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Autore: Julia Veiss    03/11/2011    3 recensioni
...e fu in quel momento che la vidi.
Da quel giorno, la mia vita non fu più la stessa.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Alice.
Questo era il suo nome.
L’ho conosciuta quando sono entrata alle scuole medie. Per me è stato un grande cambiamento: scuola nuova, insegnanti nuovi, compagni nuovi, città nuova. Vita nuova, se vogliamo dirla tutta.
Ci trasferimmo qui da una grande città poco distante. Papà aveva appena perso il lavoro, e per noi fu un dramma: appena trasferiti, mio padre falciava il prato ai vicini per cercare di far quadrare lo stipendio di mia madre, che lavorava part-time in un locale squallido nel quartiere vicino. Persino mio fratello maggiore fu costretto a svolgere lavoretti qua e la, ma avendo solo quindici anni non è che avesse tante offerte di lavoro.
Ricordo bene il momento in cui vidi Alice per la prima volta: eravamo al lago con i miei genitori, qualche giorno prima di cominciare la scuola. Lei era così piccina, così graziosa. Portava un elegante vestitino verde bottiglia, pieno di pizzi, che le arrivava appena sotto le ginocchia facendola somigliare ad una bambola di porcellana. I capelli neri, legati in due codini, erano molto in contrasto con il viso, di un pallore quasi cadaverico. Gli occhi, grandi e luminosi, erano come due smeraldi incastonati nel viso paffuto.
Quel giorno, mi ero allontanata per un po’ dai miei genitori e da mio fratello. Volevo starmene in santa pace e non stare a sentire i miei che discutevano sempre di lavoro, lavoro e soltanto lavoro.
Non so per quanto camminai: so solo che mi fermai quando, anche ascoltando attentamente, non riuscivo più a sentire la voce burbera di mio padre.
Fu allora che la vidi per la prima volta.
Era seduta sulla riva del lago, intenta a tracciare dei solchi nel fango con un bastoncino.
Ricordo che stetti ad osservarla per un po’. Era divertente guardarla sapendo che lei non mi aveva notata.
Ad un tratto si voltò di scatto. Mi sorrise, come se ci fossimo sempre conosciute. Io ricambiai il sorriso e mi diressi verso di lei, trotterellando allegra.
Non ricordo precisamente cosa ci dicemmo quel giorno. Ricordo solo una frase: “mi raccomando, non parlare a nessuno di me!”, mi disse in un soffio.
Restammo a giocare sulla riva del lago per tutto il pomeriggio.
Era quasi buio quando mia madre mi trovò, dopo avermi cercata in lungo ed in largo.
Appena vidi mia madre mi alzai in fretta, pronta a correrle incontro come sempre. Mi girai verso il punto in cui era seduta Alice, ma lei non c’era più. Probabilmente era corsa via sentendo la voce di mia madre.
Quella notte, feci degli strani sogni popolati da delle bambole di porcellana con i capelli scuri e gli occhi color smeraldo.

La scuola cominciò senza troppe sorprese. Mi sentivo sola, tanto sola in quella classe di ventiquattro bambini.
Provai a fare amicizia, ce la misi tutta ma visto che ero “una di città”, nessuno voleva giocare con me. Anzi, gli altri bambini preferivano di gran lunga prendermi in giro, spintonarmi e darmi della snob.
Non ho mai detto nulla ai miei genitori di tutto questo; loro avevano già tanti, troppi problemi con le questioni di lavoro per preoccuparsi di sciocchezze simili.
Magari, se ne avessi parlato con qualcuno, la mia vita adesso sarebbe diversa.

Qualche settimana dopo l’inizio della scuola, i miei mi diedero il permesso di andare e tornare da sola. Il tragitto casa/scuola non era lunghissimo, però percorrerlo senza uno dei miei genitori mi faceva sentire grande, quasi adulta.
E, un pomeriggio, la rividi.
Mi aspettava sulla panchina del cortile della scuola. Come la prima volta, mi sorrise. Io corsi verso di lei, felice di avere qualcuno con cui chiacchierare.
Facemmo la strada assieme, quel pomeriggio. Mi accompagnò fino davanti alla porta di casa. Suonai il campanello, ma quando mi girai per salutarla, lei era scomparsa.
Anche il pomeriggio seguente, lei era lì ad aspettarmi. Facemmo la strada assieme, e come il giorno precedente, lei scomparve all’improvviso.
Venne a prendermi a scuola tutti i pomeriggi, per quasi due mesi.
Man mano che passavano i giorni, mi accorsi che riuscivamo a comunicare anche senza l’uso della parola. Bastavano degli sguardi, dei cenni, ma riuscivamo a dirci tutto senza aprir bocca. Per me era una cosa fantastica. Lei era l’unica cosa positiva che avevo in quel posto che avevo cominciato ad odiare. Odiavo i miei compagni, odiavo le mie maestre, odiavo i datori di lavoro dei miei genitori. Odiavo tutto di quel posto, tranne Alice.
Ogni sera riempivo il mio diario di pagine su di lei, sulle cose che mi diceva, su ciò che facevamo assieme. Nessuno doveva sapere di lei, perché era solo mia. Nessuno aveva il diritto di toccare la mia Alice.
Cominciai ad isolarmi dal mondo: quando tornavo da scuola, facevo i miei compiti alla bell’e meglio e mi chiudevo nella mia stanza, ad inventare mille avventure per me ed Alice. Era lei che mi faceva andare avanti, in quel posto. Era solo merito suo.
I miei genitori andarono ai colloqui con le maestre, che dissero loro che mi stavo isolando, che non avevo amici e blah blah blah. I miei genitori dissero che era solo una fase, che ero rimasta molto traumatizzata dal trasloco e che presto mi sarei adattata alla nuova vita.
Nel frattempo, io ed Alice passavamo sempre più tempo insieme: uscivamo anche nel pomeriggio, e stavamo fuori finchè non diventava buio.
Ci piaceva andare nelle campagne attorno al paesino dove vivevo, dove nessuno poteva disturbarci. Un giorno trovammo un vecchio ponte ammuffito e traballante che scorreva sopra ad un ruscello: decidemmo che quello sarebbe stato il nostro rifugio segreto, il posto dove potevamo stare in pace, da sole.
Poi, per una settimana piovve, e io ed Alice ci vedevamo solo nel tragitto casa/scuola.

Una mattina piuttosto uggiosa, Alice mi venne a prendere anche mente mi avviavo verso la scuola. Mi disse che voleva andare al “nostro” ponte a giocare. Io la seguii senza indugio: a scuola non ci volevo andare, e tutto ciò che desideravo era passare del tempo con lei, la mia unica amica.
Corremmo verso le campagne, rincorrendoci, e ridendo.
Arrivammo al ponte. Dopo tutti quei giorni di pioggia, il legno di cui era costituito era un po’ marcito, ma io non ci badai.
Alice saltellò allegra sopra al ponte. Arrivata dall’altra parte, mi disse: “presto, vieni, ho trovato un posto bellissimo dove giocare!”
>Il ponte sembrava ancora più pericolante dopo tutta quell’acqua, ma il desiderio di seguire Alice era più forte di me.
Feci un passo, due. Poi mi misi a correre sopra al ponte, Alice dall’altra parte che mi sorrideva come sempre.
D’un tratto, non mi sentii più nulla sotto i piedi.
Un tonfo, dolore lancinante alla testa, qualcosa di rosso che mi scendeva sulla fronte, poi… più nulla.

Quattro giorni dopo, mi ritrovarono.
Morta.
Mi trovò un boscaiolo che andava a tagliare della legna per l’inverno. Il ponte aveva ceduto, e io ero caduta di sotto battendo la testa violentemente.
I miei genitori lessero il mio diario: le pagine su Alice, tutte le nostre avventure, i miei pensieri, i suoi pensieri.
Gli psicologi e quelli che si occuparono della mia morte constatarono che Alice era solo il frutto delle fantasie di una bambina depressa e disadattata.
I miei genitori non si perdonarono mai quello che mi era successo.
Mia madre morì un mese dopo, di crepacuore.
Adesso sto sottoterra, in una tomba.
Ma la sto ancora aspettando.

Sto ancora aspettando che Alice venga a prendermi per portarmi da qualche parte a giocare.
  
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