò il suo percorso permettendole di camminare senza inciampare e, se cadrà, sarò sempre pronto a prenderle la mano e aiutarla a rialzarsi, fin quando non sarà in grado di correre, di spiegare le ali e volare libera.
Spero sarà fiera di me, spero di essere un buon genitore, spero mi considererà un amico, un confidente.
E sono sicuro che se ciò avverrà, mi guarderete ancora una volta orgogliosi di me: di quel bambino con il pesce grosso nella mano sinistra che avrà imparato a essere anche un buon Padre.


 

Fine




Il punto dell’autrice

Questa shot, da come avrete capito, doveva essere pubblicata ieri per la giornata dedicata alla Commemorazione dei Defunti; per diversi motivi non ho potuto. Spero che possa essere stata da voi gradita ugualmente.
Ho preferito inserirla come AU perché nell’anime-manga sappiamo che Mamoru ha perso tutti i suoi ricordi a seguito dell’incidente e a me piaceva poter raccontare alcuni momenti trascorsi con i suoi genitori.
Credo sia doveroso approfittare di questo piccolo spazio per ringraziare davvero tanto, Quintessence, carissima amica e autrice stimatissima per i preziosi consigli che mi ha dato per questa Shot e anche Miss Moonlight, Federika21, Freegirl87, Sun86, La_manu e Dudy per il sostegno e l’appoggio in uno dei miei frequenti momenti di crisi da autrice. Grazie di cuore, Amiche.
Come sempre vi saluto ringraziandovi per aver letto qualcosa di mio; spero di ricevere le vostre opinioni e sapere così cosa vi è piaciuto, cosa no e cosa eventualmente vi ha suscitato delle emozioni. Ecco, mi piacerebbe conoscere le parti che avete aprrezzato di più, magari per farne delle note sulla pagina Moonlight fan club di facebook.
Un bacione e a presto!

Demy
 

    

 

   
 
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